La questione delle infrastrutture in Italia oggi

Di Uberto Siola Venerdì 29 Febbraio 2008 16:36 Stampa

È ricorrente la considerazione che individua in una moderna politica delle infrastrutture l’occasione più efficace per affrontare il tema della modernizzazione del nostro paese in una politica di inserimento organico nella realtà europea. Si può affermare che, grazie alle questioni poste dall’Europa, il nostro paese ha dovuto affrontare più sistematicamente che nel passato il tema delle infrastrutture, facendolo uscire dalle condizioni di settorialità e di dipendenza che pure lo avevano caratterizzato attraverso scelte di politica economica anch’esse settoriali e parziali.

La dimensione europea ha reso necessario guardare le cose in modo diverso e ciò è avvenuto per molti aspetti. Innanzitutto, l’Italia si è trovata di fronte all’esigenza di riconnettere e omogeneizzare il suo sistema infrastrutturale alle grandi reti e alla più generale strategia europea, ponendo quindi un problema sia di programmazione che di tecnologie. Ma anche, e soprattutto, il nostro paese è stato obbligato, per la quantità di risorse che il sistema infrastrutturale richiede, a guardare in una doppia direzione. Da una parte, infatti, si deve oggi puntare a massimizzare i benefici di un impegno di risorse tanto massiccio mettendo in relazione sempre più stretta la politica delle infrastrutture con quella, più generale, dello sviluppo. Dall’altra, è necessario guardare a tutte le forme – ormai utilizzate in tutte le parti del mondo – di partecipazione delle risorse private come forme di integrazione con le risorse pubbliche, e chiamare così il mondo della finanza e dell’impresa a compiti nuovi e significativi.

Ma la questione delle infrastrutture ci ha posto anche davanti al problema nuovo, e tutto politico, della necessaria condivisione delle popolazioni interessate alla realizzazione delle grandi opere. Quanto accaduto in Val di Susa è stato un brusco richiamo alla realtà per l’Italia: ci ha messo di fronte alla giusta reazione di chi voleva e doveva essere coinvolto in un ragionamento sullo sviluppo delle zone interessate all’attraversamento e veniva invece trascinato in una discussione portata volutamente sul settoriale e sul tecnicistico. Si è così riscoperto bruscamente, e non senza sorprese, il tema alla partecipazione alle scelte di sviluppo. Osservato da questa prospettiva, il problema delle infrastrutture cambia profondamente aspetto e significato: esce dall’angolo di grande tema di settore e diventa questione di sviluppo complessivo, ponendo problemi tecnici di connessione e di omogeneizzazione tecnologica, di programmazione di reti e di punti di scambio, di sviluppo territoriale complesso, di integrazione tra risorse pubbliche e private per le realizzazioni e infine di partecipazione dei cittadini e di condivisione delle scelte. Una prospettiva diversa, quindi, che si è appena avviata in Italia e che richiede una differente valutazione anche dal punto di vista delle scelte di governo. Lo «spacchettamento» dei ministeri delle infrastrutture e dei lavori pubblici sembra, ad esempio, andare contro questa impostazione e richiede quindi un’attenta riflessione nel momento in cui è all’ordine del giorno la discussione sul possibile riaccorpamento di molti dicasteri.

Si possono fare due esempi in particolare: da una parte gli interventi in atto sulla rete stradale e autostradale e, dall’altra, la politica delle reti su ferro, metropolitane urbane e regionali. Per quanto riguarda la rete stradale e autostradale non si vogliono approfondire in questa sede quegli elementi di resistenza derivanti da una visione europea del problema delle reti e della loro proprietà, che pure sono emersi in occasione della discussione che si è aperta a proposito della vendita agli spagnoli. Tuttavia anche su questi temi varrebbe la pena di soffermarsi, anche se in altre occasioni, giacché quelle condizioni, forse in altri punti della rete italiana, si potranno certamente riproporre in futuro.

