Semplificazione e liberalizzazione dell'attività amministrativa

Di Roberto Garofoli Giovedì 10 Dicembre 2009 19:03 Stampa

Nell’esaminare le politiche di semplificazione proce­dimentale in atto, si intendono porre in risalto i pe­ricoli insiti in un processo riformatore che, sul piano organizzativo, precarizza la dirigenza rendendola meno idonea ad assicurare imparzialità e capacità di comparare gli interessi coinvolti e che, sul piano funzionale, rende facoltativa l’adozione di un prov­vedimento espresso e motivato.

La semplificazione procedimentale e il riformismo amministrativo degli ultimi decenni

Le politiche di semplificazione procedimentale degli ultimi due decenni hanno riconosciuto crescente importanza agli istituti del silenzio-assenso e della dichiarazione di inizio attività (DIA), oltre che, in misura minore, al tema del rispetto da parte della pubblica amministrazione del “tempo” dell’azione amministrativa e delle responsabilità conseguenti alla sua inosservanza (disciplinate di recente dalla legge 69/09).

Giova esaminarle tenendo conto di un contesto di più ampio respiro, quale è quello della riforma complessiva dell’amministrazione.

Non vi è dubbio, invero, che la semplificazione amministrativa – e, in particolare, quella procedimentale – rappresenti un tassello (certo importante) di più ampie e complesse politiche di riforma amministrativa.

Almeno due le ragioni che rendono opportuno un inquadramento sistematico delle politiche di semplificazione procedimentale.

Da un lato, lo snellimento delle procedure amministrative non è, certamente, conseguibile con interventi, tanto più se episodici e parziali, sulla sola disciplina di questo o quel procedimento. Esso richiede, piuttosto, la definizione di un disegno globale, integrato e coerente che, muovendo dalla revisione delle strutture amministrative e dei loro collegamenti organizzativi, passi per una ridefinizione dei compiti e un’ottimizzazione delle capacità di lavoro all’interno degli uffici, giungendo per questa via ad una riduzione dei passaggi e dei tempi necessari per lo svolgimento dell’agire amministrativo.

Su altro e speculare versante, il nesso tra semplificazione procedimentale e disegno complessivo di modernizzazione dell’amministrazione risulta con una certa evidenza se si considera il rischio che la semplificazione del procedimento − e taluni istituti attraverso il cui potenziamento si è inteso realizzarla (silenzio-assenso e DIA) − rechi con sé una de-precabile deresponsabilizzazione dell’amministrazione e dei suoi agenti, e, come conseguenza, un abbattimento della capacità degli apparati pubblici di assolvere adeguatamente ai propri compiti.

Non appare superfluo, allora, il tentativo di valutare le politiche di semplificazione procedimentale considerando, in una prospettiva di sistema, l’evoluzione che ha connotato la disciplina della dirigenza amministrativa e, più in generale, lo stato di inveramento del principio di netta separazione tra politica e amministrazione, baluardo (in parte tradito) del riformismo amministrativo dei primi anni Novanta.

Soprattutto considerando i pericoli insiti in un processo riformatore che, sul piano organizzativo, precarizza la dirigenza pubblica rendendola sempre meno idonea ad assicurare − in quanto defraudata della necessaria indipendenza statutaria − un’imparzialità di azione e una adeguata capacità di comparare e valutare (nel definire la vicenda amministrativa) tutti gli interessi coinvolti e, spesso, opposti; e che, intervenendo sul piano funzionale, persegua l’obiettivo dello snellimento procedimentale incidendo su talune fasi della ponderazione degli interessi in gioco per eliderne certe, in particolare rendendo facoltativa la chiusura dell’iter procedimentale con un provvedimento espresso e motivato che dia conto delle ragioni sottese alla scelta amministrativa.

