Proposte per un servizio pubblico e una TV generalista di qualità

Di Giovanni Minoli Martedì 09 Febbraio 2010 20:36 Stampa
Le nuove tecnologie che si stanno facendo strada nel mondo dei media a scapito dei contenuti hanno monopolizzato interessi e investimenti. La televisione, in questo contesto, rischia di divenire uno tra gli ormai molti canali di distribuzione. È urgente, dunque, intervenire per recuperare il tradizionale ruolo che essa, in special modo nel caso del servizio pubblico, ha ricoperto per decenni: quello di portatrice del valore aggiunto della comunicazione e dell’incontro, quello di mediatrice di valori e di spazio per lo scambio culturale e la trasmissione delle identità culturali.

 «La FIAT non è interessata ai telefoni perché non avranno futuro»: lo diceva il senatore Agnelli all’inizio del secolo scorso.
Ma in tempi più recenti, a metà degli anni Novanta, il famoso futurologo del Media Lab – il dipartimento del Massachusetts Institute of Technology (MIT) dedicato alla ricerca nel campo della multimedialità e della tecnologia – Nicholas Negroponte era convinto che entro dieci anni «non ci sarebbe più stato nessun prodotto editoriale su carta». È vero, la crisi c’è, ma i quotidiani escono ancora regolarmente in tutto il mondo.
E ancora, in piena new economy, prima che esplodesse “la bolla del 2001”, si diceva che internet avrebbe cambiato tutte le regole della comunicazione e sovvertito il primato del contenuto sull’infrastruttura. Secondo quell’analisi, dunque, il modello vincente avrebbe dovuto porre l’accento sul web quale “fornitore di infrastrutture”. Così, nella fusione tra America On Line, l’infrastruttura, e Time Warner, i contenuti, il vero valore era rappresentato da America On Line.
Oggi, a nove anni di distanza, America On Line (cioè il provider di rete) è stato addirittura cancellato dal marchio della società, il cui rilancio è affidato esclusivamente ai contenuti di Time Warner.
Questi macroscopici errori di valutazione esprimono quanto sia arduo prevedere il futuro. Inoltre,   internet rende evidente che la velocità del cambiamento nella comunicazione è talmente elevata da essere difficilmente prevedibile.
Secondo Bill Gates, «se la stessa velocità di evoluzione di internet fosse stata applicata alle automobili, oggi avremmo delle auto a 500 dollari che fanno 100 km con un litro».
Ciò premesso, è possibile una prima osservazione, un po’ controcorrente: nel nostro futuro televisivo vi sono troppa tecnologia e decisamente pochi contenuti. O meglio – a parere di chi scrive – da tempo siamo assediati dagli interessi delle lobby della tecnologia che dominano il mercato, a prescindere dai contenuti che, con poche variazioni, si ripetono sempre più spesso e che, in genere, esulano dai reali interessi dei cittadini-telespettatori.
Un esempio tra molti è rappresentato dalla gara per l’UMTS che ha avuto luogo qualche anno fa. Sono stati spesi 36.000 miliardi di lire per le frequenze, a fronte di un investimento pari a zero nei contenuti.
Un altro esempio, più vicino agli interessi dei telespettatori della RAI, è quello dei 120-130 milioni di euro spesi per le tecnologie del digitale terrestre contro i 10 milioni di euro previsti per i 12 canali tematici della stessa RAI. Una follia!
Insomma, il rapporto tra tecnologia e sistemi culturali che producono contenuti appare oggi troppo sbilanciato a favore della tecnologia.
Attualmente, infatti, il protocollo IP (quello che si usa in rete), grazie alla sua semplicità e robustezza, garantisce l’integrazione di tutte le filiere industriali della comunicazione e produce la convergenza tra tutti i dispositivi collegati in rete. Grazie a tale convergenza è aumentata a dismisura la quantità di piattaforme di distribuzione dei contenuti, per mettere a disposizione – si ricordi – quasi sempre gli stessi prodotti, più o meno rielaborati.
Nel 1966 le piattaforme disponibili al consumo dei contenuti erano all’incirca sei (quotidiani, periodici, radio, televisione, cinema e dischi). Vent’anni dopo erano diventate tredici e nel 2007 erano almeno trenta.
Con la convergenza ha cominciato quindi a prendere piede un’offerta di informazione e soprattutto di intrattenimento on demand attraverso internet (ad esempio, con Joost, Babelgum ecc.) costruita per un pubblico che vuole scegliere personalmente, tra centinaia di opzioni, cosa vedere e quando farlo. Il tutto per realizzare nel campo televisivo il trionfo e la generalizzazione della “TV fai da te” con scambi di file tra pari. Insomma, per fare la “post televisione”, digitale, multipiattaforma, eventualmente autoprodotta.
Ma i media dovrebbero essere “anche” un’altra cosa. Non solo distributori, ma anche portatori del valore aggiunto del racconto e della riflessione. E il fatto che sempre di più si usi internet come infrastruttura omnicomprensiva per distribuire non significa affatto che tutti siano pronti a raccontare o a rendere credibili le notizie con le necessarie verifiche delle fonti.
Intanto, i primi problemi relativi ai diritti dei contenuti veicolati (ad esempio, la richiesta di danni per un miliardo di dollari avanzata da Viacom nei confronti di Google ecc.) testimoniano come anche la rete si nutra non di prodotti propri, ma in gran parte di programmi di qualità realizzati per la TV generalista o per il cinema, spesso manipolati.
È necessario dunque comprendere bene quali sono i punti critici che la frammentazione del consumo dei media pone al mantenimento della qualità e della centralità dell’offerta. Cioè dei contenuti.
Cosa accade? Avvengono dei paradossi.
 
