Partito Democratico: il tempo della scelta è ormai arrivato

Di Franco Marini Venerdì 29 Febbraio 2008 20:14 Stampa

È davvero necessario un nuovo partito nella politica italiana? È questa la risposta migliore ai problemi del paese? Credo sia giusto porsi questi interrogativi proprio ora che, dopo una stagione di incertezze e rallentamenti, è stata imposta dalle maggiori forze politiche del centrosinistra una accelerazione significativa al raggiungimento dell’obiettivo del Partito Democratico. Accelerazione tanto più necessaria in quanto è divenuta evidente la necessità di superare i limiti del nostro bipolarismo resi ancor più chiari, in questa fase, da una pessima legge elettorale che ha definitivamente allentato ogni significativo legame tra i cittadini elettori e i rappresentanti eletti.

 

Le aspettative di migliore governabilità e di qualità della vita democratica manifestate dagli italiani in questi anni potrebbero infatti non trovare adeguata risposta ove non si ponesse mano, con proposte più solide, al definitivo superamento della transizione avviata all’inizio degli anni Novanta. Quindici anni di movimenti politici e di cartelli elettorali, di partiti storici protesi verso un complesso rinnovamento, hanno suscitato aspettative e consapevolezze maggiori nei cittadini e richiedono oggi scelte politiche più incisive e responsabilizzanti.

Un nuovo partito deve anzitutto rispondere alle domande che vengono dalla società italiana e alle sfide che si pongono nel contesto europeo e internazionale. Il sistema dei partiti di massa che ha fatto la Repubblica e la Costituzione, che ha accompagnato il paese nella sua straordinaria crescita economica, sociale e civile, ha iniziato a mostrare i suoi limiti fino dalla metà degli anni Settanta. Crescita collettiva equilibrata e diritti individuali chiedevano allora un nuovo progetto di modernizzazione sociale e politica, dopo quello degasperiano del dopoguerra e quello del primo centrosinistra. Fallirono così i tentativi di rinnovamento portati avanti in successione dai cattolici democratici con la Democrazia Cristiana, dai comunisti berlingueriani e dai socialisti craxiani negli anni Ottanta. Ciascuno fece, da solo, un tratto di strada in avanti, ma non riuscì a delineare i contenuti e la proposta di nuova crescita nella stabilità e nell’armonia sociale.

Sono nel frattempo cresciute le aspirazioni di cittadinanza democratica di fasce sempre più vaste di cittadini che esigono una democrazia più aperta ed efficiente. L’idea del Partito Democratico non è di oggi; ha radici nel dibattito confuso di questi anni, tra spinte di movimenti elitari e resistenze di partiti solo restaurati.

Di certo la nascita di questa esperienza nuova non potrà avvenire dall’alto, attraverso decisioni verticistiche di élite ristrette. Si tratta piuttosto di offrire, da parte della politica, una proposta più incisiva e stimolante, che intercetti la crescita diffusa di cittadinanza democratica e la coinvolga nella responsabilità della vita collettiva e dei suoi equilibri di giustizia e di libertà. Dunque un nuovo partito che deve anzitutto rispondere a domande vere e profonde della società.

Rispetto al dopoguerra i compiti sono assai diversi, ma non meno impegnativi. Nella società italiana di oggi vi sono infatti milioni di operatori economici, di lavoratori dipendenti e autonomi e di ragazzi e ragazze che studiano e si formano per le sfide del mondo contemporaneo. Vi è una nuova consapevolezza di milioni di donne nella partecipazione alla vita sociale e pubblica. Vi sono milioni di anziani che, forse per la prima volta, vivono una lunga vita di pensione in condizioni di maggior salute e serenità.

Tutto questo non vuol dire che non manchino squilibri, anche profondi, nelle diverse parti della società: si pensi alla precarizzazione del lavoro giovanile, alla insufficiente inclusione lavorativa delle donne, alla necessità di migliori politiche redistributive della ricchezza prodotta. Vuol dire piuttosto che le riforme interne da fare sono più difficili e complesse perché riguardano aree sociali peculiari, perché si devono attenuare protezioni corporative, perché la crescita economica non conosce più tassi elevati e le risorse da impiegare sono limitate. Tuttavia il paese, dopo lunghi decenni di una economia di mercato, è notevolmente cresciuto, è entrato stabilmente nel novero dei paesi più avanzati e intende svolgere un suo originale protagonismo internazionale nel rispetto dei nostri principi costituzionali e in forte continuità con le alleanze e le relazioni positive delineate in sessanta anni di vita repubblicana.

La domanda forte dei cittadini è quella di una democrazia più semplice e, al tempo stesso, qualificata, con una maggiore efficienza di tutto il sistema pubblico e con una rinnovata capacità della politica di porsi in rapporto diretto con un cittadino-elettore sempre meno subalterno e sempre più intenzionato a partecipare, a valutare e a scegliere. Tutto ciò configura una esigenza di maturazione della nostra democrazia che non può avvenire senza il contributo significativo di proposte politiche e di partiti nuovi che assumano la responsabilità di trasformare le istanze popolari in proposte riformatrici e azioni politiche incisive.

