Le fondazioni bancarie a venti anni dalla loro origine

Di Francesco Galgano Giovedì 01 Luglio 2010 17:11 Stampa
Pensate come espediente tecnico per privatizzare banche pubbliche e casse di risparmio, le fondazioni di origine ban­caria hanno finito con il collocarsi in una posizione ambi­gua: con un piede nel mondo, per esse inedito, della valo­rizzazione culturale delle aree di pertinenza, e con l’altro an­cora saldamente ancorato nell’originario mondo bancario. Al tempo stesso, le cospicue risorse di cui dispongono, in antitesi con la situazione di collasso della finanza locale, han­no sollevato una accesa disputa, dagli esiti ancora incerti, sulla destinazione delle prime a sostegno della seconda.

 L’originaria progettazione extralegislativa della Banca d’Italia e il sopravvento della legge Amato

Sul perché delle fondazioni bancarie e sulle modalità della loro ideazione si sa poco, e bisogna dire che quel poco che si sa è sbagliato. Ci si rifà, in genere, al decreto legislativo 356/90, che a firma di Giuliano Amato, a quel tempo ministro del Tesoro, dettò norme sugli «enti conferenti» le proprie aziende bancarie in società per azioni appositamente costituite, così privatizzando gli istituti di credito di diritto pubblico e le casse di risparmio. Si suppone, pertanto, che si sia trattato di iniziativa governativa, frutto di volontà politica. Ma le cose non stanno così: l’idea di ciò che oggi definiamo come fondazioni bancarie era nata in sede extrapolitica, e precisamente in seno alla Banca d’Italia, ed era nata non per farne una proposta di legge ma, tutto all’opposto, per evitare che se ne facesse una legge.
Eravamo negli anni Ottanta. Per ben due volte la Banca d’Italia aveva promosso vaste riforme del sistema bancario, non già sollecitando l’intervento legislati­vo dello Stato, bensì suggerendo alle banche i termini di una autoriforma dei propri statuti. In entrambi i casi la Banca d’Italia aveva preventivamente chiesto ai giuristi un parere di fattibilità dell’operazione, ponendo questo quesito pregiudiziale: che la riforma si potesse fare senza alcun intervento legislativo. Riu­scì nell’intento la prima volta, allorché si era proposta di aprire il capitale delle casse di risparmio all’investimento privato; non riuscì nell’intento la seconda volta, ossia per la trasforma­zione delle banche pubbliche in società per azioni. In questo caso il legislatore doveva essere chiamato in causa solo per concedere sgravi fiscali, ma profittò dell’occasione per intervenire massicciamente nella regolazione della vicenda.
La vicenda merita di essere raccontata. Cominciò quando il governatore della Banca d’Ita­lia, nelle considerazioni finali della relazione annuale del 1987, manifestò l’intento della Banca centrale di promuovere l’assunzione della più appro­priata forma giuridica della società per azioni da parte delle banche pubbli­che del tempo, quali gli istituti di diritto pubblico, le casse di risparmio, gli istituti di credito su pegno. Nell’ottobre 1987, Tommaso Padoa-Schioppa, allora vicedirettore della Banca d’Italia, rivolse a quattro giuristi la richiesta di un parere circa le modalità di attuazione di un tale disegno, accompa­gnando alla lettera di incarico un documento di lavoro interno, nel quale si sottolineava l’opportunità che l’obiettivo si realizzasse grazie all’autonomia contrattuale delle predette banche pubbliche, senza alcun intervento legi­slativo. Il parere reso da chi scrive era così articolato: ciascuna banca pubblica partecipa alla costituzione di una società per azio­ni con oggetto bancario; quindi, conferisce in essa la propria azienda, restando nella condizione di ente non più economico, il cui scopo statutario può essere trasformato in scopo ideale, da perseguire con il residuo patrimonio e con gli utili della società partecipata.[1]
La Banca d’Italia dette veste ufficiale alla modalità ora riassunta pubblicando nel febbraio 1988 un opuscolo dal titolo “Ordinamen­to degli enti pubblici creditizi. L’adozione del modello della società per azioni”. Nel paragrafo finale, dedicato agli aspetti fiscali, si prefigurava l’ingente onere tributario che sarebbe derivato, in termini di imposta di registro, dal conferimento in società di aziende dall’altissimo valore patrimoniale e si formulava l’auspicio di «un’apposita norma di legge che riconosca allo scorporo di aziende di banche pubbliche uno strumento per realizzare una più articolata struttura organizzativa delle banche stesse», suggerendo una equiparazione degli effetti fiscali dello scorporo «a quelli della trasforma­zione, fiscalmente neutra, attraverso un provvedimento di sospensione d’imposta, che non richiederebbe alcuna copertura finanziaria in quanto relativo ad operazioni che altrimenti non verrebbero poste in essere».
