La riforma della giustizia nel quadro del mutamento degli organi dello Stato

Di Luciano Violante Martedì 09 Febbraio 2010 19:52 Stampa
Rispetto all’impianto originale della Costituzione sono mutati tanto il Parlamento, quanto il governo, quanto, ancora, la magistratura. La magistratura, in particolare, ha sviluppato significativamente due dimensioni, quella di servizio e quella di potere. Una riforma definitiva della giustizia come servizio sarà possibile solo quando verranno risolti, rispettando la piena indipendenza della magistratura, i problemi posti dalla giustizia come potere.

La magistratura ha due dimensioni, una di servizio per i cittadini e l’altra di potere dello Stato. Le due dimensioni sono l’una funzionale all’altra. Se la giustizia non fosse uno dei poteri dello Stato, quindi dotata di indipendenza rispetto al Parlamento e al governo, non potrebbe garantire ai cittadini i loro diritti né potrebbe far valere le leggi nei confronti degli stessi membri del Parlamento e del governo. Se non avesse anche la dimensione del servizio, la sua indipendenza diventerebbe un irragionevole privilegio. Potere e servizio sono dunque l’uno funzionale all’altro.

Le democrazie contemporanee non prevedono l’esistenza di poteri assoluti. Ciascun potere incontra un confine nell’esistenza di un altro potere. Nella nostra Costituzione persino la sovranità, che appartiene al popolo, va dal popolo esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (articolo 1). I confini dell’azione della magistratura sono determinati dalla legge. L’articolo 101 della Costituzione, laddove stabilisce che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, attribuisce ad essa due funzioni: la determinazione dei confini oltre i quali il magistrato non può andare e l’individuazione dei presupposti per la legittimazione democratica dei grandi poteri che la magistratura può esercitare. Questa legittimazione sta appunto nella soggezione alla legge che, nello schema classico, è frutto della volontà del Parlamento, titolare della rappresentanza generale della nazione. Pertanto il magistrato, applicando la legge, attua la volontà del Parlamento e si assoggetta alle sue determinazioni.

La situazione attuale è molto lontana dallo schema classico appena indicato. Da tempo la legge non è più in grado di vincolare il giudice né è più la fonte principale delle regole che disciplinano i comportamenti privati e pubblici. Settori importanti della vita civile ed economica del paese sono regolati da norme, spesso tra loro sovrapposte, contraddittorie, di difficile individuazione, che giacciono in decreti legge onnicomprensivi costituiti da un solo articolo composto da centinaia di commi aventi ad oggetto le materie più disparate. Alla Camera dei deputati, nella scorsa legislatura, si è dovuto acquisire mediamente il parere di otto Commissioni per ogni decreto legge e nella legislatura in corso il parere di nove Commissioni. Segno che ciascun decreto, spesso attraverso un unico articolo di centinaia di commi, disciplina dalle otto alle nove diverse materie. 1 Nelle ultime legislature i decreti sono stati in genere approvati con voto di fiducia e quindi senza un confronto e un approfondimento sul merito delle singole previsioni. Infine, in molteplici campi, la legge è stata soppiantata da decreti legge onnicomprensivi, da decreti delegati che vanno ben oltre il mandato del Parlamento, da ordinanze emesse con i poteri della protezione civile, da annunci a mezzo stampa di misure contenenti sanzioni o premi, dai quali la propaganda fa derivare miracolosi effetti o disastrose conseguenze, a seconda del colore del propagandista. Siamo forse alla fine di un ciclo secolare caratterizzato dal dominio della legge come principale strumento di governo del paese. Ma il nuovo ciclo, se dovesse consolidarsi, non risponderebbe ai principi dello Stato costituzionale di diritto.