Gli interrogativi di fondo da cui è opportuno muovere nel condurre la disamina della disciplina riguardante taluni istituti di semplificazione procedimentale sono tre: a) è possibile evitare che la semplificazione del procedimento amministrativo rechi con sé una deprecabile deresponsabilizzazione dell’amministrazione e dei suoi agenti? b) La semplificazione dei procedimenti e la semplificazione delle regole possono conciliarsi? La semplificazione del procedimento amministrativo può, cioè, non essere perseguita dequotando e depotenziando regole procedimentali la cui positivizzazione ha rappresentato una conquista di civiltà procedimentale? c) In che modo può e deve concorrere all’abbattimento del cosiddetto rischio amministrativo una naturale (e, nei fatti, già in atto, per quanto impensabile solo fino ad alcuni anni fa) evoluzione del processo amministrativo, della sua fisionomia, del suo oggetto, delle tecniche di tutela sperimentabili al suo interno?

 

Le tendenze del riformismo amministrativo italiano

A che punto è allora la riforma dell’amministrazione italiana? Quali sono le linee di tendenza e i risultati raggiunti?

Non si tratta di domande cui è agevole rispondere, tanto più che non è affatto certo che si possano enucleare linee di tendenza indiscutibili e condivise.

Al di là del comune denominatore rappresentato dai dichiarati scopi efficientistici, il riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni si è caratterizzato non solo per cambi di intensità nella marcia, con accelerazioni e brusche battute di arresto, ma anche per fragorosi cambi di rotta, con un succedersi frenetico di riforme e controriforme, l’una contrapposta all’altra.

La stessa instabilità degli indirizzi politici, conseguente all’alternanza al governo di maggioranze di segno opposto, non ha mancato di produrre effetti sulle sorti della politica di riforma amministrativa, non sempre atteggiatasi come politica bipartisan.

Volendo provare, malgrado ciò, a tracciare alcune tendenziali direttrici lungo le quali si è mosso, ancorché con oscillazioni e contraddizioni, il riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni è opportuno svolgere, in estrema sintesi, le seguenti osservazioni.

Su un primo versante, va segnalata la tendenza, in verità registratasi anche in ambito europeo, a spostare verso il basso e verso la periferia funzioni e compiti amministrativi. Ne è emerso un rinnovato assetto istituzionale fondato su un modello di tipo reticolare, in contrapposizione alla tradizione amministrativa di stampo ottocentesco connotata dalla valorizzazione di schemi verticistici, gerarchici e piramidali.

Scontato, al riguardo, segnalare l’incerta e contrastata realizzazione della riforma del Titolo V (legge costituzionale 3/01), svoltasi tra le forti resistenze di tipo centralistico (in specie per quel che attiene alla riduzione degli apparati centrali e al trasferimento del personale) e sempre più radicali proposte di modifica costituzionale volte a riconoscere alle Regioni ancor più estese potestà esclusive. Un secondo fondamentale settore di intervento del riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni è stato quello della regolamentazione del lavoro pubblico, con la contrattualizzazione del rapporto di impiego alle dipendenze dell’amministrazione.

Soprattutto, una contrastata e preoccupante evoluzione ha connotato la strategica regolamentazione del rapporto che lega all’amministrazione i dirigenti: evoluzione su cui è opportuno soffermarsi per tracciarne i passaggi decisivi, ma anche per evidenziarne le sicure criticità.

Il tema merita un approfondimento se si considera che la definizione dello status dei dirigenti è, con ogni evidenza, destinata a condizionare i rapporti tra politica e amministrazione, la cui netta separazione aveva rappresentato il manifesto ideologico, se non la vera e propria bussola, del riformismo amministrativo dei primi anni Novanta.1

 

Le riforme della dirigenza

Come è noto, la dirigenza pubblica è stata oggetto di profonde riforme a partire dalla generale privatizzazione dell’impiego pubblico attuata con il d.lgs. 29/93 che, in attuazione di quanto stabilito dalla legge delega 421/92, l’aveva suddivisa in due “fasce”, con limitazione della contrattualizzazione del rapporto d’impiego ai soli dirigenti sotto-ordinati e conservazione, invece, del rapporto di tipo pubblicistico per i dirigenti generali (ossia per quelli dei livelli apicali).

