Le superpotenze e il 1989 nell'Europa dell'Est

Di Norman M. Naimark Giovedì 10 Dicembre 2009 18:59 Stampa

Per molte ragioni, a vent’anni dagli eventi che nel 1989 mutarono definitivamente il volto dell’Europa, è possibile affermare che le due superpotenze di al­lora, USA e URSS, abbiano reagito a quegli eventi piuttosto che averli governati e che, quindi, i princi­pali protagonisti delle rivoluzioni del 1989 furono in primo luogo gli europei dell’Est.

 

 

In uno scambio di telegrammi in data 24 agosto 1989, l’ambasciatore americano a Varsavia, John Davis, e il vicesegretario di Stato Lawrence Eagleburger commentavano lo straordinario “gran finale” del sistema comunista in Polonia.

Così scriveva Davis: «Ho l’onore di riferire che il signor Tadeusz Mazowiecki, esponente di primo piano di Solidarno s´c´, è stato oggi confermato con un voto del Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, nella carica di primo ministro della Polonia e incaricato di formare un nuovo governo. Io ritengo che questo sviluppo degli eventi rappresenti un sostanziale adempimento dei compiti assegnatimi nella attuale lettera di istruzioni e resto in attesa di ulteriori istruzioni. Davis». Eagleburger rispondeva: «1. Il Dipartimento nota con soddisfazione il sostanziale adempimento dei compiti politici a lei assegnati nella lettera di istruzioni. 2. Il suo compito successivo consiste nel promuovere e assicurare la realizzazione di una prosperità economica in Polonia, che comprenda una crescita stabile, la piena occupazione, una bassa inflazione, una elevata produttività e una Mercedes (o una vettura equivalente) in ogni garage.

3. Con i migliori auguri di continui successi. Eagleburger».1 Chiaramente c’è qualcosa di anomalo in questi messaggi. Mentre alcuni funzionari di Washington più tardi si sono attribuiti il merito della caduta del comunismo – ad esempio George H. W. Bush, James Baker, Brent Scowcroft, Condoleezza Rice, Robert Gates e Robert Hutchings – la corrispondenza tra Davis ed Eagleburger va letta in senso ironico. La «Mercedes (o una vettura equivalente) in ogni garage» è una frase rivelatrice in questo senso.

Ma allora qual è il vero significato dei due telegrammi? In una comunicazione privata, il sottosegretario di Stato dell’epoca e ambasciatore in Polonia nel 1990, Thomas W. Simons Jr., ha scritto che questo genere di battute era normale nella corrispondenza diplomatica «quando le cose vanno bene e le persone si conoscono personalmente, come in questo caso». E aggiungeva: «Quei toni scherzosi non sono segno di frivolezza, anzi, i diplomatici vivono in situazioni tanto serie che ogni tanto hanno bisogno di un break e in questo caso si trattava di un evento felice».2

Si può aggiungere che quel genere di battute rispecchiava l’enorme sollievo da parte dell’ambasciatore e dei suoi superiori a Washington riguardo a quanto trapelava da Varsavia. La fine del comunismo polacco non era stata programmata, prevista né organizzata da loro. Anzi, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate del 1989 erano molto preoccupati pensando a come sarebbero potute andare le cose in Polonia. Restarono a lungo in allerta, pensando che Solidarno s´c´ e le forze sociali da esso rappresentate avrebbero potuto accelerare troppo le cose e che, ironicamente, date le proteste americane contro la “Marshal Law”, Wojciech Jaruzelski non sarebbe riuscito a mantenersi al potere. Non avevano previsto la completa vittoria di Solidarno s´ c´ né l’auspicavano, a causa della potenziale minaccia che avrebbe costituito per la stabilità della regione. Il governo americano e quello sovietico, mettendo un freno a Solidarno s´c´ e sostenendo le fortune di Jaruzelski, si trovavano in perfetta sintonia. Agli americani, in quel momento, il successo di agosto sembrava perfino troppo bello per essere vero. Anche se le difficoltà economiche della Polonia erano tutt’altro che superate, come indicavano le nuove “istruzioni” di Eagleburger, era arrivato il momento per scaricare un po’ la tensione.