Come dire: o si fa come noi proponiamo, e ci si concede la neutralità fiscale, oppure non se ne fa niente. Ma lo sgravio fiscale doveva essere concesso dallo Stato, e la palla passò perciò nelle mani del governo, il quale, una volta che l’ebbe nelle proprie mani, lo considerò come cosa propria e volle dettare una minuziosa legge con la quale regolò per intero la materia. Fu la legge Amato del 1990, che sarà poi seguita da altre ancor più minuziose leggi, soprattutto l’innovativo decreto legislativo 153/99, nelle quali gli enti conferenti l’azienda bancaria diventavano, anche se nati come associazioni, le «fondazioni bancarie», tuttora oggetto di mille dispute sulla loro natura e i loro scopi.
Si è andati avanti, con legge, secondo una traccia, quella del conferimento dell’azienda bancaria in società appositamente costituita, che era stata idea­ta per evitare la legge. Si è dato luogo ad uno sdoppiamento di entità soggettive, la fondazione e la società bancaria, che era funzionale all’originario disegno e che si sarebbe potuto evitare se si fosse seguito – ci si consenta quest’altra testimonianza – la strada che chi scrive aveva suggerito entro la commissione di studio, presieduta da Andrea Manzella, avente ad oggetto la privatizzazione dell’ENEL, e cioè la trasformazione per legge delle banche pubbliche in società per azioni aventi per capitale sociale il patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio, siccome redatto secondo le norme sul bilancio della società per azioni, con attribuzione dei titoli azionari al ministero del Tesoro, che avrebbe provveduto, con la dovuta gradualità, al loro collocamento sul mercato del capitale di rischio.
Così fu fatto per gli enti pubblici economici (ENEL, IRI, ENI), e così ben si poteva fare per gli istituti di credito di diritto pubblico, e per le stesse casse di risparmio. Ma si volle sfidare Occam e il suo celebre rasoio, moltiplicando enti sine necessitate.
 
La nuova vocazione culturale e l’antico cuore bancario

La nascita delle fondazioni bancarie aveva dato luogo ad un singolare paradosso, di vago sapore pirandelliano: esse erano patrimoni alla ricerca di uno scopo, in un contesto nazionale caratterizzato da una moltitudine di scopi – quelli, soprattutto, degli enti territoriali – alla costante ricerca, spesso vana, di un patrimonio con il quale realizzarli.
Gli «enti conferenti», come precisò la legge Amato, avrebbero perseguito scopi «di interesse generale e di pubblica utilità», da determinare per statuto (articolo 12, comma 1, lettera a). Ad essi era riconosciuta «piena capacità di diritto pubblico», oltre che di diritto privato (articolo 11, comma 2); e questa loro natura pubblicistica era apparsa coerente con la storia delle casse di risparmio, la quale si intreccia con quella delle istituzioni di beneficenza, per il carattere sociale che tradizionalmente veniva ravvisato nelle iniziative volte a incentivare lo spirito di previdenza e, come si diceva, ad incitare le classi sociali al risparmio, concepito come virtù civica. La loro natura quali enti pubblici trovò fondamento nella definizione che di esse dette il testo unico 5546/1888, come «istituti che si propongono di raccogliere depositi a titolo di risparmio e di trovare ad essi conveniente collocamento, quale che sia la natura dell’ente fondatore». L’incitamento dei ceti popolari al risparmio era il pubblico fine in ragione del quale, qualunque fosse il soggetto fondatore, anche se si trattava di privati che conferivano propri mezzi finanziari, le casse di risparmio ricevevano da dottrina e giurisprudenza la qualificazione di enti pubblici. Ancora: le antiche casse di risparmio dovevano, a norma di statuto, destinare a beneficenza una percentuale degli utili netti di bilancio; sicché esse, diventate «enti conferenti», proseguivano nello svolgimento di una attività che già era loro propria, come la legge Amato aveva presente allorché dettava, all’articolo 12, comma 1, lettera a, che «gli enti possono mantenere le originarie finalità di assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli».