Successivamente, il legislatore ha abbandonato l’originaria opzione tornando, con la legge 59/97 (cosiddetta legge Bassanini) e il conseguente decreto attuativo (d.lgs. 80/98), al regime unitario; è stata difatti estesa anche ai dirigenti generali l’applicabilità della generale disciplina civilistica. Tra le maggiori novità introdotte dal d.lgs. 80/98 meritano di essere attentamente segnalate: la previsione generale del limite temporale massimo di sette anni per tutti gli incarichi dirigenziali e la possibilità di revoca, da parte del governo che entra in carica, dei cosiddetti incarichi di vertice (segretario generale di ministeri, incarichi di direzione di strutture articolate in uffici dirigenziali generali); facoltà esercitabile nei primi novanta giorni dall’insediamento del nuovo governo che ha ottenuto la fiducia dal Parlamento (articolo 13).

Su questo quadro è intervenuta la profonda riforma della dirigenza pubblica recata dalla legge 145/02 (cosiddetta legge Frattini), in cui da più parti si è intravisto il tentativo di attuare una parziale (ma vistosa) inversione di rotta rispetto al percorso fino a quel momento seguito dal legislatore, con sottrazione di ampi settori del rapporto di impiego dei dirigenti al modello contrattuale e conseguente ripubblicizzazione del loro status.

La breccia aperta dal legislatore del 1998 è stata di non poco allargata, da un lato, con la soppressione di qualunque limite alla durata minima degli incarichi dirigenziali e la sostanziale previsione della possibilità di incarichi anche brevissimi; dall’altro, con l’introduzione di una disciplina transitoria – poi dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale –2 per la quale una tantum si rendeva possibile la cessazione automatica di tutti gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale in corso al momento dell’entrata in vigore della legge.

Chiara, dunque, la conseguente accentuazione dell’instabilità nell’esercizio delle funzioni dirigenziali, la cui titolarità riveste carattere provvisorio, rinvenendo peraltro la sua legittimazione primaria nell’atto di investitura con cui sono conferiti ai dirigenti gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale.

Ne è risultato un complessivo quadro regolamentare del rapporto di impiego dirigenziale difficilmente compatibile con il già citato principio di netta separazione e reciproca autonomia tra indirizzo politico e azione amministrativa. Invero, l’accentuazione del carattere fiduciario della nomina dei dirigenti e della loro dipendenza dall’organo di vertice politico, calata nel contesto normativo che comunque continua a contraddistinguere la dirigenza pubblica, ha recato con sé una “precarizzazione” di quest’ultima.3

Il complesso delle innovazioni così sommariamente descritto rende evidente il rischio di un’accentuazione della dipendenza e della fidelizzazione del dirigente al vertice politico.

In una prospettiva di più ampio respiro, si delinea il rischio che siano posti in dubbio principi cardine dell’organizzazione amministrativa (non privi, peraltro, di copertura costituzionale), quali quelli, per usare un’espressione di origine britannica, di merit system (che presuppone e impone l’accesso agli uffici pubblici in posizione di eguaglianza e sulla base del merito accertato in forma competitiva) e di tenure (ossia di permanenza nel ruolo dei dirigenti).

 

Semplificazione amministrativa e competitività del paese

Illustrato sinteticamente il quadro generale delle riforme dell’amministrazione, è possibile focalizzare l’attenzione sulle politiche di semplificazione amministrativa.

