La responsabilità culturale e democratica dei mezzi di comunicazione

Di Paolo Ruffini Martedì 09 Febbraio 2010 20:40 Stampa
Il tema della responsabilità culturale delle strutture di comunicazione richiede innanzitutto una chiarificazione sul significato dei termini usati per proporlo. Cosa significa responsabilità? Che cos’è la cultura? Che cos’è la comunicazione di massa? La risposta a queste domande pone una questione di libertà ed evidenzia la necessità di regole di garanzia per una democrazia che non persegua l’illusione, antidemocratica, della società perfetta.

 Qual è la responsabilità culturale delle strutture di comunicazione? La domanda, formulata in questi termini, suona talmente semplice da sembrare già una risposta. Quello che pare voler trasmettere è che chi fa comunicazione deve farla bene, deve farla vera, giusta, di qualità; deve responsabilmente porsi il problema di una regola che la strutturi, che la incanali, che la guidi.
La questione è in realtà molto più complessa. Temi come questi meritano più di una banale e rassicurante “giaculatoria”. Le risposte semplici alle domande complesse contengono sempre un’insidia, un inganno. Meglio andare con ordine e partire dunque dal concetto di responsabilità.
Secondo Dietrich Bonhoeffer i comportamenti responsabili non derivano dalla conoscenza esatta del bene e del male: la responsabilità è un metodo. E il metodo non è un contenuto; il metodo non è infallibile. La responsabilità ha a che fare con la libertà: «Responsabilità e libertà sono concetti correlati. La responsabilità presuppone oggettivamente – non cronologicamente – la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell’uomo. La libertà dell’azione responsabile è resa possibile in ultima istanza dalla non conoscenza del bene».
Non bisogna pensare che la responsabilità di chi opera nella comunicazione sia quella di guidare il proprio pubblico verso la verità. Semmai è vero il contrario: il dubbio è responsabile, la mancanza d dubbi è irresponsabile. L’idea che la comunicazione serva a diffondere la verità e la convinzione che possano esistere un’organizzazione e un sistema di norme in grado di strutturare tutto questo hanno in sé il germe terribile del totalitarismo.
Come sostiene lo stesso Bonhoeffer, «il vero capo (Führer) deve sempre poter deludere. Proprio questo fa parte della sua responsabilità e obiettività. Egli deve portare i suoi seguaci a liberarsi dell’autorità degli ordini e della finzione (…). Deve rifiutarsi assolutamente di diventare il seduttore (Verführer), l’idolo (…). Deve limitarsi spassionatamente al suo compito».
Parole terribilmente profetiche, pronunciate il 1° febbraio 1933: Hitler era divenuto Cancelliere il giorno prima.
La responsabilità dunque ha a che fare più con la libertà, con il dubbio, con l’ammissione della propria parzialità (e con l’accettazione di quella altrui), che non con la verità, con la certezza, con la pretesa di conoscere la regola del bene e del male. E le strutture della comunicazione hanno o dovrebbero avere un solo compito: quello di garantire l’esercizio di questa responsabilità.
Cos’è, del resto, la verità? Una risposta convincente a questa domanda (e ai tanti, troppi, che credono di averla in tasca) l’ha data Karol Wojtyla, nel suo messaggio per la giornata mondiale della pace lanciato nel 2002: «Bisogna fuggire dalla tentazione di imporre agli altri la propria visione della verità. Perché la verità, anche quando la si raggiunge – e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile – non può mai essere imposta, ma solo proposta. Bisogna comprendere che imporre agli altri, con la violenza, quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’uomo, e fare oltraggio a Dio».
Se si sceglie come parametro la responsabilità non si può non diffidare dei sedicenti paladini del bene e della verità, che caricano sulle spalle dell’umanità la costruzione di uno Stato etico, che dividono il mondo in “noi” e “loro”, che arruolano Dio dalla loro parte. E non capiscono che il problema sta proprio nel tracciare il confine tra il noi e il loro.
La verità, per essere vera, ha bisogno della libertà. Miguel de Cervantes, nella prima parte del “Don Chisciotte”, definisce la storia madre della verità, il che è come dire che la verità non esiste prima che la si scriva e che la verità dei fatti contempla necessariamente una varietà di punti di vista, di voci, di opinioni, di visioni, di racconti, di rappresentazioni della realtà.
Questo pluralismo (non la verità, non la qualità) è ciò che deve assolutamente garantire la struttura della comunicazione in un paese libero. Tutelare la possibilità di interpretare, di raccontare e di pensare diversamente è la prima responsabilità di chi opera nella comunicazione.
Come ha osservato Claudio Magris, capire la realtà implica selezionarla, ordinarla, sfoltirla, privilegiare nella selva dei suoi innumerevoli fenomeni alcuni fatti a scapito di altri, vedere le cose in una certa luce e non in un’altra. Del resto, senza prospettiva non c’è nulla, c’è solo il pulviscolo confuso di dettagli, un’anarchia di atomi.
Questo vuol dire che non c’è, non può e non deve esserci un padrone unico delle notizie in grado di mandare in scena un mondo a sua immagine. Vuol dire che una stessa cosa può essere raccontata in mille modi diversi. Tutti veri. Però diversi.