Primo paradosso Può essere così rappresentato: più canali, meno risorse uguale minor qualità media.
Infatti, per essere attraenti i nuovi servizi dovranno mettere insieme un’offerta significativa e gratuita. Ma un’offerta attrattiva costa. E chi la finanzierà? L’aumento dei ricavi pubblicitari? No, perché il processo di frammentazione del pubblico determinato dalla moltiplicazione dei canali comporta la diminuzione netta degli ascolti medi e quindi della pubblicità. Oppure si finanzierà facendo pagare i nuovi servizi agli utenti? Si tratta però di una formula che taglierebbe fuori la larga fetta della popolazione che non può pagare (torna così a fare capolino il digital divide socioeconomico). O, ancora, potrebbe essere alimentata con finanziamenti pubblici diretti, che però contrastano con le regole dell’Unione europea contro gli aiuti di Stato.
In sintesi, di fronte alle poche risorse disponibili sarà difficile immaginare la realizzazione di programmi attraenti e di qualità. È più probabile che la parte determinante dei nuovi palinsesti digitali governati dall’esplosione delle tecnologie distributive possa essere costruita sui generi “poveri” della TV generalista: talk-show, giochini, programmi contenitore, reality ecc.
Con un abbassamento della qualità complessiva dell’offerta.
 
Secondo paradosso Può essere ravvisato nell’equazione più canali uguale minor ricchezza dell’offerta. C’è poi la questione del pluralismo, che va tutelato anche sulle nuove reti digitali.
Non si tratta di un esito ovvio, perché nell’industria dei media è in atto da tempo una tendenza verso la concentrazione. Alcuni segnali indicano che la concentrazione potrebbe rapidamente espandersi ai nuovi media: News Corp che compra MySpace, Google che compra YouTube; è stato sempre così, TV libera prima, poi privata, poi Berlusconi ecc.
 
Terzo paradosso Può essere infine sintetizzato nella formula più canali uguale minor condivisione e coesione sociale. Non c’è dubbio che nei suoi primi cinquant’anni di vita la televisione generalista abbia garantito la condivisione di temi e di eventi socialmente rilevanti e svolto una funzione di unificazione. In Italia la TV è stata alla base dell’unificazione linguistica del paese e ha rappresentato uno dei motori di uno sviluppo economico tutto sommato abbastanza equo e solidale.
 