La politica stradale ha visto un rinnovato impegno dell’ANAS in questo ultimo anno. La difficile fase di un rilancio dell’ANAS e di un suo autonomo risanamento finanziario si scontra con la necessità di non farle perdere quei caratteri storici di azienda a tasso tecnico elevato e di forte radicamento sul territorio. Si vedrà, nei prossimi mesi o anni, se questa difficile operazione sarà riuscita senza eccessivi danni. Tuttavia appartiene ad una nuova impostazione, più vicina agli obiettivi che bisogna darsi, la significativa percentuale di interventi che nell’ultimo anno l’ANAS ha avviato a realizzazione con il contributo delle risorse private e con la tecnica del project financing.

È significativo notare che, contro i 6,2 miliardi di euro di opere avviate a realizzazione con le procedure classiche e a totale onere pubblico nell’arco temporale che va dal luglio 2006 al luglio 2007, opere per ben 4 miliardi di euro sono state avviate a realizzazione con l’impiego di risorse private. E su quattro interventi che assorbono queste risorse, prima ancora che scadano i tempi, si sono avute ben trentasei manifestazioni di interesse. Naturalmente andrà verificata alla fine, al momento della valutazione delle offerte specifiche, la riuscita dell’operazione, ma è bene sottolineare da subito che in nessun altro settore infrastrutturale si sono impegnate negli ultimi tempi così tante risorse private in totale sintonia con quanto più volte è stato sottolineato dal governo Prodi.

Naturalmente non si vogliono nascondere o ignorare le insidie di questa procedura e ben vengano tutti quegli accorgimenti – peraltro oggi allo studio – per assicurarsi che resti ben saldo in mano pubblica il controllo dell’identità dell’opera che si va a realizzare, anche se con risorse prevalentemente private. Tuttavia bisogna ricordare che la sollecitazione alla partecipazione di risorse private per l’esecuzione di importanti programmi pubblici deve anche presentare importanti elementi di garanzia per gli investitori che ne rendano giustificato e possibile l’intervento. Ad esempio, l’annullamento, di cui si parla, del diritto di prelazione del promotore può rappresentare in questo momento, se non attentamente definito, un grave handicap per questa politica.

D’altra parte è venuto il momento di riconoscere che, davanti all’eccezionale impegno richiesto dai programmi di respiro europeo in termini di infrastrutture, il ricorso a procedure di coinvolgimento del capitale privato appare assolutamente inevitabile e come tale va considerato in sede politica nel momento in cui si predispongono normative e procedure. Così come vanno considerate con attenzione tutte quelle riflessioni che si vanno avanzando da parte della finanza pubblica e privata sulle modalità di ritorno delle somme erogate dalla mano privata dopo che le opere siano state realizzate.

Ci si riferisce al fatto che la modalità del ritorno in un determinato numero di anni del capitale impiegato attraverso la sola esazione dei pedaggi non è sostenibile o perlomeno non può assolutamente essere una condizione generalizzata. E questo non solo per quanto concerne le relazioni tra costi di realizzazione, quantità di esazione e durata della stessa, ma anche perché il problema della esazione dei servizi stradali non può essere l’unica soluzione e comunque richiede di essere sottoposto ad una puntuale verifica politica. Né si può ipotizzare sempre una forma di riconoscimento al privato di un pedaggio virtuale a carico delle regioni, dal momento che si verrebbe a configurare una sorta di leasing di difficile decifrazione. Restano quindi da verificare altre forme di ritorno, che richiedono certamente, in uno, attenzione e fantasia, ma che potrebbero riuscire alla fine ad essere determinanti. Ci si riferisce al campo della «cattura di valore », di quelle forme di ritorno che si possono garantire all’investitore attraverso la realizzazione di opere di interesse pubblico che abbiano una forte connessione con l’opera infrastrutturale che si va a realizzare. La connessione tra realizzazione, contestuale e correlata da un punto di vista finanziario, di una infrastruttura e di un’opera pubblica da definirsi pone con maggiore chiarezza quanto si affermava prima in termini di necessità di uscire, per la programmazione delle infrastrutture, da una logica di settore per riportarle nel campo dello sviluppo in senso più complessivo. Non è la prima volta che si afferma che più ricorriamo alle risorse private per adeguare il paese ai tempi più dobbiamo richiedere alla mano pubblica una capacità di governo che salvaguardi i punti dell’interesse collettivo ma garantisca anche l’utile a chi nella realizzazione dei programmi pubblici interviene. Oggi siamo certamente lontani dal realizzare una situazione di tal genere. Attraversiamo una crisi di capacità di programmazione settoriale ma soprattutto generale, sia per la mancanza di strumenti tecnici adeguati sia perché i tempi della politica diventano sempre più brevi e concitati, e sempre più difficile appare la scelta dell’operare in una prospettiva di medio e di lungo tempo. Quest’aspetto non è, evidentemente, secondario e richiede un impegno delle forze intellettuali e tecniche del paese, per elaborare nuove strumentazioni di programmazione che siano in grado di consentire l’uso delle risorse private nell’assoluto rispetto dell’interesse collettivo: lo sforzo non può essere solo politico.