Perché tarda ancora questa risposta politica forte?

La lunga transizione degli anni Novanta ha conosciuto fenomeni e stagioni diverse. L’attacco contro i «vecchi» partiti e la «democrazia bloccata» è venuto montando ed esprimendosi alla fine degli anni Ottanta, quando le aree settentrionali più sviluppate hanno visto indebolirsi la propria capacità di contare adeguatamente nelle decisioni governative e le aree del Mezzogiorno sono uscite dalla logica dell’intervento straordinario aggiuntivo dello Stato senza entrare in una condizione di ordinarietà accettabile. L’attacco al finanziamento occulto della politica e a talune sue degenerazioni è stato, in realtà, solo una pagina di un processo di entropia progressiva che ha visto i partiti politici storici esaurire la propria capacità propulsiva e propositiva.

La difficoltà della politica di definire scelte adeguate ha aperto la via referendaria come unica strada apparentemente praticabile per riformare il sistema. È nato così il maggioritario italiano, non come scelta pienamente consapevole della sua efficacia e dei suoi effetti, ma come proposta giacobina di drastica semplificazione del sistema e delle sue relazioni. Sono nati così nuovi cartelli elettorali, nuove sigle e contenitori. La comunicazione politica mediatica ha assunto un ruolo e un rilievo oltre ogni regola e ogni misura fino ad allora immaginata. Si sono costruite coalizioni per vincere le elezioni, per battere il nemico politico, non per governare. È la storia più recente a consegnarci tutti questi eventi in sequenza ripetitiva.

Questi anni poi sono stati anche caratterizzati da una idea dominante dell’ingegneria costituzionale come possibile via per rinnovare il sistema. Una ingegneria di laboratorio spesso astratta e utilizzata dalla maggioranza contro la minoranza.

Il quadro nel quale ci troviamo si è così riempito di ombre che, se non adeguatamente chiarite, possono accrescere le difficoltà stesse della politica: un sistema elettorale senza una capacità di rappresentanza reale, la frequente idea di sostenere il premierato in assenza di vere leadership politiche, le proposte di presidenzialismo senza una capacità di identità nazionale comune. Anche il tema dei costi della politica che oggi viene periodicamente brandito come un’arma antiparlamentare, antipartito e antisistema non trova forse fin troppe adesioni per via del fatto che la politica fatica ad offrire le soluzioni e le proposte necessarie e quindi viene vissuta come un costo aggiuntivo che non rende ciò che dovrebbe?

Da questa lunga e non lineare traiettoria nasce oggi l’esigenza forte di un nuovo partito. E voglio sottolineare anzitutto di un partito, non di un altro cartello, di un contenitore, di una bandiera da esporre.

Cioè di una organizzazione diffusa e realmente radicata, capace in senso costituzionale di animare la partecipazione dei cittadini. Un Partito Democratico, che faccia della democrazia formale e sostanziale la sua bandiera principale, consapevole che la democrazia è un processo di crescita progressiva dei suoi attori – ovvero dei cittadini – senza limiti definiti nelle sue esperienze storiche. Una democrazia che non ha più bisogno di aggettivi qualificativi religiosi o di parte, ma che «costituzionalmente» accetta di misurarsi con le regole definite e non sottoponibili ad arbitrio di potere. In questo senso non solo un nuovo partito, ma un partito nuovo. E, comunque, sì un nuovo partito, ma che assorba al suo interno almeno due grandi soggetti in campo, la Margherita e i Democratici di Sinistra, con l’ambizione che un processo simile di semplificazione possa germogliare anche nell’altro schieramento contribuendo alla semplificazione degli schieramenti in campo. Questa considerazione ci aiuta a ricordare che il Partito Democratico non nasce da un alambicco. Esso può contare già sulla collaborazione, diciamo pure una sorta di «unione di fatto», tra le culture socialdemocratica, cattolico-democratica, liberaldemocratica e ambientalista che dura da un decennio. Certo le case erano diverse, gli appartamenti separati, ma con le porte senza più serrature e con un gran viavai sui ballatoi. Si arriva al Partito Democratico ben allenati, quindi. Anche nei rapporti con quei pezzi di società che, negli anni, hanno preferito forme di organizzazione fuori dai partiti ma prossime ad essi e insieme ad essi si sono cimentati in atti di straordinario rilievo politico, come le primarie dell’ottobre 2005.

Si è discusso tanto, e giustamente, del «se» fare il Partito Democratico. Ormai da diverso tempo siamo entrati nella fase del «come». La celebrazione dei congressi di Margherita e DS e poi la fase costituente che immediatamente dopo prenderà il via ci dirà molto altro su questo processo di costruzione, sempre che resti forte e solido lo spirito di affrontare con coraggio e determinazione le «cose nuove» che il tempo, il modificarsi delle condizioni storiche, economiche, culturali e sociali chiede alla politica. Ma non potrà durare troppo a lungo questa fase costituente, perché «il tempo della scelta» è arrivato e l’attesa dei cittadini e degli elettori è forte e legittima. Quali caratteristiche dovrà avere il Partito Democratico? Provo a sintetizzarne alcune, certo non esaustive.