Non si vuole qui contestare che, nei trascorsi vent’anni, le fondazioni bancarie abbiano saputo individuare e realizzare meritorie iniziative, specie nei settori della promozione culturale e della valorizzazione del patrimonio artistico. Sta di fatto, tuttavia, che l’antico cuore bancario di questi enti non ha cessato di battere. In origine, era stato imposto agli «enti conferenti» l’obbligo di dismettere, entro una certa data, le partecipazioni di controllo nelle società conferitarie. Dovevano uscire per sempre dalla scena del mondo bancario, perdendo ogni potere di decisione, anche indiretto, sulle banche che in passato avevano gestito.
Ma questa linea non ha resistito a lungo. Già con la direttiva Dini del 18 novembre 1994, e poi con l’articolo 12 del citato decreto legislativo 153/99, viene introdotto un diverso regime: anzitutto, la mancata dismissione del controllo comporta solo la perdita di benefici fiscali; e così le fondazioni bancarie, in quanto detentrici del controllo, da sole o in concorso con altre fondazioni bancarie, procedono nell’assemblea della società o delle società conferitarie alla nomina delle massime cariche sociali di queste ultime, deliberano le operazioni sul capitale e quant’altro rientri nella competenza dell’assemblea. In secondo luogo, proprio come se fossero imprese bancarie, le fondazioni rimaste detentrici del controllo, diretto o indiretto, anche risultante dalla partecipazione a patti di sindacato, sono sottoposte, per ciò che attiene alla gestione del pacchetto azionario, alla vigilanza del ministero del Tesoro, cui è dato di emanare – almeno fino a quando la norma non è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale – «atti di indirizzo di carattere generale», anche per ciò che attiene alle «procedure relative alle operazioni aventi ad oggetto le partecipazioni nella società bancaria conferitaria» (articolo 10).
Ai patti parasociali fa riferimento esplicito l’articolo 6, che allude agli accordi con altri soci dell’impresa bancaria che attribuiscono alla fondazione il diritto di nominare la maggioranza degli amministratori o il potere di subordinare al proprio assenso la nomina o la revoca della maggioranza degli amministratori. Le fondazioni bancarie diventano così altrettante pedine strategiche del sistema di governo delle imprese conferitarie, singole o, come è più frequente, fuse entro più vaste unità imprenditoriali. Operano ad instar delle imprese: come queste si fondono o si scindono, così possono fare, in parallelo, le rispettive fondazioni (articolo 10, comma 3, lettera a).
È dato di esperienza che le nomine alle massime cariche, nell’impresa bancaria e nella correlativa fondazione, vengano concordate. Sebbene le fondazioni le controllino, anche senza poteri di direzione e coordinamento, che sono loro preclusi, sono le ex conferitarie ad assumere, proprio per il loro intrinseco maggior potere economico, una posizione di preminenza, sicché non è raro constatare come le fondazioni bancarie finiscano con il piegarsi, nella competizione fra i grandi gruppi bancari, ad una funzione servente degli obiettivi strategici delle loro ex imprese conferitarie.
Ad allontanare ancor più le fondazioni bancarie dalla concezione della legge Amato è sopraggiunta la loro qualificazione legislativa come «persone giuridiche private senza scopo di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale» (articolo 2, comma 1, del citato decreto legislativo 153/99). La nuova qualificazione era solidale con la caduta dell’obbligo di dismissione del controllo: trattandosi di enti privati, la legge non avrebbe potuto, senza ledere la tutela costituzionale della proprietà privata, impedire loro atti di disposizione del proprio patrimonio. Ma sono rimaste antiche preclusioni, come il divieto di esercitare funzioni creditizie e comunque di finanziamento in qualsiasi forma ad enti con fini di lucro (articolo 3, comma 2).
