La Costituzione e Montesquieu dimezzato

Di Cesare Pinelli Lunedì 24 Gennaio 2011 13:12 Stampa
La Costituzione e Montesquieu dimezzato Illustrazione: Umberto Mischi

Con l’espressione “Montesquieu dimezzato” si intende porre l’attenzione sulle distorsioni dell’assetto istituzionale italiano, che vede un Parlamento esautorato nelle sue funzioni, una crescita dei poteri di fatto dell’esecutivo, mentre gli organi di garanzia costituzionale continuano nel complesso a esercitare le loro funzioni. Bisogna rendersi conto che queste distorsioni danneggiano seriamente il paese. Devono capirlo tutti, a cominciare dalle forze politiche.

«Più passa il tempo, più si semplifica e insieme si aggroviglia l’eterna transizione italiana e più appare chiaro che la Costituzione è la soglia cruciale tra presente e futuro, la vera trincea dello scontro, l’epicentro consacrato di qualunque esito politico». Sono parole scritte sette anni fa da un acuto giornalista,[1] ancora utili a dar conto dello stato del nostro dibattito pubblico. Dove «la vera trincea dello scontro» è sempre lì, così come il contrasto tra le tesi del “regime” e del governo “scelto dal popolo” (e perciò libero fra un’elezione e l’altra da ogni vincolo, legalità compresa): tutte e due prospettate per far valere una superiore legittimazione costituzionale sull’altra, e nello stesso tempo incapaci di avviare un qualunque scambio razionale, e volutamente. Il contrasto deve restare senza sbocco, e abbastanza avvelenato da far sì che le opposte tifoserie continuino a monopolizzare la scena e a garantirsi lunga vita nella “eterna transizione”. Quanti non vi si riconoscono stentano a far sentire la loro voce, vengono scambiati per dei moderati un po’ incanutiti, se non per complici della parte avversa.

È uno dei risultati perversi del bipolarismo che abbiamo sperimentato, e soprattutto della coltre mediatica che l’ha avvolto. Come si potrebbe parlare, altrimenti, di “ventennio berlusconiano” in presenza di un ciclo di alternanza finora perfetto fra centrodestra e centrosinistra? Se ne può parlare se ci si riferisce a un’egemonia culturale e politica esercitata attraverso i media, a torto o a ragione ritenuta più importante della stessa titolarità della funzione di governo. Si dirà che la coltre mediatica agisce oggi su qualsiasi opinione pubblica, tende a imporre il suo tempo, quello che viene definito “l’eterno presente”, sugli apprendimenti del passato e sulle speranze future. Quando però manca, come in Italia, una memoria nazionale consolidata e condivisa, la tendenza non incontra più limiti, fino a far deperire il senso della rappresentanza politica e del dibattito pubblico. Allora, anche le dinamiche istituzionali si riducono a una giostra, in una ossessiva e tuttavia, come abbiamo visto, non disinteressata coazione a ripetere.

I contributi qui raccolti si propongono di squarciare il velo mediatico, e aiutano da diverse prospettive a ricostruire un quadro di problemi magari perfino più serio di quello che passa il convento, e comunque capace di restituire dignità di vicende reali a quanto accaduto nella seconda fase della Repubblica. Possiamo partire dal corpo elettorale, per poi guardare al rapporto governo-Parlamento, e infine agli organi di garanzia costituzionale.

Da tempo i citati tifosi strattonano dalla loro parte le due proposizioni di cui si compone l’articolo 1, comma 2 della Costituzione come se l’una potesse contrapporsi all’altra, ora reclamando che «La sovranità appartiene al popolo», ora replicando che il popolo «la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Solo che, nel frattempo, il corpo elettorale ha avuto modo di esprimersi in due occasioni cruciali sulla questione. Da una lettura combinata del referendum abrogativo della legge elettorale del Senato del 1993 e del referendum costituzionale di approvazione della riforma della Seconda Parte della Costituzione del 2006, Michela Manetti ha ricavato la conclusione che «la volontà popolare non abbia mai inteso dirottare la Costituzione verso approdi plebiscitari o populistici: piuttosto, essa ha contestato la pretesa (avanzata dai partiti fin dal tempo dell’Assemblea costituente) di porsi ad esclusivi garanti della legalità dei procedimenti parlamentari (oltre che della gestione della cosa pubblica in generale) ». Di grazia, stiamo parlando di un regime? O forse un popolo che così si pronuncia prende congedo dalla democrazia costituzionale? Al contrario, mostra che il suo essere titolare della sovranità non ne contraddice affatto l’esercizio nelle forme e nei limiti della Costituzione. Non a caso, occupandosi negli stessi anni del nuovo Titolo V, la Corte costituzionale osservava che l’appartenenza al popolo della sovranità «impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendovisi. Le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali» (sentenza 106/02).

