Editoriale. La centralità politica del lavoro

Di Massimo D'Alema Lunedì 04 Ottobre 2010 14:04 Stampa
Editoriale. La centralità politica del lavoro Disegno: Serena Viola

Parlare di lavoro in questo autunno in cui la crisi economica sembra lasciare spazio ai primi timidi segnali di ripresa significa ancora discutere della sua mancanza, del lavoro che non c’è. | di Massimo D'Alema

I dati che riguardano questo aspetto della crisi, del resto, sono impressionanti. Nell’Unione europea, solo nel 2009, sono andati persi circa quattro milioni di posti di lavoro, mentre nel nostro paese, nel periodo aprile 2008-luglio 2010, il numero di occupati si è ridotto di circa 670.000 unità. A fine 2009, in Italia si contavano più di due milioni di disoccupati, a cui vanno aggiunte le diverse migliaia di lavoratori a rischio di cassa integrazione o mobilità. Dietro la freddezza di questi numeri si nascondono drammi personali e familiari di cui la cronaca rende solo marginalmente testimonianza. Siamo di fronte a quella che credo vada definita la più grave emergenza sociale dei nostri giorni. Non solo perché individui e, a volte, interi nuclei familiari vengono così privati di un’indispensabile fonte di reddito, ma anche perché viene loro a mancare una imprescindibile dimensione esistenziale.
Questo quadro dalle tinte già fosche si incupisce ancora di più se, distogliendo lo sguardo da coloro che un’occupazione non ce l’hanno, ci soffermiamo su chi, invece, ha un lavoro precario e vive quindi in una permanente condizione di incertezza per il futuro. Si tratta, anche in questo caso, di una fetta considerevole di lavoratori che, lungi dallo sperimentare le conseguenze di quel processo di “liberazione” del lavoro e del lavoratore che il superamento del fordismo e del taylorismo promettevano, subiscono invece gli effetti del progressivo deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro di cui siamo stati testimoni negli ultimi due decenni.
È la prima volta nella storia dell’uomo che abbiamo di fronte una generazione che rischia di vivere nell’insicurezza, nell’assenza di certezza, e che è costretta a fare del precariato la sua unica forma di impegno lavorativo. Il lavoro è infatti spesso vissuto, quando c’è, come una forma di sfruttamento che genera insoddisfazione e precarietà. Ciò è vero soprattutto per le nuove generazioni, che sperimentano in prima persona e drammaticamente i fenomeni della disoccupazione e dell’inattività, della precarietà o del sottoinquadramento, che colpisce circa il 30% dei giovani occupati e che testimonia dell’incapacità del sistema economico di valorizzare il capitale umano che ha a disposizione, scoraggiando i lavoratori più istruiti, che dovrebbero essere invece l’elemento su cui costruire processi virtuosi di promozione dell’innovazione e della competitività.
Per la prima volta ci troviamo di fronte ad una generazione che rischia di vivere nell’insicurezza lavorativa ed esistenziale, che non riesce, in mancanza di un elemento essenziale quale un reddito sicuro su cui fare affidamento, a programmare (a volte anche a immaginare) il suo futuro. Parlare di lavoro non vuol dire interessarsi soltanto di un problema economico, ma pensare al futuro dei nostri figli.
Porsi il problema del lavoro significa pertanto, in primo luogo, occuparsi della sua dimensione quantitativa, e quindi definire le misure economiche che, attraverso il rilancio dell’economia e delle attività produttive, possano creare nuove opportunità occupazionali per i giovani, per le donne, per chi vive nel Meridione d’Italia, per chi non è riuscito a sottrarsi alla trappola del lavoro irregolare, per tutti coloro che attualmente sono esclusi o rischiano di rimanere esclusi dal mondo del lavoro. Significa però, non secondariamente, interrogarsi sulla qualità dell’occupazione che si spera verrà generata dalla ripresa economica. Invece, la questione della conservazione e della creazione di posti di lavoro viene attualmente declinata nel nostro paese (e purtroppo non solo da noi) nei termini di un’equazione a somma zero fra occupazione e diritti, come se a maggiore lavoro dovessero necessariamente corrispondere minori tutele.
Questa visione ha il difetto di non interrogarsi su diversi altri elementi fondamentali di ogni analisi delle dinamiche del processo produttivo quali la valorizzazione del capitale umano, l’incremento della produttività del lavoro, l’incidenza del costo del lavoro sul prodotto finale, i fattori di innovazione di processo e di prodotto.