Il tema di fondo di questo contributo riguarda il fatto che le superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, erano in una posizione di forte svantaggio nel 1989 – mancava infatti un’analisi accurata dell’evoluzione dei fatti e quindi della loro potenziale influenza sui fatti stessi – rispetto alla letteratura specialistica e soprattutto rispetto a come le testimonianze e i ricordi indurrebbero a credere. Tanto Mosca quanto Washington erano ancorate all’ordine creatosi dopo il conflitto mondiale con la guerra fredda, che aveva assicurato loro il primato nelle vicende internazionali. I rapidi cambiamenti nell’Europa dell’Est del 1989 mettevano in discussione l’immagine che le due superpotenze avevano di se stesse e delle proprie reciproche relazioni. Il corollario di questo ragionamento è che i principali protagonisti delle rivoluzioni del 1989 furono gli europei dell’Est, sia per il crollo delle leadership comuniste sia per le iniziative della società civile (e le masse di manifestanti), mentre le superpotenze tendevano a reagire agli eventi più che a governarli.3

Si usa qui il termine “superpotenze” sia in senso ironico sia a fini euristici: ironia perché l’ipotetica libertà d’azione e la capacità di esercitare il potere a proprio piacimento che sono insite nel concetto di superpotenza erano quasi del tutto assenti da parte americana come da quella sovietica; euristica perché quella stessa condizione di impotenza davanti alla forza degli eventi è istruttiva e aiuta a capire che cosa significasse davvero essere una superpotenza negli ultimi anni della guerra fredda. È senz’altro vero che fino alla conclusione effettiva della guerra fredda l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di distruggersi a vicenda e di distruggere gran parte del mondo, per non parlare dell’Europa, nel caso di uno scontro militare su larga scala. Nello stesso tempo, però, le superpotenze furono rese impotenti dalla crisi est-europea del 1989, in parte incapaci di intervenire e in parte poco disposte a farlo in vicende indipendenti dalla loro volontà.

Nel portare avanti questa argomentazione è importante sottolineare che ci sono abbondanti prove a sostegno di un quadro di tutt’altro genere di quell’anno, un quadro che attribuisce maggiore lungimiranza, più profonda comprensione e più conoscenze sia al Cremlino sia alla Casa Bianca. Robert Hutchings, Condoleezza Rice e Philip Zelikow, ad esempio, sono autori di saggi sulla politica americana ben documentati e convincenti, che ne sottolineano l’accurata elaborazione e una meditata applicazione.4 Nel corso di una recente conferenza sulle rivoluzioni del 1989, Zelikow ha fatto una apologia vivace e ben documentata del presidente Bush, della sua Amministrazione e delle sue scelte lungimiranti riguardo alle vicende dell’Europa dell’Est e della Germania.5 In due ottimi studi sulle politiche di Gorbaciov, Jacques Levesque e Mark Kramer mettono in luce una storia di coinvolgimento profondo e crescente dell’Unione Sovietica nell’Europa dell’Est, che ha avuto una grande influenza e notevoli conseguenze sugli eventi del 1989.6 Malgrado queste interpretazioni convincenti dei fatti, la documentazione offre molti elementi che portano a conclusioni diverse; il presente contributo ha lo scopo di analizzare alcune di queste prove. Vent’anni dai fatti del 1989 sono un periodo sufficiente per poter ritornare a quell’annus mirabilis e riconsiderare gli eventi di quei mesi attraverso la prospettiva dei documenti e dei ricordi che si sono resi in seguito accessibili. Paradossalmente, le fonti per studiare le superpotenze e il 1989 nell’Europa dell’Est sono molto più complete e dettagliate di quelle disponibili per analizzare questioni analoghe rispetto al 1949 o, per quello che conta, al 1939, certamente sul versante sovietico ed est-europeo. La spiegazione sta in parte nel fatto che l’Unione Sovietica scompariva come Stato, il Partito comunista finiva sotto processo e i suoi archivi passavano in mano al nuovo Stato russo, che li rendeva disponibili agli studiosi per le loro ricerche e pubblicazioni. Inoltre, i principali analisti sovietici del 1989 – i vari Cherniaev, Shakhnazarov, Falin, Yakovlev e molti altri – hanno cominciato a scrivere e a parlare delle propria esperienza pochissimo tempo dopo e, in alcuni casi, continuano a farlo ancor oggi, offrendo notevoli elementi di comprensione del ruolo e delle motivazioni di Gorbaciov in quel periodo. Le ricerche sul 1989 si incentrano in gran parte su Gorbaciov e sul suo entourage, ritenuti cruciali per l’evoluzione delle scelte politiche sovietiche in quell’anno e per la loro messa in pratica. Vari progetti, come quelli promossi dal Woodrow Wilson Center, dalla Gorbachev Foundation, dai National Security Archives, dalla Hoover Institution, hanno raccolto interviste, trascrizioni di dibattiti, documenti sparsi e frammenti di ricordi messi a disposizione della ricerca.