Per Costituzione, e veniamo così alla seconda vicenda, nemmeno il Parlamento è sede che esaurisca la sovranità popolare. Non lo era nella stagione del consociativismo – peraltro molto più breve di quanto spesso si dica: dall’approvazione dei regolamenti parlamentari del 1971 alla fine dei governi di unità nazionale (1979) –,  e non lo è all’epoca della cosiddetta democrazia maggioritaria. Quando si parla di crisi della centralità del Parlamento è allora indispensabile, lo avvertono Emanuele Rossi e Michela Manetti, distinguere il fisiologico dal patologico. Non si nega, così, che il Parlamento sia oggi l’organo costituzionale più mortificato della Repubblica nella sua identità profonda. Se ne ricercano piuttosto le cause effettive.

La dequotazione della legge nazionale a seguito della redistribuzione di potestà normativa a vantaggio dell’Unione europea e delle Regioni, o della traduzione sul terreno delle fonti del pluralismo sociale, non solo non ha nulla di patologico, ma risponde largamente a prescrizioni costituzionali.

Aggiungo che, nella patria della democrazia maggioritaria, la stessa mancanza di potere decisionale del parlamento nell’esercizio della funzione legislativa è considerata da tempo un dato pacifico: i disegni di legge governativi, che costituiscono la massima parte di quelli approvati, passano a Westminster con minimi emendamenti, peraltro vietati  sulle leggi di spesa. Eppure le procedure parlamentari continuano a venire scrupolosamente rispettate, a cominciare dagli spazi lasciati alle opposizioni. È l’effetto spietato di un modello parlamentare che esalta il circuito potere/responsabilità, prima nel circuito governo-parlamento e poi di fronte all’elettorato. Così come l’ampio potere di scelta politica del Congresso americano nella legislazione riflette il funzionamento di un sistema presidenziale detto “puro” perché basato sulla separazione fra esecutivo e legislativo, ciascuno dei quali gode di una propria legittimazione democratica.

Se il Parlamento votasse anche da noi i disegni di legge governativi senza grandi mutamenti, naturalmente nel rispetto delle procedure, non ci sarebbe da gridare allo scandalo, saremmo ancora nella fisiologia del modello parlamentare. Ma le cose non vanno affatto così. Come documentano Luciano Violante ed Emanuele Rossi, si è avuta una continua ascesa degli atti normativi del governo a scapito delle leggi, che inoltre, quando vengono approvate, passano a prezzo di stravolgimenti o di aggiramenti della procedura, dai maxiemendamenti ai ricorsi alla questione di fiducia. Bisogna spiegare perché ciò si verifica in piena democrazia maggioritaria, anche in presenza di maggioranze molto ampie, per giunta con un “Parlamento di nominati”, e dopo che le riforme regolamentari degli anni Novanta hanno potenziato il ruolo del governo in Parlamento. Anzi, le stesse patologiche tendenze si sono fortemente accentuate nel passaggio dalla prima alla seconda fase della Repubblica. Non è paradossale?