L’altro esempio è quello che riguarda le reti metropolitane su ferro, che interessano molte città e regioni d’Italia. Una legge apposita ha determinato un flusso di finanziamenti confermato dall’intervento europeo e si è così messa in moto una significativa «macchina da guerra» che riguarda oggi molte parti del paese. L’investimento massiccio in reti su ferro metropolitane è forse quello che più si avvicina ad una modernizzazione reale dal momento che incide significativamente sul funzionamento delle città che restano il centro del nostro sistema-paese. Una linea metropolitana è qualcosa che lega punti diversi e di conseguenza è in grado di modificare il sistema dei flussi di una città: è quindi anche in grado di sconvolgerne l’assetto.

Il successo di questi interventi si spiega anche con la difficoltà di intervenire oggi sul corpo delle città: per un atteggiamento culturale, in gran parte da rispettare, per la carenza di strumenti normativi, per la frammentazione delle proprietà immobiliari. Intervenire nel sottosuolo creando un nuovo sistema di relazioni è più facile: ma tali interventi non possono essere programmati settorialmente né si può adeguare l’offerta di servizi, ad esempio per quanto riguarda il sistema delle fermate, poiché la domanda dipende da una realtà che si va profondamente a modificare con il sistema stesso metropolitano. E quindi ritorna la necessità di far uscire le infrastrutture dalla politica settoriale. E nel caso delle linee sotterranee su ferro il problema si pone anche in termini diversi da quanto si è visto per il settore stradale. Da una parte abbiamo infatti il costo delle opere: un costo notevolissimo che assorbe una parte consistente delle risorse pubbliche e che quindi deve avere delle ricadute consistenti sull’assetto delle città e sul modo di viverci. Dall’altra parte c’è il disagio che la realizzazione di queste opere porta per anni, spesso con un danno consistente per i cittadini. La realizzazione di una linea di metropolitana può infatti portare disagi in una città per una durata tale da modificare la fruizione della stessa da parte di una intera generazione.

Impegno straordinario di risorse e peso del disagio prolungato nel tempo dovrebbero richiedere uno sforzo alle comunità nella direzione di programmare diversamente tali interventi, cercando di assumere la realizzazione di una rete metropolitana non solo come un dato importante e di rilievo nella vita e nel funzionamento di una città che viene da quella realizzazione profondamente segnata, ma piuttosto anche come uno strumento per realizzare una politica capace di determinare nuove condizioni di vita e un nuovo modo di fruire l’intera città. Ma ciò è il contrario di quanto avviene oggi: la città subisce infatti la realizzazione di una linea e troppo spesso poco la governa. L’apertura di una stazione può determinare stravolgimenti nella vita cittadina e contemporaneamente non far raggiungere determinati obiettivi positivi, che pure si potrebbero ottenere se l’assetto della linea e quello della città fossero visti contestualmente e correlatamene.

