Autonomia e qualità

Di Vittorio Campione Venerdì 29 Febbraio 2008 16:08 Stampa

Da molte parti e da tempo è stato ripetuto che l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche ha rappresentato la vera riforma della scuola, realizzata con lungimiranza dal governo dell’epoca e difesa con intelligenza nelle scuole e nel dibattito pubblico negli anni successivi. Chi, come chi scrive, condivide il senso generale che questa opinione esprime e sintetizza, preferirebbe poter pensare che fin dall’inizio fosse chiara a tutti la portata «rivoluzionaria» dell’articolo 21 della legge 59/1997 e del suo regolamento di attuazione.

Non è così. La consapevolezza della portata di quelle norme (che non a caso, assieme al complesso delle leggi Bassanini e alla riforma del Titolo V della Costituzione, sono rimaste in vigore malgrado il governo di centrodestra e i suoi tentativi di modifica) era stata alta e forte durante la preparazione della vittoria elettorale, ma si stemperò nei mesi successivi. Sia il parlamento sia l’amministrazione nel suo complesso, in realtà, ritenevano di approvare e prepararsi a gestire poco più che un decentramento di funzioni.

La profondità della riforma, invece, sta proprio nel fatto che non decentra funzioni, ma trasferisce poteri. E questo sulla base di una diversa organizzazione del servizio di istruzione e di due precise motivazioni di carattere politico e culturale strettamente correlate fra loro. La prima è relativa all’impossibilità di avere una scuola di massa che garantisca a tutti il livello qualitativo necessario per il sistema paese se non ribaltando senza mezzi termini il punto di vista: dall’insegnare all’apprendere. Il centro deve diventare il bambino (e poi il ragazzo, il giovane) che apprende e non l’insegnamento (o il sapere trasmesso, o peggio l’insegnante). E la finalità prevalente dell’apprendimento deve essere racchiusa nell’espressione «apprendere ad apprendere» che, non per caso, va connessa alla più antica «sapere di non sapere» su cui tanta parte della cultura occidentale si è costruita.

La seconda considerazione è ben sintetizzata da Marc Fumaroli, che da tempo sottolinea che «occorre smettere di fare come se una formazione puramente specialistica, per preparare ai vari settori di attività economica, possa bastare. (…) Tutte le formazioni, per quanto specializzate vogliano essere, dovrebbero avere come preliminare o come accompagnamento un’iniziazione alla letteratura, alla storia dell’arte, alla musica».

Il quadro, il tecnico, ma anche il semplice lavoratore con mansioni esecutive, di cui hanno bisogno le aziende delle società mature inserite in una competizione globale per assorbire le innovazioni che i tempi richiedono, per operare continuamente dei salti di professionalità, per apportare all’azienda un contributo creativo, devono essere in grado di imparare ogni giorno e in qualunque situazione.

Una simile capacità può essere frutto di attitudini proprie, di una provenienza sociale che garantisce vantaggi culturali e di reddito o di diverse altre cose, ma è certamente destinata a inaridirsi e a perire senza un percorso formativo che la affini, la canalizzi e la renda consapevole. Nel corso degli ultimi anni si è venuta affermando una tendenza, rilevante per la sua diffusione e significativa per le conferme ricevute, tesa a dare a bambini e ragazzi un approccio differente agli stessi saperi essenziali del leggere e del far di conto. Un approccio basato su astrazione, pensiero sistematico, sperimentazione e collaborazione. Un approccio che insegna a vedere il tutto e le relazioni esistenti fra le parti. Un approccio che libera dal vincolo della sequenzialità che ha inizio e fine per aprire la strada a un apprendimento continuo gestito dai soggetti stessi. Un approccio il cui obiettivo è la costruzione del sapere come esito di percorsi anche diversi e, soprattutto, con contenuti e sfaccettature anche diverse per ognuno.