Uno degli Stati al centro del dramma della caduta del comunismo nell’Europa dell’Est, la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), è definitivamente scomparso. Per questo, mentre i nuovi Stati polacco, ceco, ungherese o bulgaro continuano a proteggere gli archivi del periodo precedente, non ne esiste più uno della Germania orientale che faccia altrettanto. I suoi archivi, come quelli del Partito socialista unificato di Germania (SED), dei servizi di sicurezza dello Stato (Staatssichereitsdienst, la Stasi) si possono immaginare come “quarti di manzo” appesi in una macelleria, esposti alla vista ed esaminabili a piacimento. Certo, nella DDR molto è andato distrutto in quegli ultimi mesi, tra le manifestazioni di ottobre e l’elezione di un governo non comunista nel marzo 1990. A quanto pare, perfino Vladimir Putin, allora agente del KGB nella DDR, si era messo al lavoro a Dresda per bruciare documenti, con tanto impegno che il suo forno si ruppe.7 Anche sull’altro piatto della bilancia delle superpotenze, quello americano, il materiale documentario è in quantità debordante. Il National Security Archive di Washington ha declassificato molti documenti attinenti applicando il Freedom of Information Act. Di alcuni sono stati citati lunghi passi, altri sono stati pubblicati da vari esponenti dell’Amministrazione Bush che in seguito hanno scritto le proprie memorie o studi analitici, o hanno partecipato a dibattiti e conversazioni sulla fine del comunismo. Le memorie stesse sono ampie e dettagliate, e riportano una serie di fatti in modo adeguato per chiunque voglia rivendicare un certo credito storico. Anche la letteratura secondaria ha una notevole importanza, anche perché la singolare rilevanza della caduta del comunismo per il sistema internazionale ne rende fondamentale l’analisi per la comprensione del passato e del futuro delle politiche mondiali.8

Il problema principale per qualsiasi storico che voglia affrontare il tema delle rivoluzioni del 1989 non riguarda tanto le fonti, quanto la narrazione. Come è possibile ricostruire quei fatti, sistemarli in ordine cronologico e in un contesto appropriato, senza far svanire le sorprese, le casualità, le paure che animavano l’Europa dell’Est in quei giorni? La ricostruzione dei fatti post hoc tende a renderli troppo logici e troppo comprensibili. Ma qui non si tratta di fornire ulteriori resoconti storici del 1989. Se si leggono i documenti dell’epoca, anche quelli redatti dai più attenti osservatori, come John Matlock, ambasciatore americano a Mosca, si rischia di avere una comprensione ambigua della percezione di quei giorni. 9 Se si registra la consapevolezza di un profondo sconvolgimento nella primavera e nell’estate 1989, dalla gran parte delle analisi coeve sembra però trapelare la convinzione che la crisi sarebbe passata o, più spesso, che ci sarebbero voluti anni per superarla, quando in realtà il comunismo sarebbe crollato tra la sorpresa generale prima della fine dell’anno. Questo vale sia per il versante americano sia per quello sovietico.