 
Le crescenti ambiguità delle fondazioni bancarie

La stratificazione, nel corso del tempo, di leggi di diversa ispirazione ha fatto delle fondazioni bancarie una figura alquanto ambigua. Dovevano essere, per la legge Amato, enti non economici, estranei al mondo bancario, e perseguenti finalità ideali; ma le imprese bancarie conferitarie non hanno mai dimenticato (e mai potevano dimenticare?) che il patrimonio lasciato agli enti conferenti era, per formazione storica, un loro patrimonio. E con questo dato di fatto ha dovuto fare i conti la legislazione successiva: è caduto l’obbligo di dismissione delle partecipazioni bancarie di controllo; al controllo fa riscontro la vigilanza del ministero del Tesoro sulla gestione dei pacchetti azionari detenuti dalle fondazioni bancarie, attesa la loro riconosciuta funzione di soggetti concorrenti nel governo del sistema bancario. Le fondazioni bancarie hanno così un piede nel mondo culturale e l’altro nel mondo bancario.
Altro elemento di ambiguità è dato dal fatto che nel corso degli anni Novanta la classe politica ha acquisito consapevolezza di quello che è stato sopra definito il paradosso delle fondazioni bancarie. La finanza pubblica era al collasso; gli enti territoriali stentavano ad assolvere ai servizi pubblici essenziali; e tuttavia al loro fianco operavano enti, quali le fondazioni bancarie, che disponevano di grande dovizia di mezzi patrimoniali e finanziari, che elargivano a fini certamente nobili, ma non altrettanto essenziali come quelli relativi ai servizi pubblici locali.
Una svolta fu attuata con la legge 448/01, che modificava il citato decreto legislativo del 1999, l’articolo 4 del quale, al comma 1, lettera c del testo modificato, suona così: deve essere prevista, nell’ambito dell’organo di indirizzo, una «prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’articolo 114 della Costituzione, idonea a rifletterne le competenze in base agli articoli 117 e 118 della Costituzione».
Il che equivaleva a dire, in sintesi, che le fondazioni bancarie avrebbero dovuto essere governate da personale in prevalenza designato dagli enti territoriali di geografica pertinenza. Una svolta copernicana: quasi l’instaurazione di un rapporto di servizio fra le fondazioni bancarie e gli enti territoriali, esponenziali della realtà sociale locale, anche se si teneva a precisare che il personale dirigente così nominato non era legato da vincolo di mandato.
La svolta era stata proposta da Giulio Tremonti; la reazione del mondo bancario fu assai dura. Intervenne, a dirimere il contrasto, la Corte costituzionale che, con sentenza 301/03, dichiarò, tra l’altro, l’illegittimità della norma nella parte in cui prevede nella composizione dell’organo di indirizzo «una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’articolo 114 della Costituzione, idonea a rifletterne le competenze nei settori ammessi in base agli articoli 117 e 118 della Costituzione», anziché «una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, pubblici e privati, espressivi delle realtà locali». Il giudizio, in sé, era corretto: una volta affermata la natura delle fondazioni bancarie come enti privati appariva incongruo limitare la loro libertà statutaria imponendo loro una virtuale dipendenza dagli enti pubblici locali. La stessa sentenza ebbe anche a dichiarare illegittima l’attribuzione al ministro del Tesoro del potere di indirizzo generale sulle fondazioni bancarie, di cui all’articolo 10, comma 3 della legge, così rivalutando anche sotto questo aspetto la libertà decisionale di questi enti.
Dobbiamo ancora convivere, allora, con queste fondazioni, per metà culturali e per metà parabancarie? Una drastica via d’uscita, in verità, poteva esserci: quella di ricominciare tutto daccapo e di fondere ente conferente e società conferitaria, ripristinandone l’originaria unità. Ma la strada in questa direzione fu subito sbarrata. Ci si consenta un’altra personale testimonianza: nella commissione per la riforma del diritto societario, della quale chi scrive faceva parte, avevamo dettato norme sulla trasformazione, o sulla fusione, eterogenea, ammissiva di una trasformazione di fondazioni in società di capitali, o di fusione delle une e delle altre. Il testo che licenziammo, alla fine del 2002, non faceva cenno alcuno alle fondazioni bancarie. Ma, quando la legge di riforma apparve, fra le disposizioni di attuazione e transitorie del codice civile comparve, all’articolo 223 octies, comma 2, una inattesa norma che così suonava: «la trasformazione di cui al primo comma non è consentita alle fondazioni bancarie». Mai e poi mai si sarebbe dovuto attentare alla loro sopravvivenza.