Non si tratta di un processo solo italiano. L’esigenza di affrontare le complicazioni amministrative è da tempo avvertita in tutti i paesi occidentali, nei quali è peraltro viva la consapevolezza della difficoltà del percorso di semplificazione. Consapevolezza espressa in modo efficace con l’ossimoro simplifier est une tache assez compliquée. Ritornando all’interno dei confini nazionali, negli anni Novanta, nell’ambito del rinnovato interesse per la riforma dell’amministrazione pubblica, è cominciata a farsi strada l’idea secondo cui la semplificazione amministrativa è elemento trainante di tale riforma, dal momento che ritardi e inefficienze costituiscono le principali cause di arretratezza della macchina pubblica. Ed è maturata, in una prospettiva di ancor più ampio respiro, la convinzione dell’impatto negativo sulla competitività del “sistema paese” del cosiddetto rischio amministrativo, vale a dire dell’insieme di elementi negativi che rendono l’amministrazione inefficiente, le sue regole non chiare e contraddittorie, i suoi procedimenti lenti e farraginosi: dalle disfunzioni organizzative, alle norme che disciplinano l’attività − talvolta apparentemente destinate a ostacolare o impedire le iniziative economiche − ai ritardi nella cultura della dirigenza pubblica, alla difficoltà di affermare un rigoroso regime di responsabilità per i danni arrecati alle attività dei cittadini dagli atti, dall’inerzia o dai ritardi delle amministrazioni, alla non risolutività delle decisioni della giustizia amministrativa e alla ineffettività quindi del sistema rimediale.4

In questa sede ci si soffermerà sulle tecniche di semplificazione del procedimento amministrativo.

Tralasciando istituti che all’evidenza rispondono ad un’esigenza di semplificazione, quali ad esempio le conferenze di servizi, gli sportelli unici e gli accordi sostitutivi, verrà dato spazio in particolare alla disciplina riguardante la DIA, il silenzio, significativo e non, le illegittimità non invalidanti di cui all’articolo 21-opties della legge 241/90: istituti e meccanismi (la cui disciplina è stata profondamente rivista dal le-gislatore del 2005 e quello del 2009), in relazione ai quali, più che per altri, vengono in rilievo gli angoscianti interrogativi sopra riportati.

 

La dichiarazione di inizio attività (DIA)

Quanto alla DIA e al silenzio assenso, si tratta di tecniche di semplificazione procedimentale (per la prima, una autentica liberalizzazione) ampiamente sperimentate in molti paesi: in Spagna, ad esempio, ove i procedimenti per i quali è previsto il silencio positivo sono sensibilmente aumentati nell’ultimo decennio del secolo scorso, o in Francia, dove hanno registrato un’ampia diffusione gli strumenti dell’accord implicite e del régime déclaratif sostitutivo dell’autorizzazione nei settori più disparati.

Con riguardo alla DIA, giova subito evidenziare che si tratta di un istituto la cui valorizzazione nella prospettiva della “lotta” alle complicazioni amministrative non può essere sopravvalutata.

Invero, il ricorso al modulo procedimentale in esame non è consentito – oltre che, in generale, con riferimento all’attività puramente discrezionale della pubblica amministrazione – in una serie di materie, tassativamente elencate dall’articolo 19, comma 1 della legge 241/90, in cui la delicatezza degli interessi coinvolti impone la necessità di un’adeguata ponderazione da parte dell’ufficio, con conseguente obbligo per lo stesso di concludere il procedimento con un provvedimento motivato ed esplicito.

Alle materie già in precedenza indicate dalla disposizione richiamata, si aggiungono, ora, per effetto delle innovazioni introdotte dalla legge 69/09, l’asilo e la cittadinanza, materie, peraltro, connesse alla pubblica sicurezza e all’immigrazione, già escluse dalla formulazione previgente dell’articolo 19 della legge 241/90.

A ciò si aggiunga la diffidenza con cui, nella prassi, i privati guardano all’istituto della comunicazione di inizio d’attività, non essendo sicuri del “valore” degli atti non regolari così ottenuti.