La crisi della legge ha due effetti paradossalmente contraddittori. Se la legislazione non è più in grado di dettare regole, si sposta sul magistrato – che deve comunque dare una risposta – un compito di produzione/creazione delle regole che va ben al di là del potere-dovere di interpretazione della legge. L’esercizio di questo compito, per la mancanza del principio della vincolatività del precedente giurisprudenziale e per il carattere di potere diffuso sul territorio nazionale, che è proprio della magistratura, può dar vita a decisioni diverse per casi analoghi tra i diversi uffici giudiziari e persino all’interno di uno stesso ufficio giudiziario. Entra così in crisi il principio stesso di legalità, inteso come prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei comportamenti dei singoli, delle famiglie e delle imprese. Questo fenomeno indebolisce la legittimazione della magistratura sia agli occhi dei cittadini sia nei confronti dei poteri politici. I cittadini sono le prime vittime della imprevedibilità delle conseguenze giuridiche delle loro azioni. Parlamento e governo, sulla carta politicamente responsabili per le proprie scelte, spostano sulla magistratura la responsabilità del disordine e si chiedono, con una punta di malizia, a che cosa oggi, nella incertezza dei confini delle leggi, sia soggetto un giudice. Da questa condizione alla messa in discussione dell’indipendenza stessa della magistratura, il passo è breve. Dovrebbe essere proprio la magistratura a comprendere che la sua indipendenza può essere tutelata da una seria riforma, coerente con i principi costituzionali, piuttosto che attraverso una strenua difesa dello status quo. In questo quadro occorrerebbe porre una distinzione tra separatezza e indipendenza. Oggi lo statuto materiale della magistratura va ben al di là dell’indipendenza perché disegna una istituzione tanto separata nella sua forma di governo da tutte le altre istituzioni centrali, quanto profondamente incisiva nella vita civile, economica e politica del paese. Recuperare la dimensione dell’indipendenza senza precipitare nella separatezza è arduo, ma necessario.

Anche la condizione del Parlamento e del governo è lontana dallo schema classico. L’attuale legge elettorale ha privato i parlamentari della capacità di rappresentare la nazione; essi siedono in Parlamento non per la scelta diretta dei cittadini, ma perché selezionati delle oligarchie dei partiti ai quali appartengono. Essi quindi rappresentano quelle oligarchie, rispondono alle loro sollecitazioni, si preoccupano di mantenere una costante relazione con chi nel partito può decidere le prossime candidature. Il rapporto tra società e Parlamento è interrotto: la società non è rappresentata dal Parlamento e il Parlamento non rappresenta la società. Questa congiuntura non è priva di effetti sulla natura del Parlamento e sul ruolo della magistratura. Se i parlamentari traggono la loro legittimazione non dalla rappresentanza dei cittadini, ma dalla fiducia delle oligarchie dei partiti di appartenenza, il Parlamento perde non solo la funzione di rappresentanza generale, ma, cosa ancora più grave, la propria unitaria identità costituzionale. Il Parlamento si spezza in due parti: la maggioranza parlamentare si compenetra con il governo e diventa una sua protesi; l’opposizione si compenetra con le oligarchie dei propri partiti. Il Parlamento cessa di essere luogo unitario della mediazione e della negoziazione politica per diventare invece il luogo della teatralizzazione dello scontro politico e della ratifica di decisioni prese altrove. Questa legge elettorale ha quindi messo in discussione la stessa funzione del Parlamento come potere della Repubblica indipendente dal governo. Di fatto, non siamo più di fronte alla classica tripartizione dei poteri. Stiamo pericolosamente scivolando verso la bipartizione dei poteri: il continuum maggioranza parlamentare-governo da un lato e il potere giudiziario dall’altro. Quando i poteri sono due, l’alternativa è tra la diarchia o il conflitto. La diarchia tra politica e giustizia è impossibile e comunque non augurabile. Il conflitto permanente sembra essere l’unica soluzione, se non prevale la ragionevolezza. Nel sistema originale della Costituzione il presidente del Consiglio era solo un primus inter pares. Oggi il presidente del Consiglio ha assunto un ruolo di tutt’altro rilievo. L’indicazione del nome dei candidati a Palazzo Chigi sulla scheda elettorale ha dato la sensazione di una sorta di elezione diretta e comunque ha fortemente personalizzato l’intera vita politica. Il potere del capo della coalizione di incidere direttamente e profondamente sulla scelta dei futuri parlamentari, grazie alla nuova legge elettorale, ha rovesciato il rapporto di fiducia. È la maggioranza parlamentare a godere della fiducia del presidente del Consiglio, capo della coalizione vincente e non più viceversa, come si insegnava all’università.