In altri termini, la centralità dell’apprendimento non deriva da una scelta di carattere metodologico, bensì si pone come conseguenza di un’analisi scientifica dei processi cognitivi e del loro sviluppo. L’autonomia aveva (e deve avere) il compito di costruire un diverso modello didattico non standardizzato, facendo leva anzitutto sulla qualità professionale degli insegnanti e sul rapporto con l’esterno, ma anche e soprattutto sulla straordinaria opportunità di mettere in campo una organizzazione didattica che corrisponda «naturalmente» alle esigenze del soggetto che apprende. Che punti a riprodurre le condizioni di quello straordinario periodo della vita nel quale, con tutti noi stessi, apprendiamo costantemente. Le basi di tale modello sono la curiosità e la creatività, piuttosto che la trasmissione di informazioni. Tale modello invita i ragazzi alla riformulazione dei problemi a partire dal proprio punto di vista, anziché alla ripetizione continua di problemi preconfezionati; intende le esercitazioni come un modo per mettere in campo capacità di giudizio e di interpretazione, piuttosto e prima che possesso di tecniche mandate a memoria.

Infine, e soprattutto, porta giovani e ragazze dall’isolamento nello svolgimento dei compiti e nella verifica dell’apprendimento alla valorizzazione dell’attività svolta con altri e delle sinergie che ne scaturiscono. Rafforzare l’autonomia, qualificare i docenti, individuare i saperi essenziali: sono questi i tre punti forti di quelle norme e tutti si possono ricondurre all’obiettivo di non perdere un solo ragazzo e di uscire tutti assieme dal disastro in cui un percorso standardizzato ha condotto la scuola.

La domanda è se questa scelta potrà modificare la tendenza all’esclusione che oggettivamente discende dalla stratificazione sociale. La novità rilevante è che, mentre in passato la scuola «ordinaria» aveva comunque l’esito di produrre un risultato almeno accettabile in termini di formazione per il lavoro e anche per la cittadinanza sociale, chiedendo a quella «straordinaria», isolata mediante cancelli invisibili ma invalicabili, di farsi carico di quel di più occorrente per selezionare e formare le élite dirigenti, oggi la scuola «ordinaria» produce esclusione e bassa qualità in proporzioni tali da non essere compatibili con lo sviluppo e la competitività del paese. E anche la scuola «straordinaria» non sta tanto bene. Non basta più essere il liceo classico di tradizione, nel quale hanno studiato con profitto i figli di coloro che avevano studiato con profitto. Il futuro è garantito (salvo eccezioni) dal ceto, anche indipendentemente dalla qualità dell’insegnamento.

Ovviamente è legittimo pensare che sia possibile mantenere, almeno in parte, una scuola siffatta, destinata a «produrre» lavoratori con una formazione rigida e standardizzata. Bisogna però sapere che per questo tipo di lavoratore le mansioni si fanno sempre più ridotte nel numero, faticose e degradanti, e che pertanto appaiono e sono inaccettabili per i nostri concittadini giovani.

All’impresa moderna serve un lavoratore disponibile alla formazione continua e alla mobilità, capace di assorbire le innovazioni.

Serve, in altri termini, una persona, perché è questa che (forse per la prima volta) diventa soggetto e oggetto del rapporto di lavoro. Il lavoratore non è più il prestatore d’opera che sul mercato vende l’unica merce che possiede. Il rapporto con l’azienda diviene più complesso, più individuale, più autonomo. E il sistema educativo deve mettere tutti in grado di misurarsi con questa prospettiva che colloca ognuno nel processo produttivo in quanto individuo intero, persona, appunto.

Di tale persona occorre salvaguardare ed estendere il diritto all’apprendimento, sapendo nel contempo che tale salvaguardia garantisce anche la società nel suo insieme sia come valorizzazione delle risorse sia in termini di competitività.

Il sapere è infatti un diritto, ma è anche un bisogno funzionale di una società evoluta, di una economia basata sull’innovazione e non sullo spreco sociale di risorse umane e intellettuali.

La percezione di un bisogno sociale così forte rende possibili azioni (di governo, di forze politiche o sociali) che facciano sì che il sapere e l’istruzione possano diventare un diritto per tutti. E non come diritto minimo essenziale, bensì come diritto generale e per tutta la vita. Ben al di là delle più impegnative richieste rivendicative del passato. Capire questo determina la differenza tra una politica di rinnovamento e di riforma e una politica di manutenzione tesa alla ricerca e al mantenimento del consenso. Contemporaneamente occorre però capire che una tale politica non può scaturire come Minerva tutta intera dal cervello illuminato del legislatore o del ministro pro tempore. Deve aderire alle mille caratteristiche dei soggetti e alle mille differenze del paese, grazie ad un indirizzo forte che punti sull’articolazione territoriale e sull’individualizzazione. L’autonomia prima e il Titolo V poi danno gli strumenti normativi perché questo possa accadere.