Vuol dire anche possibilità di scegliere liberamente cosa raccontare fra mille cose diverse.
Poi, oltre ad essere raccontata, ogni cosa può e deve essere interpretata, criticata. E, come diceva Charles Baudelaire, per essere giusta, per avere la sua ragione d’esistere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, cioè fatta da un punto di vista esclusivo che apra più orizzonti. Scriveva Enzo Biagi: «Una notizia la si può raccontare in tantissimi modi. Facciamo un esempio: un bambino che vede una bicicletta la prende e scappa via. La notizia può essere raccontata così: un bambino la prende perché ha sempre sognato di avere la bicicletta, oppure, il bambino è un ladro, dimostra di essere un precoce delinquente, infine, era un gioco, il bambino non sa che certi giochi vengono contemplati anche dal codice penale. Ognuno ha il suo punto di vista nel raccontare le cose, ma deve farlo con onestà». E anche l’onestà, come la responsabilità, è un metodo, non un contenuto. Resta da dire della cultura, e della qualità, nel mondo della comunicazione di massa. E qui, volendo essere onesti, e responsabili, è necessario farsi carico di tutta la complessità del problema.
La cultura di cui stiamo parlando è la cultura di massa. La comunicazione di cui stiamo parlando è la comunicazione di massa. Il sistema politico dentro cui questo discorso si muove è il sistema democratico.
Non è un discorso responsabile quello di chi teorizza che la comunicazione di massa per avere qualità debba rinunciare alla massa, così come non è un discorso onesto quello di chi pensa che, per essere colta, la televisione debba rinunciare agli ascolti; e non è un discorso democratico quello di chi pensa che la quantità di consenso sia inversamente proporzionale alla qualità della proposta.
Il problema è un altro. È semmai quello del «distacco degli intellettuali dalla realtà popolare-nazionale », usando le parole di Antonio Gramsci.
Scriveva Gramsci nei suoi “Quaderni del carcere”: «Poiché non può esistere quantità senza qualità e qualità senza quantità (economia senza cultura, attività pratica senza intelligenza e viceversa) ogni contrapposizione dei due termini è un non senso razionalmente. E infatti quando si contrappone la qualità alla quantità, con tutte le variazioni melense (…) in realtà si contrappone una certa qualità ad un’altra qualità, una certa quantità ad un’altra quantità. Si fa cioè una certa politica… ». E, ancora: «La politica della qualità determina quasi sempre il suo opposto: una quantità squalificata».
Per tornare al problema posto: la qualità nella comunicazione di massa non può non porsi il problema della quantità, il tema del rapporto con un’audience significativa.
Il numero di apparecchi televisivi esistenti nel mondo supera il miliardo. Gli spettatori sono ovviamente molti di più: in tutti i paesi industrializzati il piccolo schermo è presente nella quasi totalità delle abitazioni (con percentuali che oscillano fra il 96% e il 100%), ed è più probabile – come ha scritto Aldo Grasso – trovare nella camera di un bambino un televisore piuttosto che un libro.
Il tempo medio che gli italiani dedicano a guardare la televisione è di quasi quattro ore al giorno. Il tempo medio che dedicano ad ascoltare la radio è di tre quarti d’ora al giorno. Il tempo medio che dedicano a leggere quotidiani o riviste è poco più di un quarto d’ora al giorno.
In Italia, in ogni momento della giornata, davanti alla televisione ci sono poco meno di 10 milioni di persone, divise fra i vari canali; di queste, circa il 9% non ha nessun livello di istruzione; il 34% ha un livello di istruzione elementare; il 26% ha il diploma di media inferiore; il 26% di media superiore; solo il 5% la laurea.
Sono dati che fanno riflettere, che spiegano molte cose. Che fanno capire quanto sia fragile il confine, la trincea dove rischia di consumarsi la democrazia, senza un’onesta assunzione di responsabilità proprio sul tema della quantità, oltre che su quello della qualità, della cultura nazional-popolare oltre che della cultura accademica.
Si tratta di un vero e proprio imperativo categorico che andrebbe ricordato sempre a chi pensa (o fraudolentemente suggerisce) che si possa fare televisione senza fare ascolti. Perché ciò che distingue i mezzi di comunicazione di massa è, appunto, la massa. Questa è la responsabilità culturale, e democratica, delle strutture di comunicazione.
La TV è diventata lo spazio dove si articola il nostro essere uomini pubblici, dove si articola il discorso pubblico e dove si articola, in definitiva, la democrazia. Dove si riconosce la collettività quando partecipa al proprio diritto ad essere informata, quando si diverte, si emoziona, ricorda, condivide una cultura, forma la propria cultura, la propria storia, si sente un’unica cosa, una togetherness. Una “insiemità” che si fa carico, che dovrebbe responsabilmente farsi carico, del multiculturalismo, della possibilità di convivenza di identità diverse.