Diffidenza aggravata dall’espressa previsione di un generalizzato potere di “autotutela” della pubblica amministrazione sulla DIA, anche dopo la scadenza del termine per il controllo. In estrema sintesi, i ristretti margini di operatività dell’istituto e la rimarcata tendenza dei privati a diffidare dello stesso, uniti al rischio di una sua strisciante trasformazione in un autentico meccanismo di silenzio-assenso, inducono ad interrogarsi in merito alla effettiva utilità di tale istituto quale strumento su cui seriamente contare nel condurre un’ambiziosa politica di recupero di efficienza procedimentale.

 

Il silenzio-assenso

Il silenzio-assenso costituisce un tipico rimedio previsto dal legislatore per prevenire lo stesso prodursi delle conseguenze negative collegate all’inerzia amministrativa.

La più significativa innovazione, introdotta nel 2005 nel quadro della riforma della legge 241/90, ha riguardato proprio l’ambito di applicazione del silenzio-assenso che, da strumento particolare, utilizzabile solo nei casi individuati dalle norme, è diventato istituto ad applicazione generale.

Essendo, questa, la disciplina attuale del silenzio-assenso, qualche riflessione si impone dunque in merito alla possibilità di scorgere in tale istituto uno strumento da valorizzare nel perseguire una politica di semplificazione procedimentale.

Emerge, al riguardo, il primo dei tre interrogativi enunciati in apertura: è possibile evitare che la semplificazione del procedimento amministrativo passi inevitabilmente per una deprecabile deresponsabilizzazione dell’amministrazione e dei suoi agenti?

Può escludersi che il silenzio-assenso sia un meccanismo cui ricorrere solo per “eludere” i problemi strutturali di un’amministrazione non sempre in grado di svolgere in modo adeguato ed efficiente, nell’ambito del procedimento, le funzioni che le sono assegnate?

E, soprattutto, non sarebbe più fisiologico imporre e assicurare (con responsabilizzazioni e conseguenti sanzioni per i ritardi, oltre che con adeguati poteri sostitutivi) il rilascio di provvedimenti espressi in un tempo ragionevolmente prestabilito, incidendo sulle cause strutturali dei ritardi oltre che dotando il cittadino di strumenti rimediali adeguati da sperimentare per ovviare alle inerzie?

 

Il tempo dell’azione amministrativa

Un riferimento è d’obbligo, a questo punto, alla nuova disciplina del silenzio-rifiuto/inadempimento, in specie volto ad esprimere l’apprezzamento per la scelta del legislatore del 2005 di snellire l’iter di formazione dello stesso con l’eliminazione della necessità della previa diffida e, per quel che più conta, con la prevista trasformazione del giudizio amministrativo avverso al silenzio, ormai volto (almeno quando l’inerzia contestata non sia stata serbata in relazione ad istanze il cui soddisfacimento implichi esercizio di discrezionalità) all’accertamento della fondatezza sostanziale della pretesa, anziché della sola violazione ad opera dell’amministrazione della tempistica procedimentale.

Si tratta, quindi, di un intervento apprezzabile laddove irrobustisce le forme rimediali assegnate al privato a fronte dell’inerzia dell’amministrazione. Se accompagnato dalla previsione della risarcibilità dei danni da ritardo, tralasciando la spettanza del bene della vita invano chiesto all’amministrazione, saremmo al cospetto di un sistema normativo capace di sortire un effetto di deterrenza nei confronti delle amministrazioni inerti, chiamate quindi a fare responsabilmente i conti con le cause della inefficienza.

Giova, al riguardo, tener conto delle previsioni contenute nella legge 69/09 in tema di termini dell’azione amministrativa e di conseguenze relative al mancato rispetto degli stessi.

La legge 69/09, introduce, invero, previsioni dichiaratamente intese ad accrescere la tutela degli amministrati a fronte di ritardi e inefficienze dei soggetti pubblici nella definizione dei procedimenti amministrativi.