L’inserimento, con la legge 3/2001, della salvaguardia costituzionale per l’autonomia non fu la graziosa concessione di un parlamento prossimo allo scioglimento. L’intero Titolo V riformato è una diversa distribuzione di poteri all’insegna del principio di sussidiarietà e della valorizzazione della persona di cui la Costituzione parla nel suo articolo 3.

I tempi, forse troppo lunghi, trascorsi per arrivare alla decisione di trarre le conseguenze operative di quelle norme adottate nella XIII legislatura (e poi confermate da ben due referendum) non saranno passati invano se la discussione fra le regioni e di queste con il governo non perderà di vista la posta reale che è in gioco sul tema dell’education.

Da una parte, il rischio di un’intesa che non cambi la sostanza delle cose lasciando di fatto allo Stato il governo dei processi di istruzione e formazione attraverso l’estensione della categoria di «norme generali e principi fondamentali» e la dilatazione massima della transizione in nome della differenza delle realtà regionali e del rischio di un processo a più velocità. Dall’altra, il passaggio immediato alle regioni di tutti i poteri previsti dalle norme approvate, a cominciare dal governo del personale e dalla gestione del dimensionamento delle istituzioni scolastiche come strumento di programmazione reale. Tale passaggio è la condizione per far sì che le scuole stesse possano gestire i differenti e molteplici obiettivi specifici di apprendimento, che devono essere (non dimentichiamolo mai) definiti «tenendo conto delle diverse esigenze formative degli alunni, delle esigenze delle famiglie, degli enti locali, dei contesti sociali, culturali ed economici del territorio» e non, come qualcuno si ostina a cre- dere, sulla base della situazione di fatto e sotto l’occhiuto controllo neocentralista di chi (amministrazione, corporazioni e, ogni tanto, qualche esponente di governo) non vuol perdere ruolo e potere.

A sostegno di questa seconda opzione (che, sia pure con la necessaria cautela, le regioni sembrano abbracciare) stanno ragioni di diritto e ragioni di fatto.

Per quanto riguarda le prime, vale il dato irrefutabile che tutte le più recenti sentenze della Corte hanno ribadito (nel confermare che, ovviamente, ogni cittadino ha eguali diritti in materia di istruzione indipendentemente dalle differenze fra le regioni) che l’eguaglianza delle prestazioni non è garantita solo dallo Stato, ma in egual modo da regioni ed enti locali. Come dire: avere eguali diritti non condanna a soluzioni centralistiche per la loro attuazione.

Per quanto riguarda le ragioni di fatto, la questione è più complessa. Il punto vero è che il mantenimento di una gestione centralistica del servizio di istruzione (al di là dei formalismi e dei trasformismi gattopardeschi) si traduce in una condanna per il sistema paese alla marginalità e alla ulteriore perdita di competitività nei confronti dei concorrenti. Più vicini come la Spagna o più lontani come i paesi dell’Asia e dell’Est europeo. I segnali negli ultimi anni non sono mancati. È divenuto sempre più chiaro che lo sviluppo in termini di crescita del PIL e di maggiore competitività dei paesi europei e asiatici nostri concorrenti è direttamente corrispondente non solo ai maggiori investimenti nei rispettivi sistemi educativi, ma anche alle costanti modifiche del modello organizzativo. Paesi come la Cina o la Spagna (ovviamente diversissimi per condizioni di partenza e potenzialità) hanno adottato, tra il 1995 e il 2000, leggi che hanno accentuato il peso dei poteri locali in materia di istruzione e hanno definito larghissime autonomie di gestione anche per le scuole. In India come nell’Europa dell’Est si investono risorse nell’eccellenza e si costruisce un modello educativo che garantisce il successo formativo con un livello di competenze fra i più alti a livello mondiale. È ormai evidente che un sistema, come il nostro, basato sulla riproposizione (per lo più standardizzata) del patrimonio e della tradizione culturale, con una prevalenza della formazione umanisticoletteraria su quella scientifica e tecnologica e con un alto grado di rigidità, verrà sopravanzato quanto alla capacità di tutti questi paesi di produrre e valorizzare talenti.