 
Le fondazioni bancarie nel capitale della Banca d’Italia

L’ordinamento della Banca d’Italia risulta dallo Statuto, risalente al 1936 e più volte modificato (le ultime modificazioni sono del 1992 e del 1998), e dal Testo unico delle disposizioni di legge sull’istituto di emissione (regio decreto 204/1910 e successive modificazioni). Le funzioni che le residuano a seguito della istituzione della Banca centrale europea sono, essenzialmente, quelle che si ricollegano alla sua veste di autorità creditizia (articolo 4 del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), implicante l’esercizio della vigilanza (articolo 51 e sgg), e di autorità preposta, in concorso con la Consob, alla vigilanza sul mercato finanziario (Testo unico dell’intermediazione finanziaria).
A norma dello Statuto, come modificato nel 1998, il capitale della Banca d’Italia è rappresentato da quote di partecipazione di 0,52 euro ciascuna. Sempre a norma dello Statuto, le predette quote sono nominative e non possono essere possedute se non da: a) casse di risparmio; b) istituti di credito di diritto pubblico e banche di interesse nazionale; c) società per azioni esercenti attività bancaria risultanti dalle operazioni di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 356/90, ossia le società per azioni con oggetto bancario che sono risultate dalla trasformazione delle banche pubbliche; d) istituti di previdenza; e) istituti di assicurazione.
Le lettere a) e b) si riferiscono ad entità che già nel 1998 avevano cessato di esistere e che sono state evidentemente lasciate inalterate solo per memoria storica. I partecipanti sono ora circa novanta, costituiti in massima parte (con la sola esclusione cioè di due istituti previdenziali e di una compagnia di assicurazione) da società per azioni conferitarie di aziende bancarie già appartenenti a casse di risparmio. Ciascun partecipante gode di un numero esiguo di voti: il maggior numero di voti appartiene alla Cariplo s.p.a, cui ne spettano 50 su 762, con una percentuale del 6,60 %.
L’organizzazione interna della Banca d’Italia si articola, in analogia con le società di capitali, in una pluralità di organi: a) l’assemblea generale dei partecipanti, fra i quali è diviso il capitale; b) il consiglio superiore, composto di tredici membri nominati dall’assemblea generale; c) il direttorio, costituito dal governatore, dal direttore generale e da due vicedirettori generali, nominati dal consiglio superiore; d) i sindaci e i censori; e) il governatore; f) il direttore generale e i vicedirettori generali.
La nomina e la revoca del governatore, del direttore generale e dei due vicedirettori generali debbono, a norma dell’articolo 19 dello Statuto, essere approvate con decreto del presidente della Repubblica, promosso dal presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il ministro per il Tesoro, sentito il Consiglio dei ministri. Il che significa che la nomina del governatore, del direttore generale e dei due vicedirettori generali è deliberata dal consiglio superiore, mentre il decreto presidenziale, promosso nei modi sopra indicati, può solo approvare (o disapprovare) quanto deliberato dall’organo interno. La sede politica insomma non può procedere di propria iniziativa alla scelta dei massimi vertici della Banca d’Italia e ha solo al riguardo un potere di veto. Con il che si è, manifestamente, voluto garantire l’indipendenza di questa autorità, che si colloca in posizione di primo piano nel novero delle molteplici autorità indipendenti che caratterizzano l’attuale governo dell’economia.
Per l’ultimo comma, introdotto anch’esso nel 1992, dell’articolo 3 dello Statuto è ammessa la cessione delle quote, ma «in ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza della partecipazione maggioritaria al capitale della Banca da parte di enti pubblici o di società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia posseduta da enti pubblici». La disposizione ha preso il posto di quella originaria, applicativa dell’articolo 20 dell’antico Testo unico delle leggi bancarie, la quale si limitava a stabilire che le quote di partecipazione potevano appartenere solo a casse di risparmio, istituti di credito di diritto pubblico, banche di interesse nazionale, istituti di previdenza e istituti di assicurazione.