In tale prospettiva, emergono due significative novità. Da un lato, il riconoscimento esplicito della risarcibilità del cosiddetto danno da ritardo contenuto nel “nuovo” articolo 2-bis della legge 241, a tenore del quale «Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Le controversie relative all’applicazione del presente articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni». In sede di stesura definitiva, sono stati espunti dal testo della disposizione il riferimento alla autonomia del danno dalla spettanza del beneficio nonché quello relativo alla sanzionabilità del ritardo indipendentemente dalla dimostrazione del pregiudizio; ne deriva una situazione di incertezza in merito alle effettive condizioni di ristorabilità del danno da ritardo. Un’occasione persa, pertanto, per un chiarimento da tempo auspicato.

Dall’altro, la legge 69/09, nell’intento di accrescere la tutela degli amministrati, a fronte di ritardi e inefficienze dei soggetti pubblici nella definizione dei procedimenti amministrativi, prevede espressamente che i predetti ritardi possano essere causa di responsabilità dei dirigenti amministrativi.

 

La sanatoria delle illegittimità formali

Un cenno merita, ancora, la disciplina dettata dall’articolo 21-octies della legge 241/90, recante una previsione che, forse più delle altre, è destinata ad avere un impatto decisivo sul sistema di tutela approntato dal giudice amministrativo. Egli, infatti, non è più tenuto ad arrestarsi alla valutazione della illegittimità formale o procedimentale dell’atto impugnato. Su questo, quindi, non può abbattersi la scure dell’annullamento giurisdizionale nel caso in cui il giudice si avveda della sua giustezza sostanziale come esito del doveroso esame prognostico circa i risultati che il procedimento avrebbe raggiunto allorché l’errore formale o procedimentale, seppure acclarato, non fosse stato commesso.

Volgendo lo sguardo alle possibili implicazioni di tipo sostanziale e procedimentale (anziché squisitamente processuale) della disposizione citata, non è mancato chi, nella stessa, ha ravvisato una misura di semplificazione, destinata ad aprire la via alla riduzione della rilevanza degli adempimenti procedimentali.

Se così fosse, si tratterebbe di una scelta non del tutto in linea con quelle fatte contestualmente dallo stesso legislatore del 2005: da un lato, infatti, quel legislatore ha mostrato la tendenza a rafforzare le garanzie procedimentali – si pensi alla norma sulla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglienza dell’istanza: articolo 10-bis, cui segue una eventuale fase partecipativa – dall’altro, ha puntato a deprezzarle.

In estrema sintesi, l’articolo 21-octies, comma 2 della legge 241/90, pure simile alla previsione contenuta nell’ordinamento tedesco, appare pericoloso soprattutto laddove, non correttamente inteso, rischia di depotenziare la funzione partecipativa del cittadino al procedimento amministrativo. Sembra piuttosto contraddittorio, invero, oltre che con - figgente con il principio di democraticità dell’azione amministrativa, pensare che la semplificazione dei procedimenti possa passare per l’introduzione di una estesa dimidiazione delle regole formali e procedimentali e per un ridimensionamento del rilievo che l’inosservanza delle stesse può sortire in termini di patologia del provvedimento finale adottato dall’amministrazione o, quanto meno, di responsabilità della stessa.

 

Riforma dell’amministrazione ed evoluzione del processo amministrativo

Per concludere, giova verificare se all’abbattimento del cosiddetto rischio amministrativo non possa concorrere una naturale evoluzione del processo amministrativo, di fatto già profondamente trasformatosi negli ultimi anni.

È in atto, in verità, una tendenza a considerare l’atto amministrativo non più l’oggetto esclusivo della cognizione del giudice amministrativo, chiamato in misura sempre maggiore a portare il suo vaglio sul rapporto così da assicurare una tutela piena (e non di facciata) all’interesse del privato.