 

Gli americani

Dato il loro ruolo di superpotenze, si sarebbe indotti a pensare che l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti fossero quantomeno a conoscenza di ciò che stava accadendo nell’Europa dell’Est, attraverso i propri vetusti servizi di intelligence. Risulta invece che non fosse così, o che non lo fosse almeno in modo coerente. La CIA, ad esempio, continuava per abitudine a sopravvalutare la potenza economica della DDR.10 Da parte sovietica, ci furono sorpresa e incredulità al Cremlino quando prima Egon Krenz e poi Hans Modrow riferirono a Mosca la realtà di una situazione disperata dell’economia tedesco-orientale.11 Se nel settembre 1989 ci fu, in verità, un rapporto discordante della CIA che prevedeva un imminente rischio per la stabilità dell’Unione Sovietica, il documento dell’intelligence prevalentemente accolto nello stesso periodo – quello del National Intelligence Estimate dell’ottobre 1989 – prevedeva in maniera ben più ottimista che Gorbaciov sarebbe sopravvissuto all’imminente crisi economica del 1990-91 e invitava l’Amministrazione Bush ad accoglierlo con la massima cordialità a Malta nel dicembre 1989.12 Anche l’ex segretario di Stato George Shultz ha parlato con disprezzo dell’incapacità della CIA di condurre un’analisi affidabile dei punti di forza e di debolezza dell’Unione Sovietica negli ultimi anni della presidenza Reagan, e ha affermato: «Io credo che il lavoro dell’intelligence riguardo all’Unione Sovietica sia stato molto scadente. Ha sbagliato il giudizio sulle dimensioni e sulla forza dell’economia sovietica».13

Ma nemmeno gli accademici hanno motivo di vantarsi; molte previsioni e molti suggerimenti erano in ritardo rispetto agli eventi, al pari di quelli degli analisti del governo.14 Certo, se non si era riusciti a capire quale fosse la posta in gioco nell’Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est, la colpa non era interamente imputabile alle pecche dell’intelligence. Da entrambi i lati i politici ascoltavano e capivano quello che volevano capire dai rispettivi servizi.15 Uno degli analisti di Mosca con maggiore esperienza, Valentin Falin, ha dichiarato di avere avvertito più volte Gorbaciov del fatto che i paesi del Patto di Varsavia, DDR compresa, erano ai limiti del collasso. Eppure Gorbaciov continuò ad agire come al solito. «Non c’è stata nessuna reazione, proprio nessuna».16

L’incapacità dei leader americani di cogliere la portata della crisi e l’immediatezza degli effetti, mentre si pretendeva il ruolo di guida di una superpotenza è riconfermata dal libro di Robert Gates, “From the Shadows”. In qualità di analista ufficiale dell’intelligence e di ex membro dello staff di Bush alla Casa Bianca come consulente alla Sicurezza nazionale nel 1989-91, Gates scrive, del tutto appropriatamente, che il governo americano, come la CIA, non aveva «la minima idea», all’inizio del 1989, del fatto «che l’onda della marea montante della storia era sul punto di infrangersi addosso a noi». «Non conosco nessuno, dentro o fuori del governo, che nei primi mesi del 1989 (all’inizio del mandato Bush) prevedesse che prima delle successive elezioni presidenziali l’Europa dell’Est sarebbe stata libera, la Germania unificata, nella NATO, e l’Unione Sovietica un reperto storico ».17 Si potrebbe aggiungere che nessuno ci era andato nemmeno vicino. Eppure Gates racconta come Condoleezza Rice, Robert Blackwill e Robert Zoelleck – tutti membri del Consiglio per la sicurezza nazionale di Bush – fornirono «la fantasia intellettuale e politica necessaria per orientare la politica del governo nei confronti dell’Europa dell’Est e dell’Unione Sovietica». La quale, sommata alla «esperienza e all’istinto di Bush, alla saggezza politica e all’abilità diplomatica di Baker, alla visione storica e strategica di Scowcroft, e alla mia [di Gates] gestione del processo tra i vari organismi, avrebbe permesso agli Stati Uniti di svolgere con passo sicuro un ruolo di guida nella liberazione dell’Europa dell’Est, nell’unificazione della Germania e nel crollo definitivo dell’Unione Sovietica».18 Poi, l’immagine di una guida dal passo sicuro si dissolve nuovamente, quando scrive più avanti: «Dal 1989 al 1991 affrontammo i marosi della storia, ma senza salvagente».19