Alla crisi di un modello di produzione industriale quale quella che il nostro sistema economico sta vivendo vengono proposte soluzioni basate sulla delocalizzazione verso contesti caratterizzati da un più basso costo del lavoro o, in alternativa, sul peggioramento delle condizioni di lavoro e salariali nel nostro paese, secondo un processo di livellamento verso il basso che è la negazione stessa di ogni interpretazione virtuosa del processo di mondializzazione. Spingendo all’estremo questo approccio – mi sia concessa la provocazione – si potrebbe addirittura arrivare a considerare il ricorso al lavoro nero e irregolare, quello per definizione con minori diritti, come la via più efficace per creare occupazione, o a teorizzare la stessa inutilità (o dannosità) del sindacato e di qualsiasi elemento di mediazione nel mercato del lavoro. Il dibatto politico, in questo inizio d’autunno così frenetico, sembra non cogliere la gravità dell’emergenza, vittima com’è della conseguenza ultima di quel processo di rottura del nesso tra soggettività politica e lavoro che segna oggi la crisi dell’intera sinistra europea. Viviamo infatti in un tempo in cui il lavoro non costituisce più il terreno principale dello scontro politico, rimettendo così in discussione la missione stessa della sinistra, che non trova più nel lavoro il luogo fondativo della sua soggettività politica, tanto dal punto di vista pratico quanto da quello teorico.
Una autentica forza riformista dovrebbe invece non solo, semplicemente, ricominciare ad interessarsi delle problematiche del lavoro, ma dovrebbe anche, a questo proposito, essere in grado di compiere una riflessione capace di leggere le dinamiche sociali, economiche e politiche della contemporaneità, di comprendere quanto di nuovo c’è nel mondo che abbiamo di fronte, senza indulgere in risposte basate su scelte puramente difensive, ma soprattutto senza sottrarsi alla sfida di pensare ad un sistema economico in grado di produrre ricchezza attraverso la valorizzazione del lavoro e non attraverso il suo depauperamento.
Di fronte a problemi che investono la trasformazione del mercato del lavoro, ma che riguardano anche la dignità dell’individuo, le sue prospettive future, la sua collocazione sociale, per non dire delle ripercussioni sulla vivacità della vita democratica, sarebbe necessario promuovere una riflessione che eviti di cadere ancora nell’errore dell’analisi settoriale (economica, giuslavoristica o sociologica che sia) per guardare invece al problema nella sua complessità e nella ricchezza delle sue intersezioni, come solo la migliore politica sa fare. In questo mondo del lavoro multiforme e frammentato gli interlocutori di riferimento della sinistra sono stati, fino ad oggi, solo una determinata parte dei lavoratori: ciò che residua del vecchio lavoro fordista-taylorista. Il rapporto esclusivo con questa parte rischia di diventare un ostacolo sulla strada della costruzione di legami con i soggetti più sfruttati e socialmente emarginati del mondo del lavoro. Ripensare il rapporto con il lavoro nella sua complessità richiede alla sinistra la pazienza e l’umiltà di calarsi in quel mondo, riducendo le disuguaglianze, ampliando il campo dei diritti, ridefinendo caratteri e obiettivi dello Stato sociale, immaginando un sistema di protezione universalistico e contrastando le derive corporative. Si tratta di uno sforzo complesso, che richiede la capacità di misurarsi con le contraddizioni che attraversano il nostro campo, ma senza il quale non si ricostruisce il rapporto tra la sinistra e i lavoratori.
Ridare centralità al problema del lavoro e alle sue conflittualità e offrire rappresentanza politica al lavoro nelle sue forme “moderne” come nelle sue forme più tradizionali dovrebbe essere il compito fondamentale di una sinistra che non voglia confinarsi ad un ruolo minoritario o rassegnarsi di fronte ad una realtà che vede progressivamente spostarsi a destra la rappresentanza delle forze produttive.
Il ventennio che abbiamo alle spalle è stato segnato da un’egemonia neoliberista che ha portato con sé l’impoverimento del lavoro e una progressiva spoliazione del lavoro dai diritti. Il lavoro è stato nuovamente ridotto a merce, nel senso che in questo processo è stata in parte smantellata quell’opera di demercificazione del lavoro compiuta in un secolo di storia europea. E ora che l’Europa sta perdendo una parte dei suoi privilegi e scarica il costo di questo arretramento sul mondo del lavoro, a pagarne il prezzo non è l’Europa nel suo insieme, ma solo una parte di essa, come dimostrano gli impressionanti dati sulla crescita delle disuguaglianze sociali negli ultimi quindici anni. È come se di fronte alla globalizzazione ci fossero due Europe: da un lato quella della grande finanza, che si arricchisce del lavoro di chi non è europeo, globalizzando la sua capacità di estrarre plusvalore dal lavoro; dall’altro l’Europa del lavoro, che paga l’intero prezzo del mutamento dei rapporti di forza mondiali.
Una sinistra che non voglia arretrare a ruolo di minoranza etica, espressione del ceto medio riflessivo, ma che voglia invece riappropriarsi, sottraendone il monopolio alla destra conservatrice, delle istanze del mondo del lavoro e dell’impresa più minacciati dalla concorrenza internazionale dovrebbe poter offrire uno sbocco diverso a quelle paure che la destra cavalca in chiave antiglobale, di difesa e di chiusura.
Per questa ragione è necessario uno sforzo per rimettere radici nei conflitti sociali nella loro complessità. Non penso di andare alla ricerca di un rapporto di tipo ideologico tra il lavoro e la politica. Penso invece alla necessità di rimettere i piedi nelle linee di frattura che attraversano il campo del lavoro: il conflitto tra garantiti e non garantiti, tra autoctoni e immigrati, tra vecchi e giovani, tra uomini e donne, per ricostruire un nesso di solidarietà. La riduzione delle disuguaglianze non è, infatti, un dato naturale, ma passa attraverso un riformismo intelligente e innovativo.