Valga per tutte la differenza di futuro fra un giovane laureato in una media università indiana e un laureato nelle nostre università. Il primo verrà assunto immediatamente (di norma a 23 o 24 anni) e con uno sti- pendio tre o quattro volte superiore a quello del secondo (che di norma, inoltre, entrerà in azienda diversi anni dopo).

In Italia la discussione quindi non può essere più, come nei decenni scorsi, sulle differenze culturali (o politiche o ideologiche) fra i diversi modelli di riforma, bensì sulla possibilità che il sistema educativo venga organizzato in modo da corrispondere alle esigenze del paese. E in questa impresa le regioni e le scuole autonome hanno la possibilità di riuscire dove, fino ad ora, il centralismo ha fallito.

La prima condizione è che lo Stato, o meglio il governo che lo rappresenta, faccia un passo indietro rispetto alla gestione in tutti i suoi aspetti. Il sistema educativo va inteso come un insieme capace di autoregolarsi. Ad esso il governo deve limitarsi a fornire obiettivi generali molto precisi e una struttura indipendente in grado di valutarne il raggiungimento: tutto il resto, e soprattutto le decisioni di carattere operativo, gestionale e organizzativo, deve essere lasciato all’iniziativa delle istituzioni scolastiche autonome e alla capacità di programmazione delle autonomie locali e regionali.

La seconda condizione è la costituzione e il rafforzamento delle reti tra scuole, che costituiscono l’unico strumento per dar loro una massa critica adeguata a governare sia il rapporto con l’utenza e il territorio, sia la crescita di una capacità professionale collettiva. Una articolazione non burocratica ma fortemente professionalizzata delle scuole sul territorio è la premessa per il passaggio alle scuole stesse e alle regioni delle competenze sul personale, trasferendo strutture e mezzi che a quel punto diventano serventi del servizio di istruzione e non preposti al suo indirizzo e controllo.

La terza condizione, infine (condizione che con le altre due costituisce però un tutto unico), è rappresentata dalla definizione di un rapporto non diplomatico fra Stato e autonomie. La definizione delle rispettive competenze non può essere frutto di un confronto lungo e defatigante, né essere condotta solo in punta di diritto. E lo stesso vale per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, che non sono il sapere minimo garantito, ma i diritti di ogni cittadino in materia di istruzione e formazione.

Non si può non partire dal fatto che l’istruzione è ormai irrevocabilmente una competenza che Stato e regioni devono esercitare assieme. Altro punto fermo è che alle regioni non possono spettare aspetti residuali o marginali. I livelli essenziali delle prestazioni infine vanno certo definiti centralmente, ma la loro erogazione e l’organizzazione della medesima è competenza delle autonomie locali e scolastiche e non può essere loro sottratta ancora a lungo.

Allo Stato è mantenuto l’obbligo di definire le norme generali sull’istruzione. Cioè, per dirlo in modo non tecnico, quanti anni di scuola, per quali obiettivi generali di apprendimento, con che tipo di professionisti per garantire esiti e organizzazione. E ancora, la valutazione dell’efficacia del sistema e la disciplina della coesistenza in esso di soggetti diversi.

È un dimensionamento radicale rispetto a una storia che ha visto uno Stato con l’ambizione di regolare nei minimi dettagli la quotidianità di allievi e docenti. Rispetto alle circolari con le quali il Superiore Ministero dettava norme e stabiliva sanzioni. Ed è un vero e proprio passaggio d’epoca, culturale prima di ogni altra cosa.