Il fatto è che quel passaggio, se ha consentito per la prima volta una piena alternanza al governo fra due coalizioni rappresentative di tutte le forze politico-parlamentari, non ha assicurato quella sufficiente omogeneità interna alle coalizioni che già mancava nei decenni precedenti, così determinando una permanente instabilità governativa. Le riforme elettorali, del 1994 e ancor più del 2005, si sono rivelate del tutto inidonee a risolvere il problema, che si è cercato allora di affrontare impropriamente, lo osserva Oreste Massari, sul fronte della forma di governo. Lo dimostra il “premierato assoluto” previsto dalla riforma costituzionale del 2006, che insieme alla breve stagione del “partito potenzialmente maggioritario” (di cui, però, è rimasta traccia negli statuti dei due maggiori partiti), ha costituito il tentativo di forzare il sistema politico in direzione di un bipartitismo che la legislazione elettorale è ben lontana dall’incoraggiare.

I tentativi sono andati a vuoto, ma nel frattempo si era generalizzata tra le forze politiche la convinzione della illegittimità dei “ribaltoni”, che rendeva molto più stretto il gioco politico dei partiti minori della maggioranza rispetto a quanto avveniva fino all’XI legislatura. La necessità di convivenza nelle coalizioni richiedeva delle compensazioni, che si sono trovate almeno su due versanti. Prima di tutto, le issues dei partiti minori su punti cruciali dell’indirizzo politico di governo (ad esempio il federalismo) ottengono un trattamento privilegiato. Il resto della coalizione le accetta senza fiatare per soddisfare la richiesta di massima visibilità possibile di quei partiti di fronte al corpo elettorale. Diversamente dal passato, tali issues non formano oggetto di mediazione politica all’interno della coalizione, ma vengono incorporate in quanto tali nel programma di governo.

In secondo luogo la distribuzione delle cariche, oltre al governo, si estende alla presidenza delle camere: in particolare, il segretario del secondo partito della coalizione risulta quasi sempre insediato sullo scranno più alto di Montecitorio. Come osserva Nicola Lupo, non si può negare che la carica di politicità di cui questo organo risulta così investito determini tensioni rispetto al suo ruolo istituzionale. Le quali, quando si tratti del cofondatore di un partito di maggioranza relativa in aperto dissenso dalla linea ufficiale, rischiano di varcare il punto di non ritorno dalla legalità costituzionale: mi riferisco alla minaccia dei più scatenati, di fronte alla scoperta che l’elezione di un presidente d’assemblea non equivale a instaurare un rapporto fiduciario, di disertare la Conferenza dei capigruppo, prefigurando una sorta di Aventino alla rovescia.

Un assetto simile non solo finisce con il forzare le regole del gioco, ma non riesce nemmeno a garantire la pace interna alle coalizioni. La diffidenza del governo verso il Parlamento permane dunque per tutta la legislatura, anche quando i numeri della maggioranza sarebbero nettamente dalla sua parte. Se bisogna trovare un accordo con il secondo partito della coalizione, è sempre più conveniente trattare con tre ministri il testo di un decreto legge anziché di un disegno di legge: anche se vi sarà bisogno della conversione, la trattativa sarà meno gravata da incognite in Parlamento, e si porterà subito a casa il risultato con la immediata entrata in vigore del provvedimento. Le cose andranno poi ancora meglio, in termini di assenza di controlli e pubblicità, se si potrà varare un’ordinanza d’urgenza. Infine, se è proprio necessario procedere in via legislativa, per vincolo costituzionale o politico, non mancano, come accennato, gli strumenti per impedire il libero dibattito, se non addirittura l’approvazione del disegno di legge “articolo per articolo e con votazione finale”, come richiede l’articolo 72 della Costituzione. Nei casi in cui è ancora chiamata a legiferare, l’Assemblea somiglia così sempre più a una caserma. Nulla a che vedere con il funzionamento dei Parlamenti nelle democrazie a forma di governo parlamentare.

A bloccare le possibilità di un bipolarismo virtuoso, imponendone una versione costrittiva le cui tensioni si scaricano sui processi di produzione normativa, è stata principalmente la legge elettorale. Né l’obbligo imposto alle liste o alle coalizioni di liste di indicare sulla scheda elettorale il nome  del candidato alla presidenza del Consiglio ha assicurato al governo o al suo presidente un supplemento di legittimazione. Come ricorda opportunamente Emanuele Rossi, la Corte costituzionale ha escluso che la legge elettorale, in quanto fonte di rango ordinario, possa mutare la posizione costituzionale del presidente del Consiglio (sentenza 262/09), senza contare che essa andrebbe comunque interpretata in senso conforme alle regole costituzionali sulla forma di governo parlamentare e al divieto di mandato imperativo dei membri del parlamento.[2] Inoltre, ciò che più conta malgrado le favole ripetute dai giornali, la prassi smentisce la teoria del mandato elettorale, visto che cambi di governo si sono più volte verificati nel corso delle ultime legislature. Non solo, cioè, la Costituzione, ma neanche una pretesa “costituzione materiale” vale ad accreditarla.