La moltiplicazione dei canali e delle piattaforme di distribuzione, e la successiva frammentazione del pubblico, hanno prodotto, di conseguenza, una diminuzione della quantità di televisione condivisa – nello stesso giorno e nello stesso momento – dalla popolazione di un determinato paese. Contenuto che è spesso alla base delle relazioni sociali.
Tale senso di condivisione è quello che però – proprio in America, patria dell’ascolto frammentato – si tenta di ricostruire ogni volta che, ad esempio, il presidente parla al paese; lo fa anche Obama, re nell’uso della rete durante la campagna elettorale, sempre più spesso alla ricerca del prime time delle reti generaliste unificate per parlare.
Questa frammentazione di ascolti attraversa una fase in cui le stesse tecnologie hanno dato per la prima volta voce – nella combinazione satellite più internet – ad un mondo che prima non comunicava. Il riferimento è a fenomeni mediatici come Al Jazeera e Al Arabiya. Due network che sembra- no aver sposato la tecnologia più avanzata con un modello di comunicazione molto simile a quello dei tradizionali servizi pubblici europei degli anni Sessanta. Se si analizzano i loro palinsesti si vedrà che non solo rappresentano una alternativa mediatica per il confronto con le culture, ma si tratta di TV che lavorano in maniera sistematica alla costruzione di una identità islamica. In tutte le sue componenti, estreme e moderate.
I colossi occidentali (CNN, BBC World, Fox ecc.) non sono più i soli a parlare al mondo. Anche Al Jazeera e Al Arabiya si rivolgono al mondo, soprattutto al sud del mondo, ma anche alle comunità di immigrati che vivono in mezzo a noi, alle quali viene offerto – in tempo reale – un punto di vista alternativo sui fatti. Con quali conseguenze nel tempo non è dato ancora sapere. Ma bisognerebbe perlomeno cominciare a studiare questa comunicazione e tenerne conto nella progettazione dei nostri palinsesti, soprattutto in quelli del servizio pubblico.
Il problema della frammentazione degli ascolti porterà – come detto in precedenza – a un serio problema di coesione sociale. Vale la pena qui ricordare che la TV generalista è il più grande mezzo inventato dall’uomo per trasmettere conoscenza e principi, e che deve integrare le altre “agenzie di senso” come la scuola e la famiglia. Senza dimenticare che la TV propone sempre modelli e quindi valori. Essa è maestra di vita nel bene e nel male.
Per molti temi oggi in discussione, si pensi a quelli della cittadinanza, della promozione dei saperi e della creatività, oltre a quelli della gestione delle convergenze, è impensabile ipotizzare che il frammentato universo digitale possa davvero creare quegli spazi condivisi di comunicazione, quelle agorà senza le quali i processi decisionali sfuggono ai checks and balances della democrazia.
E come è possibile dialogare con le comunità immigrate se non viene aperto un fronte di confronto con la programmazione della TV di origine islamica, che sempre di più le informa e le forma? E dove può avvenire questo confronto se non in una TV di servizio pubblico?
È così già in Europa, dove la BBC ha imposto il raddoppio del canone per declinare sul servizio pubblico i prodotti di tutte le piattaforme della convergenza orientata al cittadino.
Sta per accadere in Spagna, in Francia, anche in Germania, dove il dibattito sul nuovo ruolo del servizio pubblico di fronte alla sfida della convergenza è molto avanzato, con soluzioni analogiche, e vede il coinvolgimento di rappresentanti politici del centrodestra e del centrosinistra. La ricetta sembra essere: meno pubblicità e più canone. In Italia la discussione è ancora ferma ai blocchi di partenza. Qui si trova un servizio pubblico ibrido che è al 45% di share. Uno share che appare troppo alto, a fronte di un servizio senza senso e senza identità.
Bisognerebbe avere il coraggio di immaginare una RAI al 30-35% di share finanziata con più canone e meno pubblicità, che possa declinare un’offerta di servizio pubblico su tutte le piattaforme della convergenza, soprattutto oggi che la scelta del digitale terrestre è cosa fatta.
Cosa vuol dire? Vuol dire che nell’epoca della convergenza tra i compiti del servizio pubblico, riprogettato nelle regole della governance e in quelle del rapporto con il mercato, ci deve essere la realizzazione di una TV che sia leader dell’incontro tra culture, civiltà e religioni. E che sia anche lo strumento di questo confronto-incontro rappresentato attraverso tutti i generi televisivi e le loro forme di racconto.
Una TV in grado di trasmettere ai nuovi “raccontatori” che navigano nella rete la capacità di narrare. Ricordiamoci che, in questo quadro, la TV generalista è ancora il mezzo migliore per trasmettere condivisione e valori di socialità la cui consapevolezza, in un mondo dominato dall’individualismo, è sempre più attenuata e, tuttavia, sempre più indispensabile.