È evidente che la difficoltà sta anche in questo: a parte le resistenze corporative e i pur legittimi contrasti sul merito, nessuno dei soggetti è realmente e pienamente pronto a questo passaggio. È fondamentale quindi costruire bene la transizione, che non va intesa come una dilazione strappata al giudice (in questo caso alla Corte) per rinviare il più possibile e in attesa magari di qualche cambiamento di opinione, se non di governo, ma come una fase di lavoro impegnativo per tutti. Un modo per cominciare bene il lavoro di costruzione della transizione è definirne con precisione i tempi e individuare l’autorità garante del processo.

Il documento della Conferenza delle regioni del dicembre scorso (il cosiddetto «Master plan» per l’attuazione del Titolo V in materia di istruzione) individua con precisione i tempi, indicando il settembre 2009 come termine finale per la predisposizione delle condizioni per l’esercizio dei propri poteri e propone la Conferenza unificata quale sede per la messa a punto dei diversi passaggi. La proposta appare impegnativa, ma giusta nella sostanza.

La relativa ristrettezza dei tempi spinge così verso l’individuazione di tappe brevi e veloci, senza continue interruzioni e rinvii. Si potrebbe dar luogo ad una sequenza, concordata nei diversi aspetti, del tipo: individuazione da parte dello Stato dei livelli essenziali delle prestazioni e impegno delle regioni ad adottare le misure conseguenti ove mancanti; messa a punto del piano di trasferimento delle risorse finanziarie e del personale, da completare per la data indicata; messa a punto da parte dello Stato di un sistema di valutazione indipendente dell’efficacia del sistema formativo.

È evidente che nessuna di queste misure e neppure il loro complesso realizza pienamente l’obiettivo di riforma del sistema educativo nazionale, ma il lavoro per la loro definizione e realizzazione è la premessa per quel riposizionamento dell’intero sistema di cui il paese ha bisogno.

È per questo che è così rilevante discutere per tempo e pubblicamente del modo in cui i vari soggetti si apprestano ad affrontare le scelte che abbiamo di fronte.

Sarebbe certamente opportuno, intanto, costruire una posizione unitaria dell’intero governo, anziché dover mediare le esigenze necessariamente diverse dei singoli ministeri. È assai evidente che i ministeri dell’economia, dell’istruzione e della funzione pubblica (per non parlare che di alcuni) sono inevitabilmente portatori di esigenze, tradizioni, rapporti con le organizzazioni sindacali e professionali che mal si conciliano in una logica unitaria. È invece nel rapporto con le regioni che va costruita fin dall’inizio la sintesi, puntando a sostituire rapidamente il centralismo finora imperante con un coordinamento dei tempi e delle priorità affidato alla struttura di governo che, nell’ambito della presidenza, ha il compito istituzionale di «vedersela» con le regioni.

Non bisogna poi sottovalutare il fatto che le regioni sono anche titolari esclusive della competenza relativa a istruzione e formazione professionale (quella che nella Costituzione del 1948 si chiamava istruzione artigiana e professionale) e che quindi vi è oggi l’opportunità di procedere finalmente all’integrazione fra istruzione e formazione. Le regioni quindi possono procedere alla realizzazione del proprio sistema territoriale integrato che garantisca un’offerta di qualità. Aggiornare le normative regionali esistenti alla luce di questo obiettivo significa costruire «un’offerta formativa plurale che, nel rispetto della normativa nazionale e delle competenze dei livelli istituzionali coinvolti, consenta ad ogni persona una concreta opportunità per raggiungere i più alti livelli di competenza necessari in una regione che punta ad essere la regione della conoscenza, della tecnologia, della coesione sociale e della qualità», come ha scritto recentemente Paola Manzini, assessore dell’Emilia Romagna, parlando della sua regione ma con un discorso che può valere per tutte. Non meno rilevante, infine, sarà il modo in cui si muoveranno in questa fase i soggetti della scuola: insegnanti, giovani, famiglie. E sbaglierebbero governo e regioni se chiedessero alle scuole di restare passivamente in attesa, di non disturbare il manovratore. La spinta a organizzarsi in rete e a far rendere al meglio l’autonomia dell’istituzione scolastica è nelle mani delle scuole con tutte le loro componenti e quanto più questa spinta andrà a buon fine tanto più la messa a punto istituzionale e normativa potrà trovare terreno favorevole e aiutare la crescita di una scuola di qualità.