Siamo di fronte a una questione cruciale per le nostre democrazie, che riguarda la loro capacità di mediare tra diversi interessi regolando i conflitti. Il fatto che il 15% della forza lavoro di questo paese non abbia diritti politici non è soltanto un problema che riguarda gli immigrati, ma il pericolo di impoverimento della nostra democrazia, che rischia di diventare sempre più elitaria e censuaria, fondata sui metechi, sugli schiavi: la polis nel senso regressivo del termine. Il fatto che il 15% della forza lavoro sia privo di diritti di cittadinanza significa che la gran parte delle donne che svolgono lavori domestici, fondamentali alla tenuta dell’organizzazione sociale, non hanno diritti politici; che moltissimi degli operai che svolgono mansioni negli strati più bassi del lavoro manuale, i braccianti agricoli, i lavoratori delle fonderie e delle concerie, non hanno diritto di voto; che il 10% del PIL non ha diritto di voto. Questo è un problema che non investe soltanto la condizione soggettiva dell’immigrato, ma riguarda la struttura stessa della nostra democrazia e rischia di indurre un’alterazione molto profonda. Il rapporto tra lavoro e politica, il nesso fra lavoro e democrazia ha in questo nodo un punto di crisi drammatico. È preoccupante non vedere un’azione all’altezza della enormità di questa questione.
Ritengo che il problema del lavoro debba essere il primo punto di una riflessione politica e di un programma di governo riformista. Non si tratta di andare alla ricerca di un rapporto di tipo ideologico tra il lavoro e la politica, quanto di penetrare nelle linee di frattura che attraversano il campo del lavoro: il conflitto tra garantiti e non garantiti, tra autoctoni e immigrati, tra vecchi e giovani, tra uomini e donne, per ricostruire un nesso di solidarietà. La riduzione delle disuguaglianze non è, infatti, un dato naturale, ma passa attraverso un riformismo intelligente e innovativo.
Se per una lunga fase il lavoro ha avuto la capacità di dare impulso alla politica della sinistra, oggi è la politica a dover restituire un ruolo e una dignità al lavoro, facendo crescere le ragioni comuni attraverso un’articolazione delle lotte sociali, un mutamento delle strutture contrattuali e un ampliamento della capacità di rappresentanza sindacale. Siamo di fronte ad un’emergenza e ad una serie di sfide di portata epocale: le scelte da compiere e le iniziative da intraprendere sono molte e difficili, ma il problema che abbiamo di fronte è di una gravità tale che sarebbe da irresponsabili eluderlo.
È necessario che la sinistra rimetta le radici nel lavoro, per elaborare e farsi portatrice di un concetto più ampio del lavoro in qualche modo liberato dalla sua dimensione tradizionalmente classista: il lavoro come attività umana essenziale non solo ad un progetto di autorealizzazione, ma soprattutto come forma e strumento di partecipazione alla vita civile del paese.
Tutto questo dovrebbe inoltre essere filtrato attraverso una chiave di lettura generazionale, poiché ci troviamo oggi di fronte a un drammatico problema di disoccupazione giovanile. In Italia circa due milioni di giovani non studiano né lavorano. Si tratta di un dramma sociale e umano di proporzioni gigantesche e rappresentare questo conflitto è secondo me un compito fondamentale di una sinistra che non voglia soltanto confinarsi nella sua rappresentanza sociale tradizionale.
In un bellissimo libro, “La misura dell’anima”, due studiosi inglesi, Kate Pickett e Richard G. Wilkinson, spiegano come non sia la quantità della ricchezza di un paese a generare la felicità, bensì il grado di eguaglianza, di coesione sociale e di civiltà. Da questo punto di vista noi siamo una grande civiltà capace di produrre una qualità della vita straordinaria, facciamo di tale capacità l’anima del nostro continente. Ciò può essere ragione d’orgoglio per gli europei; quell’orgoglio venuto meno ogni volta che, in questi anni, l’Europa si è sentita come un’America mancata e si è lanciata all’inseguimento di quei modelli che hanno portato alla grande crisi. Non vedo il sogno europeo trionfare in America: mi accontenterei che diventasse parte integrante del progetto della sinistra e, per quanto possa apparire molto ambizioso, poiché la forza dei progetti si misura molto prima che si realizzino, vedo questo come uno degli elementi che possono contribuire alla crescita ideale e culturale della sinistra europea. Sarebbe un modo per riappropriarci di un patrimonio, quello del progetto europeo, in cui le forze progressiste del continente, purtroppo, non si sono mai identificate fino in fondo. È compito della politica, della buona politica, indicare le soluzioni migliori ai problemi sociali più gravi e urgenti. Il lavoro è certamente fra questi.

 

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Disegno di Serena Viola