Dovrà essere un partito popolare, nel senso di radicato sul territorio, partecipato, «abitato» dai simpatizzanti e dagli elettori: per questo molto importante sarà individuare procedure moderne di adesio- ne e coinvolgimento, ma molto più importante sarà risvegliare la passione politica, quella molla che tanto ha significato per i partiti di massa del secolo scorso. E naturalmente occorrerà grande rigore e attenzione alle regole interne, alle procedure di decisione e di selezione della sua classe dirigente. Veniamo da un periodo in cui molto, forse troppo, si è concesso a quelli che qualche studioso ha battezzato come «partiti personali», luoghi dove, anche per effetto della mediatizzazione della politica, si è concentrata non solo la gestione, ma spesso anche l’elaborazione nelle mani del capo e dei suoi collaboratori. Che passione può movimentare una situazione del genere? Non immagino il ritorno ad un generico assemblearismo, ma regole serie e procedure rigorose che consentano a chi decide di entrare nella nuova casa di sentirsi padrone e non ospite.

Dovrà essere un partito innovatore ma che non tradisce, in nome di un asfittico nuovismo, i patrimoni culturali che in esso confluiscono. Figlio del Terzo millennio, ma non senza radici e legami con il secolo precedente, capace dunque di attingere a quei grandi serbatoi ideali che hanno costruito la società del benessere diffuso, del welfare, del mercato come regola dell’economia e non della società, del valore non comprimibile della persona e delle sue relazioni, della centralità del diritto e delle istituzioni: patrimoni preziosi da utilizzare per misurarsi con le nuove domande e i nuovi bisogni indotti dal tempo della globalizzazione e della rivoluzione delle tecnologie e dei saperi. Dovrà essere un partito «coraggioso», nel senso di capace di sintetizzare ricette non ordinarie per governare la complessità della società contemporanea, condizione mancata negli ultimi lustri, che ci consegnano un paese ricco sì di energie e di potenzialità, ma senza la capacità di ergersi dal pantano di un’economia frenata da troppi lacci e vincoli, da una struttura pubblica troppo lenta e pesante, da un sistema di istruzione e formazione non in linea con le esigenze di un paese che deve competere con attori internazionali del calibro delle potenze economiche orientali, da un welfare State ancora troppo poco orientato verso il sostegno alle giovani generazioni. Se fosse possibile affidarsi a qualche parola d’ordine, si potrebbe dire che il partito avrà come obiettivo un’Italia liberale ma non liberista, solidale ma non statalista, che premia il merito e l’iniziativa ma non lascerà nessuno solo, che non chiama diritti i privilegi.

Dovrà essere un partito apripista sul piano internazionale. Le tradizionali famiglie politiche mostrano la corda, contenitori di entità nazionali spesso in disaccordo tra loro tenute insieme da una sigla e dalla paura di smarrirsi senza un’identità prestata dall’esterno. Il Partito Democratico è un’esperienza nuova e vera perché non chiede ad altri di spiegare cos’è, ma si spiega da solo e, anche per questa via, si pone come figlio del Terzo millennio. E può promuovere un movimento più vasto sul versante internazionale in cui si ritrovino quelle esperienze che non ritengono la casa socialista sufficientemente spaziosa nelle sue pareti culturali e ideali per contenerle. Dovrà, infine, essere un partito promotore di una forte istanza di riforma del sistema politico. Già con la sua nascita, componendo in un unico soggetto due diverse formazioni, partecipa di un disegno di semplificazione del quadro (fin troppo) frammentato che, non solo nel centrosinistra, ma principalmente da questa parte del campo, ha indotto a comportamenti divisivi in nome della visibilità e dell’interesse preminente per la propria sigla piuttosto che per la coalizione, non estranei, alla fine, all’alimentazione di un sentimento di avversione verso il sistema dei partiti. Ma questa riforma deve estendersi ovviamente al ruolo dei partiti in rapporto con l’amministrazione della cosa pubblica e al tema avvertito dei costi della politica. Allo stesso modo, proprio muovendo da una logica di indispensabilità dello strumento-partito come soggetto capace di comporre gli interessi diffusi, ma al tempo stesso protagonista di un sistema efficace ed efficiente, il Partito Democratico dovrà promuovere quelle modifiche necessarie per garantire rapidità, snellezza e trasparenza nei procedimenti legislativi e nell’attività di controllo svolta dal parlamento. In una parola, dunque, riconciliare in modo stabile e serio i cittadini con la politica e le istituzioni e poi anche farsi soggetto di riforma dal versante del sistema politico proprio perché espressione di culture che hanno una considerazione alta della politica.