Ferme le conquiste ormai realizzate, occorre interrogarsi sull’opportunità (o necessità) di un’ulteriore evoluzione, fino al punto da aprire il processo amministrativo al principio di atipicità delle forme di tutela.

Aperture in tal senso si sono registrate nella più recente giurisprudenza impegnata ad esaminare la questione relativa all’ammissibilità, nel processo amministrativo, di un’azione di accertamento autonomo, sul modello tedesco.

È probabilmente opportuna una scelta di campo del legislatore, coerente non solo con la rappresentata evoluzione del sistema di giustizia amministrativa − nella direzione della pienezza della protezione accordata alle posizioni soggettive − ma anche con il segnalato obiettivo di rendere davvero “risolutive” le pronunce del giudice amministrativo.

Un’opportunità è, al riguardo, offerta dalla delega per il riassetto della giustizia amministrativa contenuta nell’articolo 44 della legge 69/09.

Due, principalmente, le direttrici di fondo lungo le quali dovrà muoversi il legislatore delegato. Da un lato, sarà necessario incidere sui fattori che ostano ad una definizione tempestiva del processo amministrativo, ponendo mano ai criteri di riparto della giurisdizione e assicurando piena attuazione al principio di concentrazione processuale, nonché ridefinendo la disciplina dei termini processuali e della tutela cautelare. Dall’altro, per l’appunto, sarà necessario assicurare pieno ingresso al principio della pluralità (se non della atipicità) delle azioni proponibili: annullamento, accertamento e risarcimento.

Sullo sfondo, però, un obiettivo ulteriore: quello di rendere il sistema di giustizia amministrativa idoneo ad assicurare, con le sue decisioni, un miglioramento delle performance dell’amministrazione, orientandola, oltre che stigmatizzandone, con lo strumento risarcitorio, illiceità e ritardi.

È possibile e doverosa, cioè, una sinergia tra riforma dell’amministrazione, volta ad un recupero di efficienza e credibilità, ed evoluzione del processo amministrativo, diretta a garantire che le decisioni dei giudici abbiano un’efficacia per quanto possibile “risolutiva” della vicenda amministrativa, anziché costituire parentesi di un procedimento amministrativo destinato – in spregio ad ogni istanza semplificatrice – a ripartire ex novo.5


[1] Tra i primi fautori della scissione netta tra funzione di indirizzo politico e funzione di esecuzione amministrativa si vedano S. Spaventa, La politica della Destra. Scritti e discorsi, Laterza, Bari 1910, p. 25; M. Minghetti, I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, Bologna 1881, p. 102; W. Wilson, The study of administration, in “Political Science Quarterly”, 2/1887, pp. 209 e sgg.; G. Peters, La pubblica amministrazione. Un’analisi comparata, Il Mulino, Bologna 1991, p. 18; M. Weber, Parlamento e Governo e altri scritti politici, Einaudi, Torino 1982, pp. 64 e sgg.; quest’ultimo considera la burocrazia come un apparato operante sine ira et studio, cioè che si limita a eseguire in maniera del tutto neutrale, senza passione e interesse, quanto viene deciso in sede politica.

[2] Si veda il provvedimento 103/07 della Corte costituzionale e, su questo tema, M. Clarich, Una rivincita della dirigenza pubblica nei confronti dello strapotere della politica a garanzia dell’imparzialità della pubblica amministrazione, 2007, disponibile su www.neldiritto.it.

[3] S. Cassese, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 2/2003, pp. 231 e sgg.

[4] S. Amorosino, La semplificazione amministrativa e le recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amministrativo-TAR”, 2005, pp. 2635 e sgg.

[5] Il presente scritto costituisce un estratto di un più ampio saggio tratto da Giuliano Amato e Roberto Garofoli, I tre assi. L’amministrazione tra democratizzazione, efficientismo, responsabilità, Nel Diritto Editore, Roma 2009.