La prescrizione di cui all’ultimo comma dell’attuale articolo 3 dello Statuto non aveva carattere innovativo: muoveva dal presupposto che, come le preesistenti casse di risparmio e gli istituti di credito di diritto pubblico erano da considerare quali enti pubblici, così le attuali società per azioni partecipate dalle fondazioni bancarie sono da considerare quali «società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia posseduta da enti pubblici». Ha assunto, invece, carattere sensibilmente innovativo l’articolo 27 del citato decreto legislativo 153/99, che ha previsto la possibilità per le fondazioni bancarie, divenute enti privati, di partecipare al capitale della Banca d’Italia, ad alcune condizioni (patrimonio di almeno 25 milioni di euro, operatività in almeno due province, devoluzione ai settori rilevanti di una quota di reddito superiore al minimo stabilito dall’Autorità di vigilanza); la norma consente poi allo Statuto della Banca d’Italia di stabilire ulteriori condizioni. Il che si riconnetteva alla definizione legislativa degli enti conferenti quali «enti pubblici», contenuta nella intitolazione del titolo III del decreto legislativo 356/90, nonché alla formula di cui al comma 2 dell’articolo 11 del decreto legislativo citato, per il quale gli enti conferenti «hanno piena capacità di diritto pubblico e di diritto privato».
Ma l’attuale condizione giuridica delle fondazioni bancarie, quale emerge dall’articolo 2 del decreto legislativo del 1999, risulta mutata: esse sono ora «persone giuridiche private». Sicché gli attuali partecipanti al capitale della Banca d’Italia, quali risultano dalla lista allegata all’ultimo bilancio disponibile, sono quasi interamente società per azioni bancarie (quindi persone giuridiche private) controllate da azionisti privati, quali sono ora le fondazioni bancarie. Gli unici enti pubblici presenti nel capitale della Banca d’Italia sono l’INPS (5%) e l’INAIL (0,67%).
Allo stato attuale, pertanto, in conseguenza della privatizzazione delle banche pubbliche e della riforma della legislazione sulle fondazioni bancarie, la composizione del capitale della Banca d’Italia finisce con il contravvenire alle disposizioni statutarie. Non resta allora che prendere atto dell’avvenuto superamento, in conseguenza dei sopra descritti mutamenti, della filosofia che aveva ispirato la concezione originaria della Banca d’Italia, quale tecnocrazia preposta al governo della moneta e del credito, con una autonomia decisionale mitigata da una, sia pure indiretta, dipendenza dalle imprese pubbliche del settore creditizio, assicurativo, previdenziale.
A quei mutamenti non si potrebbe ovviare con una semplice modificazione statutaria che sopprimesse (oltre che le inutili lettere a, b ed e del  comma 2) l’ultimo comma dell’articolo 3, o che consentisse la libera circolazione fra tutte le banche (e tutte le compagnie di assicurazione) delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia. Nel primo caso non si vedrebbe perché mai la Banca d’Italia debba essere governata da alcune banche private, in nulla diverse dalle altre, solo perché subentrate ai pubblici partecipanti originari; e nel secondo caso si instaurerebbe un incongruo mercato fra le banche, che si contenderebbero le quote di partecipazione al capitale dell’autorità creditizia, ossia il titolo per concorrere alla nomina dei loro controllori.
Sta di fatto, e questo è il punto che qui va sottolineato, che nella loro ventennale marcia attraverso la storia economica e politica italiana le fondazioni bancarie hanno subito una profonda metamorfosi: dovevano essere, in origine, enti a vocazione solo culturale, affatto estranei al mondo bancario; ora vengono proposte, per la loro partecipazione al capitale della Banca d’Italia, quali enti di governo del sistema creditizio.



[1] Per il testo completo del parere espresso si veda F. Galgano, Sulla riforma della banca pubblica, in “Banca, borsa, titoli di credito”, 1/1989, p. 778.