Nelle attuali contingenze questo rovesciamento delle parti è esasperato dal particolare peso politico dell’attuale presidente del Consiglio dei ministri. Egli è, insieme, capo indiscusso del partito di maggioranza relativa e della coalizione, titolare di assai rilevanti risorse finanziarie, gode della disponibilità di grandi mezzi d’informazione pubblici e privati, in assenza di una rigorosa legge sul conflitto di interessi. Le conseguenze sono molte e tutte gravi. Al di là delle inchieste giudiziarie che lo riguardano personalmente, il conflitto politico permanente sembra svolgersi tra presidente del Consiglio e magistratura. Questa situazione può innescare potenti spinte autodistruttive perché ciascuno dei due poteri possiede, sulla carta, i mezzi per demolire l’altro. I magistrati possono attivare inchieste nei confronti dell’autorità politica colpendola, direttamente o indirettamente, nella sua credibilità. Il presidente del Consiglio può, attraverso i mezzi d’informazione, denigrare i magistrati facendoli apparire come non degni di fiducia perché mossi da spirito di fazione; attraverso il continuum governo-maggioranza parlamentare può far approvare leggi ordinarie che limitano o condizionano l’azione della magistratura.

Tra gli effetti deleteri della crisi del Parlamento e della crescita del modello “monopersonale” dell’esecutivo c’è la diffidenza nei confronti del dialogo tra maggioranza e opposizione. Dialogo è diventata una parola malata, che evoca molte più cose rispetto al suo ambito semantico e non richiama più l’oggetto stesso al quale la parola si riferisce. Dialogo, ci insegnano i linguisti, è il colloquio tra due o più persone. Il colloquio non ha come condizione che le persone siano d’accordo sin dall’inizio o che alla fine debbano necessariamente concordare su qualcosa. Ha come condizione però che gli interlocutori siano d’accordo sul parlarsi, riconoscendo la legittimazione dell’altro a comunicare il proprio punto di vista e non escludendo a priori la possibilità dell’intesa sul merito. Chi dialoga concorda necessariamente sul metodo, non necessariamente sui contenuti. Chi accetta il dialogo su un determinato oggetto, infatti, ha deciso di scambiare opinioni e valutazioni attorno ad una materia, esponendo le proprie ragioni e ascoltando quelle dell’altro. Alla fine del colloquio i dialoganti potranno anche non concordare su nulla, ma avranno comunque costruito un pezzo di vivere civile. Insomma il dialogo è un metodo, non è uno scopo. Ma ha uno straordinario effetto di civilizzazione dell’ambito sociale nel quale si svolge: la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro. Quando intercorre tra uomini politici assicura la civilizzazione della vita politica.

La civilizzazione della vita politica esige quindi il dialogo e l’ascolto e, perché non sia finzione, richiede rispetto per le convinzioni dell’altro. Il rispetto è la chiave fondamentale per ogni civile convivenza e deve esplicarsi sia nei confronti delle diverse parti sia nei confronti dei simboli nei quali quelle parti si riconoscono. Fuor di metafora, il dialogo in politica esige il rispetto delle istituzioni e dei ruoli istituzionali. È impossibile una civilizzazione della vita politica senza rispetto delle istituzioni. E se qualcuno, sbagliando, non le rispetta, l’errore non deve costituire alibi per ripeterlo a parti rovesciate. Sembra spicciola pedagogia politica ma è anche, forse, l’unica strada per ricostruire una storia comune.