Ecco. Identità è un altro termine che sfida il mondo della comunicazione sulla trincea di una assunzione di responsabilità. Se fosse vero – e a parere di chi scrive lo è – che tocca anche ai mezzi di comunicazione nutrire, a volte persino costruire, o ricostruire, un’identità nazionale, più identità culturali, occorrerebbe allora una maggiore cautela di fronte al rischio di precipitare all’indietro verso una sorta di tribalizzazione identitaria capace di cancellare, di far sparire ogni forma di dialogo, ogni minimo comun denominatore. Una cautela che a volte purtroppo non ci appartiene, presi come siamo dalla voglia di semplificare: il bianco e il nero, noi e gli altri.
Si tratta di un clamoroso errore di prospettiva: una crisi di identità spacciata per orgoglio di appartenenza. Dovremmo piuttosto conservare la memoria delle nostre molteplici appartenenze, quella della radice ultima che tutti ci accomuna. Dovremmo contestare tutti ogni forma di fanatismo. Dovremmo ricostruire, rifondare, le basi di un comune sentire, le basi etiche che ci fanno riconoscere parte di un destino condiviso. Dovremmo riconoscere che questo è anche il nostro interesse, l’interesse di ognuno di noi, ormai inevitabilmente legato a quel lo di tutti gli altri, anche a quello di chi è più lontano da noi.
Amin Maalouf, scrittore francese nato in quel crogiolo di identità diverse che è il Libano, spiega: «Non possiamo pensare di imporre ai miliardi di esseri umani smarriti la scelta fra l’affermazione ad oltranza della loro identità e la perdita di ogni identità, fra l’integralismo e la disgregazione. Se i nostri contemporanei non verranno incoraggiati ad assumere le loro molteplici appartenenze, se non riusciranno a conciliare il loro bisogno di identità con una apertura schietta e priva di complessi alle culture diverse, se si sentiranno obbligati a scegliere fra la negazione di se stessi e la negazione degli altri, formeremo legioni di pazzi sanguinari, legioni di squilibrati».
Ecco, a parere di chi scrive, semmai, nella tutela della nostra identità, etnica, culturale, religiosa, dovremmo sentirci un po’ tutti frontalieri. Dovremmo appunto costruire sul dialogo, e non sull’esclusione, la nostra identità, che non è mai statica. Le nostre identità in divenire.
Questo non vuol dire annullare le differenze, ma al contrario apprezzarle. Valorizzarle, persino. La nostra responsabilità sta anche in questo ed è, al di là delle strutture – che non possono e non debbono prefigurare un contenuto, ma solo preservare una regola di libertà – individuale.
Una onesta assunzione di responsabilità, su questo punto, richiederebbe infatti, da un lato, un sistema di regole in grado di garantire la complessità culturale e, dall’altro – da parte di chi guida le strutture della comunicazione –, l’impegno a difendere la propria autonoma capacità di lettura e di interpretazione della realtà legando le diverse voci come un coro e non come un insieme stonato.
In generale, poi, nei sistemi democratici la comunicazione è un contropotere. Deve stare dall’altra parte rispetto a tutti gli altri poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario, economico.
Certo, c’è chi pensa che obiettività significhi non disturbare il manovratore e che la comunicazione, per essere obiettiva, non debba prender parte. Ma non prendere parte vuol dire essere distratti, ignavi, conniventi. Altro che non disturbare il manovratore; la regola dovrebbe essere semmai quella di disturbare i manovratori. Tutti i manovratori.
Molti, e purtroppo tra questi anche alcuni con ruoli di rilievo nel paese, pensano che la democra zia sia sinonimo di consenso e la responsabilità una sorta di acquiescenza.
Ciò che distingue la democrazia dai regimi è invece la tutela del dissenso, la libertà di dissenso, l’esercizio della responsabilità come scelta di libertà, non l’obbligo del consenso.
La comunicazione che serve a costruire, o consolidare, il consenso, che non esercita la libertà di critica, che coltiva la rassegnazione o il fervido entusiasmo ha poco a che fare con le democrazie liberali, e più con la propaganda delle autocrazie. Né basta a salvarsi la coscienza la teoria della lottizzazione degli spazi e dei minuti. Un tanto di propaganda a te, un tanto di propaganda a me; un cortile a te e uno a me; una politica che, anziché pensare alle teste pensa ai cappelli, anziché pensare al consenso di massa, pensa alle manovre di palazzo, un sistema della comunicazione che non sapendo fare la sua parte, prende partito, e irresponsabilmente, recitando un rosario di alibi, mormora “giaculatorie” sulla responsabilità, fa un uso antidemocratico della cultura e come Ponzio Pilato si lava mani.
Questa sì è una questione di responsabilità, individuali e collettive, e impone un rafforzamento del senso di responsabilità, di quella che Montesquieu chiamava virtù repubblicana. Nella consapevolezza che solo l’esercizio responsabile della libertà permette la crescita culturale e democratica di un popolo. Permette, ma non obbliga. Non può obbligare.
Come ha scritto Fernando Savater: «La democrazia che non permette il vizio o la stupidità umana, la volontaria perdizione dell’individuo (sebbene cerchi di evitarla con l’istruzione e le leggi e ne castighi i delitti) non merita questo nome né, di solito, lo riceve».

 

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