Chi vuole parlare a tutti non può prescindere dalla TV generalista. È probabile che, nonostante l’avanzata di YouTube – che tende ad essere sempre più televisione – e dei social networks, gli investimenti in tempo e capitali siano ancora destinati alla TV generalista.
Per questo motivo, la TV generalista, soprattutto di servizio pubblico, deve acquisire nuove funzioni, e deve farlo proprio perché l’accelerazione tecnologica crea nuovi muri, nuove esclusioni fra le fasce più deboli. La TV generalista pubblica, specie in Europa, è l’unica in grado di colmare i deficit del dig - ital divide.
Tocca alla politica decidere se vuole che tutti usino internet e che internet diventi il luogo del nuovo racconto.
Internet non sarebbe esploso senza la decisione dell’Amministrazione Clinton di incentivare una politica economica ad hoc (le autostrade dell’informazione) che ha determinato il passaggio del dominio americano dall’economia materiale (il complesso militare-industriale) all’economia immateriale della conoscenza e dell’intrattenimento.
Ecco, tra le nuove funzioni del servizio pubblico emerge quella di mettere in evidenza il compito di insegnare a narrare ai nuovi “raccontatori” della rete, dopo la sbronza del “fai da te”.
In conclusione, sarebbe utile immaginare per il futuro dell’Italia uno scenario dove i media non siano semplici piattaforme dedicate alla distribuzione di prodotti tutti uguali pensati a livello globale.
Questo può essere – forse – compito delle piattaforme commerciali. Le piattaforme di servizio pubblico in Italia – come già in Europa – dovrebbero essere il luogo dove anche il rapporto con i fornitori esterni sia progettato e gestito editorialmente per mezzo di una “visione” strategica che abbia al centro il cittadino, i suoi interessi, e non soltanto il consumatore. Sfruttando al massimo anche l’opportunità offerta dal digitale terrestre. In sostanza, un servizio pubblico che sappia riprogettare la propria mission nell’area multimediale. E dove i suoi dirigenti non si limitino ad affermare – per difendere la scarsa qualità delle loro scelte di programmazione – che la TV è lo specchio della società. È vero, ma è vero a “livello zero” di responsabilità. Il banco di prova per questa sfida è rappresentato dalla strategia che saprà darsi – o meno – sull’offerta del digitale terrestre.
Solo così sarà possibile promuovere una diversificazione nell’offerta, incentivando e orientando la produzione indipendente, sia quella di generi sia quella di format televisivi, chiamando in causa un intervento (nazionale/europeo) per contrastare in modo nuovo la tendenza a dirigersi in maniera omogenea verso i generi e i format standard, più semplici e banali.
Nello scenario digitale che va delineandosi, la questione dei contenuti non può essere lasciata incustodita. E non può essere lasciata in balia delmercato. Nell’eventualità in cui fosse unicamente il mercato a gestire la sfida dei contenuti, infatti, esso sceglierebbe infatti la via più breve, la meno complessa per conseguire il suo obiettivo esclusivo: il profitto.
Entro una possibilità di scelta apparentemente illimitata dell’universo on demand il mercato cer- cherebbe di scegliere le sue “perle”. Ma, come sosteneva Flaubert, «ce ne sont pas les perles qui font le collier, il est le fil». E senza il filo si perde la complessità, si accentua la semplificazione, la superficialità, si lascia spazio alle maschere, ai mostri sociali. Allora i Fabrizio Corona diventano idoli dei giovani o – come è successo a Garlasco – due ragazze malate di protagonismo mediatico sfruttano il delitto della cugina per farsi pubblicità. O peggio ancora, le parole perdono senso e diventano proiettili sempre più violenti nei talk-show della sera, riducendo ogni ragionamento a puro scambio di insulti o slogan contrapposti.
È possibile dunque – a parere di chi scrive – attribuire anche in Italia, come già accade in Europa, un ruolo fondamentale al servizio pubblico, naturalmente riformato e riprogettato, affinché trascini il sistema verso la qualità. Dove i migliori talenti che una società vanta nell’arte, nella cultura e nello spettacolo possano esprimere al meglio le loro capacità nell’interesse del cittadino-telespettatore e siano creatori di un made in Italy della TV da esportare nel mondo. Perché, nel mondo “glocalizzato”, il servizio pubblico deve soprattutto raccontare le radici, le identità culturali, artistiche, industriali e spettacolari del local, appunto del made in Italy, e diffonderlo nel mondo. Creando così ricchezza e valore attraverso la produzione e la proprietà di prodotti di cui si posseggano “tutti” i diritti declinabili sulle piattaforme della convergenza. Questa è la nuova ricchezza. A titolo di esempio, non si dimentichi come, riscoprendo la 500, la FIAT di Marchionne ha conquistato Obama e l’America.
Perché solo investendo fondi e risorse umane nella ricerca delle leggi che regolano i rapporti tra tecnologia, cultura e politica possiamo migliorare le nostre capacità di governo e di progetto.


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