A causa di questa ambivalenza e dell’intrinseco conservatorismo, di stile e di metodo, dell’Amministrazione Bush, il presidente, Baker, Scowcroft e altri avevano assunto un atteggiamento teso a tenersi fuori, una sorta di attendismo, in vista degli eventi dell’Europa dell’Est. Un atteggiamento che rispecchiava perfettamente la politica di Reagan alla Casa Bianca, la quale non mostrava, come ha scritto Robert Blackwill, «nessuna volontà (...) di mettere in discussione in modo sostanziale lo status quo nell’Europa dell’Est».20 Nel maggio 1988, in occasione di un incontro tra il segretario di Stato George Shultz e il ministro degli Esteri sovietico Eduard Shevardnadze nel corso del vertice Reagan-Gorbaciov a Mosca, Shultz aveva affermato che tutto quello che c’era da dire sulle questioni regionali si riassumeva così: «Golfo Persico, America Centrale, Etiopia, Cambogia e Sud Africa».21

Ancor più che con Reagan, il team di Bush alla Casa Bianca accentuava la parola d’ordine centrale della “stabilità” per quanto non lo sottolineasse pubblicamente, perché, come aveva spiegato Baker a Shevardnadze nel corso di un colloquio privato, «essere per la stabilità ci fa sembrare un po’ troppo a favore dello status quo».22 Nello stesso tempo l’Amministrazione Bush abbandonava le spettacolari iniziative per il controllo degli armamenti e gli approcci bilaterali portati avanti da Reagan e Shultz, i presunti genuini anticomunisti. Shultz aveva il timore, per buone ragioni, che «l’impulso reale» alle relazioni USA-URSS che il presidente Reagan ed egli stesso avevano consegnato nelle mani dell’Amministrazione Bush rischiasse di andare sprecato.23 Come osserva Robert Hutchings, già membro del Consiglio di sicurezza nazionale con Bush, non esisteva «qualcosa che si potesse definire una politica estera “Reagan- Bush”. Prima del 1989 c’era Reagan; poi c’è stato Bush». Hutchings aggiunge che alla Casa Bianca era stata portata una squadra completamente nuova, che «esprimeva posizioni in politica estera in sostanziale divergenza rispetto a quelle dell’Amministrazione Reagan».24 In realtà la nuova Casa Bianca avviò una lunga serie di revisioni della politica, la «pausa » che avviliva Gorbaciov, gli alleati europei, i progressisti dell’Europa dell’Est. Tali revisioni non producevano altro che «ciarpame», come scriveva Baker, e instillavano il dubbio che riflettessero soltanto una mancanza di orientamento sul modo di procedere.25

Nei primi mesi del 1989 l’ansia alla Casa Bianca aumentò, a causa delle critiche sempre più decise sulla stampa americana riguardo alla propria passività e mancanza d’impegno. Nello stesso periodo contribuivano a far apparire inerte la Casa Bianca anche i contrasti all’interno dell’Amministrazione – con alcuni, come il consulente alla sicurezza nazionale Brent Scowcroft o il segretario alla Difesa Richard Cheney, che esortavano alla cautela riguardo alle motivazioni di Gorbaciov, mentre altri, come il segretario di Stato James Baker, si mostravano un po’ più disposti a sondare il terreno. «C’è chi vuole dichiarare la fine della guerra fredda» affermava Cheney al momento della sua nomina – «Ma io credo che sia indispensabile la cautela (...). Dobbiamo stare attenti a non mettere in gioco la sicurezza nazionale scommettendo sul quella che potrebbe essere una temporanea anomalia nel comportamento del nostro principale avversario».26