Osserva su un altro piano Gianmario Demuro, riferendosi anche alle regioni, che «la sovrappresentazione degli esecutivi non appare tanto il frutto di riforme costituzionali, quanto la conseguenza di un lungo periodo di totale delegittimazione della politica in Italia»: il saggio di Leopoldo Elia, che richiama a sostegno della sua tesi, risale in effetti al 1963.[3] E Luciano Violante si chiede se il bipolarismo che abbiamo sperimentato non riproduca l’antico vizio italiano della divisività, «prolungandone l’esistenza e aggravandone i difetti». D’altra parte Mauro Calise, che invita a non demonizzarla, nota giustamente che la personalizzazione del potere accompagna da tempo l’evoluzione dei sistemi democratici: i primi saggi risalgono a mezzo secolo fa,[4] come anche lo scritto pioneristico di Kircheimer sul partito pigliatutto, «i cui dirigenti sono divenuti noti ad ogni elettore attraverso la televisione e i giornali», e che, una volta al governo, «può improvvisamente diventare un simbolo negativo che incoraggia l’elettore a passare ad un altro partito, come un consumatore passa ad una marca competitiva».[5]

Questi contributi, pur da diverse posizioni, dimostrano che le cesure effettive che abbiamo conosciuto nella storia repubblicana coincidono solo in piccola parte con la nota separazione tra una prima e una seconda fase. Alcune la precedono, altre si rivelano apparenti o aleatorie. Si può giungere a diverse periodizzazioni, a seconda che si consideri:

a) la strutturazione bipolare del sistema politico, la personalizzazione del potere e l’eclisse di partiti organizzati, che segnano il solo tratto di autentica discontinuità tra le due fasi;

b) la crisi, assai risalente, della politica come attività trasformativa, capace di fornire risposte di lungo periodo alle attese collettive;

c) l’attuazione della Costituzione, che anche in sede legislativa segue un proprio percorso, non interrotto nemmeno dall’avvento della seconda fase della Repubblica;

d) la parabola della legislazione elettorale, che dal maggioritario al proporzionale con premio di maggioranza e liste bloccate aumenta i costi del bipolarismo in termini di democraticità della rappresentanza politica;

e) l’andamento della forma di governo, che nella seconda fase solo in alcuni casi si regge su governi di legislatura e nello stesso tempo vede aggravarsi i già acuti problemi delle coalizioni;

f) la formazione di un sistema parallelo di atti normativi basati su finte urgenze (decreti legge e ordinanze d’urgenza) che svincola in tutto o in parte il governo dal ricorso alla deliberazione parlamentare;

g) la crescita esponenziale del potere del ministro dell’Economia nell’ambito del governo, giunta da ultimo a evidenti forme di commissariamento dell’indirizzo politico;

h) l’occupazione partitica delle amministrazioni e la corruzione politica, tornate a prosperare più di prima in presenza di partiti ridotti a cartelli pre-elettorali;

i) il complessivo potenziamento, a seguito della formazione di un sistema politico bipolare, del ruolo degli organi di garanzia (presidente della Repubblica, Corte costituzionale, giudici comuni), e la perdurante indipendenza della Banca d’Italia.

Il risultato di questi andamenti, con un Parlamento esautorato dalle sue funzioni ad opera dell’esecutivo e gli organi di garanzia che continuano ad esercitare le loro in piena indipendenza,  giustifica in prima approssimazione la formula del “Montesquieu dimezzato”.