Ciò che oggi rende spesso incivile la vita politica è proprio la mancanza di una storia comune. La culla del sistema che diede vita alla Costituzione fu la vittoria sul fascismo e sul nazismo. Quella vittoria, quell’essere stati dalla stessa parte in un momento tragico per la storia d’Italia, per di più vincendo una guerra di libertà, ha costituito per circa quarantacinque anni un cemento più forte di ogni possibile divisione politica. Il sistema nel quale viviamo oggi, invece, è nato da due sconfitte. La sconfitta del comunismo ad opera della storia e quella delle tradizionali classi dirigenti per effetto della corruzione politica e amministrativa. Gli eredi del comunismo italiano non hanno ancora elaborato le ragioni di quella sconfitta e, forse, non se ne sono del tutto liberati. Il comunismo italiano da tempo non aveva più alcun rapporto con quello sovietico; ciononostante si autodissolse quando crollò il comunismo sovietico, segno che qualche robusto filo, sia pure solo ideale, era rimasto con quell’esperienza. Molti degli eredi delle vecchie classe dirigenti, che oggi fanno parte del partito di maggioranza relativa, continuano ad addebitare la fine della Prima Repubblica non alla corruzione politica e amministrativa, ma agli abusi della magistratura, e sembrano cercare nella riforma della giustizia una sorta di vendetta postuma. I due maggiori partiti, pertanto, non solo sono privi di una storia comune, ma hanno una lettura conflittuale delle ragioni che sono all’origine della cosiddetta Seconda Repubblica. E tuttavia hanno il dovere di convivere perché hanno il dovere di guidare il paese. Vivere in un permanente conflitto ispirato alla delegittimazione dell’altro, e nell’illusione dell’autosufficienza, non può portare alcun vantaggio. Occorre cambiare i criteri dell’agire politico. E attraverso questo cambio introdurre elementi di pacificazione anche nella società. Il colloquio tra diversi deve servire per superare le ragioni delle sconfitte, per guardare al presente in vista del futuro e per costruire quel patrimonio di vocaboli comuni che consenta a tutti di rispettarsi e di dissentire rispettandosi.2

Affrontare i problemi della giustizia ignorando questa complessa situazione politico-istituzionale significa discorrere nel vuoto. Nessuna riforma definitiva della giustizia come servizio sarà possibile se non verranno risolti i problemi posti dall’inedito assetto che hanno assunto i tre tradizionali poteri dello Stato, Parlamento, governo e magistratura. La maggioranza sembra moderatamente interessata alle riforme che riguardano l’efficienza della giustizia, cerca di rispondere con l’emergenza all’emergenza, dal sovraffollamento delle carceri alla mancanza di pubblici ministeri, ma propone con determinazione immediate riforme, in via ordinaria e costituzionale, che garantiscano un scudo penale per il presidente del Consiglio, oggi l’unico vero potere politico. Le riforme ordinarie sono nella disponibilità della sola maggioranza, che detiene i numeri per approvare da sola quelle leggi. Il discorso sarebbe invece assai diverso per una riforma costituzionale sulla giustizia, separata dalle altre riforme della Costituzione relative al Parlamento e al governo. È prevedibile che, una volta approvata questa misura, se verrà approvata, sarà non impossibile ma certamente difficile procedere sulla strada delle altre riforme costituzionali. Infatti le attuali condizioni del Parlamento garantiscono a chi governa strade in discesa e invidiabili rendite di posizione.