Inoltre, non è secondaria una considerazione che riguarda una forma anche estetica della città: la sua modernizzazione passa anche per un ruolo diverso dell’architettura e quindi per una maggiore attenzione per i caratteri formali ed estetici. Se si realizzano delle stazioni, e quindi una serie di possibili interventi architettonici significativi, come del resto sta avvenendo in molte città, è necessario che essi siano inquadrati in una politica della forma urbana che non veda slegati i singoli progetti, ma che assuma anche il significato di una vera e propria politica dell’assetto. Ci sono esempi significativi di una politica della bellezza urbana, come avviene nel caso di Bilbao, dove si cominciano a misurare anche le ricadute economiche di quanto realizzato nel campo dell’estetica urbana. Ma sappiamo che alla critica per una mancata correlazione si risponde con una facile obiezione: per le metropolitane esistono le risorse locali e talvolta europee, mentre per poter modificare l’assetto delle città non ci sono risorse. E ciò risponde certamente al vero, anche se è possibile controbattere, come è avvenuto in precedenza, che è proprio a questo punto che si può inserire il governo dell’intervento privato. Bisogna pensare sempre più ad interventi integrati che si fondino sulla correlazione tra ciò che può avvenire sottoterra in termini di linee metropolitane e ciò che può realizzarsi in superficie: sia suggerendo punti di scambio (stazioni, parcheggi ecc.) con la rete sotterranea, sia accompagnando la realizzazione delle opere sotterranee ad interventi di risanamento e di riassetto in superficie.

Si potrebbe pensare, lungo una linea sotterranea, ad elaborare progetti integrati che siano veri e propri progetti di sviluppo delle parti di città toccate dalla metropolitana e che siano realizzati in prevalenza con risorse private. Un programma di tal genere non rimanderebbe la realizzazione di una linea alle procedure complesse di interi piani regolatori, ma potrebbe essere realizzato in poco tempo anche con l’aiuto e i suggerimenti del mondo imprenditoriale. È venuto il momento di tentare esperimenti di tal genere, altrimenti la realizzazione di un sistema di reti metropolitane potrà solo a prima vista apparire come un momento di ammodernamento e di adeguamento delle nostre città, ma potrebbe portare invece ad un loro definitivo sconvolgimento. A questo punto è possibile trarre alcune conclusioni e svolgere una considerazione finale.

Le conclusioni riguardano la centralità ribadita alla politica delle infrastrutture, ma con una necessaria considerazione per quanto attiene all’equilibrio fra risorse impegnate, disagi imposti e connessioni mancate. E ciò è vero per tutti e due i casi di cui si è discusso: strade e ferrovie metropolitane. È indifferibile, infatti, far uscire dalla logica di settore le infrastrutture e farle apparire, a pieno titolo, come il motore dello sviluppo e quindi come parte non separata del miglioramento anche delle città e dei territori. Ma è altrettanto indifferibile utilizzare la disponibilità ad intervenire delle risorse private per poter realizzare nei tempi giusti un vasto programma infrastrutturale che l’Europa ci impone, ponendo peraltro allo studio tutte le disposizioni legislative che siano in grado di garantire l’interesse prevalentemente pubblico coniugando le giuste aspettative private. Bisogna aumentare il tasso di garanzia della mano pubblica, quando questa si serve delle iniziative private, abbandonando però la contraddizione, tutta italiana, che sembra riconoscere la duplice esigenza di ricorrere all’iniziativa e alle risorse private e di produrre norme che assicurino la piena realizzazione dell’interesse pubblico, ma nasconde, nei fatti, una intenzione quasi punitiva nei confronti dell’investitore privato. Questa è una contraddizione ricorrente, che nasconde uno dei mali della nostra epoca che è certamente il moralismo, ma che va superata laicamente se vogliamo essere all’altezza delle sfide che ci competono.

E qui si colloca la considerazione finale. Certamente di infrastrutture si può parlare in modo diverso da quanto si è fatto in queste note, registrando uno stato di fatto piuttosto che una prospettiva politica. Si è qui cercato piuttosto di guardare in avanti, fornendo qualche considerazione e proposta perché il rinnovamento del paese deve passare certamente per la realizzazione corretta di infrastrutture e quant’altro, ma passa, ancor di più, per il rinnovamento di un modo di vedere questi argomenti da parte della politica.

Si è parlato e si parla spesso di nuove forme della politica, si discute dell’identità e del futuro di nuove aggregazioni politiche. La speranza è che le considerazioni effettuate in questo contributo possano essere di qualche utilità anche per suggerire modi diversi di guardare al mondo delle città, del territorio, del rapporto fra pubblico e privato.