È giusto ricordare, come fa Antonio Ingroia, i tentativi di stravolgere Costituzione e Stato di diritto che si sono susseguiti in questi anni, dal disegno di legge sulle intercettazioni alle proposte di sottoporre la polizia giudiziaria all’esecutivo. E rimangono inaccettabili le accuse di faziosità rivolte ai giudici e alla Corte dal presidente del Consiglio ogni volta che emettano decisioni sfavorevoli alle sue posizioni giudiziarie, o peggio le intimidazioni alla vigilia di una sentenza. Non si possono negare queste e altre minacce anche gravi alla legalità costituzionale, il veleno mediatico che vorrebbe delegittimare un ordine giudiziario che continua a fare il suo dovere, e soprattutto la consapevole sottovalutazione dei problemi effettivi della giustizia. Ma se vogliamo stare ai fatti, dobbiamo segnalare almeno i casi di leggi ad personam bloccate anzitempo o corrette dal capo dello Stato in sede di rinvio, e di quelle annullate dalla Corte costituzionale, nonché l’esito della riforma del Consiglio superiore della magistratura, rivelatosi non esaltante per i promotori. Di più, i continui attacchi dell’esecutivo alla magistratura impediscono di affrontare con un minimo di serenità il problema della responsabilità dei giudici, che nei termini posti da Gianni Di Cagno dovrebbe corrispondere all’espansione che il potere giudiziario ha ovunque conosciuto, ma valere «all’interno dei circuiti autonomi delle magistrature» anziché come pretesto per diminuirne l’indipendenza a vantaggio dell’esecutivo.

Certo è che, in mezzo a tante difficoltà, gli organi di garanzia costituzionale continuano a funzionare regolarmente. È il governo delle leggi, che non solo impedisce di parlare di regime, ma ancora ci trattiene dall’assimilare l’Italia all’Argentina, come per il resto già si potrebbe fare, fra ricorsi a emergenze fittizie, stato comatoso dei partiti, gestione patrimonialistica della cosa pubblica, e quel ferreo controllo governativo del mezzo televisivo le cui vicende legislative sono ripercorse da Filippo Donati.

Al di là di quanto possa aver detto Max Weber, nelle esperienze democratiche contemporanee il governo delle leggi non è il dominio di una macchina impersonale, ma è il governo degli uomini sulla base e nel rispetto delle leggi, e di leggi che cittadini eletti democraticamente possono cambiare nel rispetto di procedure fissate da una Costituzione democratica. La formula contrapposta del governo degli uomini significa che queste leggi non ci sono oppure, più plausibilmente, che non vengono mai rispettate.

L’ipotesi che la personalizzazione del potere sia destinata a cancellare il governo delle leggi non trova riscontro nelle democrazie costituzionali; lo trova, invece, nelle democrazie illiberali che pure di recente sono fiorite nel mondo. Fatichiamo a mettere nella stessa barca Putin e Obama, Chávez e Zapatero. E non vorremmo che l’Italia finisse fra non molto nel secondo gruppo di democrazie. Non lo vorremmo, non per una nostalgia formalista per il governo delle leggi, ma perché del governo degli uomini conosciamo già gli effetti. Sappiamo, infatti, che in alcune regioni meridionali (e ora anche in alcune aree del Nord) l’assenza di legalità respinge gli investitori stranieri, e tiene i cittadini in uno stato di perenne insicurezza. Essa blocca così quei processi di incivilimento che i nostri migliori intellettuali, da Cattaneo in poi, posero alla base di ogni autentica modernizzazione.

 

 


 

[1] F. Ceccarelli, La Carta suprema contestata ma intramontabile, in “La Stampa”, 6 gennaio 2003, p. 9.

[2] A. Baldassarre, Il Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[3] L. Elia, Realtà e funzioni del partito politico: orientamenti ideali, interessi di categoria e rappresentanza politica (1963), in Costituzione, partiti, istituzioni, il Mulino, 2009, p. 87.

[4] A. Mabileau, La personalisation du pouvoir dans les régimes démocratiques, in Revue française de science politique, 10/1960, p. 39 e sgg.

[5] O. Kircheimer, La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale, in G. Sivini (a cura di), Sociologia dei partiti politici. Le trasformazioni nelle democrazie rappresentative, il Mulino, Bologna 1971, p. 259.