Per l’opposizione il programma dovrebbe essere diverso. La priorità politica, che può non coincidere con la priorità temporale, è il rinvigorimento del Parlamento e la sua ricostruzione come massima assemblea rappresentativa della nazione, scelta dai cittadini e non più dalle oligarchie dei partiti. Una seconda priorità riguarda, con le necessarie correzioni, la riforma che fu approvata dalla Commissione affari costituzionali della Camera nella scorsa legislatura e che l’assemblea di Montecitorio iniziò a votare, prima che intervenisse lo scioglimento anticipato delle Camere.3 In quel testo non si diceva nulla a proposito della giustizia, come, d’altra parte, non si diceva nulla su una più saggia redistribuzione delle competenze tra Stato e Regioni. Lo spirito di quel testo rifuggiva dal “riformismo autoespansivo”, confermando i principi della Repubblica parlamentare e dell’equilibrio tra i poteri dello Stato. Puntava ad affrontare i problemi più urgenti, riservandosi di affrontare in successivi separati disegni le altre questioni. In materia costituzionale bisogna farsi guidare dal criterio del “minimo necessario”. La Costituzione, infatti, contiene i principi essenziali per regolare la vita del paese anche, e soprattutto, oltre le contingenti condizioni politiche. Il riferimento, quindi, è a principi semplici, chiari e destinati a durare nel tempo: di qui il criterio del “minimo necessario”. Ma oggi anche una riforma costituzionale che si limiti allo stretto necessario non può tralasciare di occuparsi dello statuto della magistratura. Va assolutamente preservata l’indipendenza dei magistrati, ordinari, amministrativi e contabili. Ma bisogna ridiscutere la forma del loro governo interno. Le diverse magistrature, che nel 1948, quando fu redatta la Costituzione, erano alla periferia del sistema politico, oggi sono parte integrante della governance del paese. E questa mutata collocazione genera alcune domande. Il loro attuale statuto costituzionale corrisponde alle loro attuali responsabilità? In un sistema democratico può una istituzione che fa parte integrante della governance essere totalmente autogestita? L’anarchia interpretativa negli uffici giudiziari e la corrispondente mancanza di un principio dello stare decisis corrisponde alle esigenze di una società moderna che ha bisogno della massima certezza delle regole? E come si concilia questa esigenza con la necessaria libertà interpretativa del giudice? La riforma dell’assetto della magistratura come potere deve dare risposta soddisfacente a queste domande. Dopo queste risposte potranno prendere l’avvio le riforme, di carattere ordinario, che riguardano la dimensione di servizio della magistratura. A questo proposito, è necessario distinguere gli interventi in due categorie: quelli di pura razionalizzazione e quelli che vanno più nel merito delle scelte. Tra i primi è prioritaria la redistribuzione degli uffici giudiziari sul territorio. Abbiamo 165 tribunali. Un tribunale funzionante dovrebbe avere almeno venti giudici. Ma ben 88 tribunali, più della metà, hanno meno di venti giudici. Ne derivano inefficienze, costi privi di benefici, cattiva utilizzazione dei magistrati e del personale amministrativo. 4 Per una popolazione di circa 60 milioni di abitanti sarebbero sufficienti cento tribunali ben organizzati. Ma si potrebbe cercare un criterio intermedio, meno drastico e legato ad un fattore oggettivo. Si potrebbe stabilire il principio dell’istituzione di un tribunale per ogni città capoluogo di Provincia. Passeremmo da 165 a 110 tribunali, recuperando un cospicuo numero di magistrati e di addetti alle funzioni amministrative. Una riforma di questo genere solleverebbe proteste localistiche che potrebbero venire utilizzate strumentalmente nella contesa politica. Per questa ragione la riduzione del numero dei tribunali potrebbe essere varata solo a condizione che venga votata da tutti i gruppi parlamentari o, per lo meno, da quelli più rappresentativi della maggioranza e della opposizione. È realistico prevedere, invece, che i provvedimenti relativi alla effettiva funzionalità del processo, in particolare del processo penale, potranno essere approvati solo dopo aver definito lo statuto della magistratura come potere dello Stato.


[1] Il dato è tratto da Camera dei deputati, XVI legislatura, “Tendenze e problemi della decretazioned’urgenza”, Relazione presentata al Comitato per la legislazione dal presidente on. Lino Duilio, p. 16.

[2] I temi svolti in questo paragrafo e in quello precedente sono ripresi da L. Violante, Le condizioni per una civile convivenza, in “Federalismi.it”, 25/2009, disponibile su www.federalismi.it.

[3] Poiché il numero di coloro che parlano di questo progetto sembra notevolmente superiore al numero di coloro che l’hanno letto, ci permettiamo di rinviare, per una lettura del testo edella relazione che l’accompagna, a leg.xv.camera.it/_dati/lavori/stampati/pdf/15PDL0033820.pdf

[4] Utili dati in Risoluzione del CSM adottata nella seduta del 13 gennaio 2010, disponibile su www.csm.it