Alla fine non è del tutto chiaro se la Casa Bianca abbia preso certe iniziative durante i grandi eventi del 1989 perché avesse ben chiari gli obiettivi politici da perseguire oppure perché temesse che, dimostrandosi inerte, la propria posizione di superpotenza venisse sminuita. C’era soprattutto la preoccupazione che Gorbaciov prendesse l’iniziativa in Europa e dimostrasse di guadagnare una sorprendente popolarità a spese del presidente Bush e degli Stati Uniti.27 Nella logica di gioco a somma zero nelle relazioni tra superpotenze, la crescente popolarità di Gorbaciov in Europa significava che il presidente non doveva far altro che attivarsi di più e impegnarsi sul continente. Quando il segretario di Stato Baker si recò in visita a Mosca, alla metà di maggio 1989, i sovietici interpretarono il fatto come un segno che l’Amministrazione Bush fosse disposta a riprendere gli sforzi di Reagan per andare «oltre il contenimento ».28 Ma anche in quel frangente il messaggio era stridente, secondo Gorbaciov. Gli americani manifestavano il timore che un’Unione Sovietica più forte fosse più propensa a esprimere forza militare «il che avrebbe provocato preoccupazione negli Stati Uniti».29

Alcuni storici del 1989 più giovani – fra i quali Gregory F. Domber e Mary Elise Sarotte – avanzano l’ipotesi che il problema dell’Amministrazione Bush fosse lo scarso interesse per i polacchi e i tedeschi dell’Est e che essa si concentrasse invece soprattutto sul proprio attaccamento alla NATO e alla conservazione dello status quo.30 Senza prendere per vera la rinuncia di Gorbaciov all’uso della forza nell’Europa dell’Est e senza comprendere a fondo la necessità per Gorbaciov di un sostegno economico e politico dell’Occidente, la Casa Bianca paventava in modo fin troppo eccessivo un nuovo 1956, con uno scenario che avrebbe visto polacchi o ungheresi prendere qualsiasi incoraggiamento degli Stati Uniti come un segnale della rivolta contro gli oppressori comunisti, per poi attendersi la protezione americana in caso di un’invasione sovietica. E ancora di più si temeva una riproposizione del 1981 in Polonia, in cui i partiti comunisti avrebbero schiacciato l’opposizione interna ricorrendo all’esercito, e agli americani non sarebbe rimasta altra opzione al di là della protesta. Per questo, alle prime libere elezioni nel blocco socialista, fissate in Polonia per il 4 giugno 1989, l’ambasciata americana temeva all’eccesso una vittoria schiacciante di Solidarno s´c´. «Un successo più limitato, per quanto consistente, di Solidar - no s´c´, avrebbe rafforzato le prospettive di un processo stabile di democratizzazione. Una vittoria totale o quasi, compresa una possibile emarginazione della lista nazionale, avrebbe creato il pericolo di una violenta reazione di difesa da parte del regime. Si sarebbero esposti a rischio gli esponenti di punta del partito favorevoli alle riforme. Non si potevano escludere reazioni ancor più decise e perfino il ricorso all’esercito». Quantomeno, l’ambasciata avvertiva che «la forza storica di una corrente ampia e potente sta cambiando per sempre la topografia della Polonia».31

La visita del presidente Bush in Polonia del luglio 1989, tanto sbandierata e così piena di aspettative, non offrì una grande impressione della determinazione americana a sostegno della democratizzazione e della legalità. Anzi, il presidente non fece nemmeno implicite promesse di un ampio aiuto economico degli USA in cambio delle concrete misure di riforma avviate. I polacchi speravano molto in un’iniziativa degli Stati Uniti nello stile di un grandioso piano Marshall; tanto il leader di Solidarno s´c´ Lech Walesa quanto il capo del partito e primo ministro Mieczyslaw Rakowski indicavano una cifra di 10 miliardi di dollari, essenziale per tenere in vita l’economia del paese. Ma Bush fu solo capace di impegnarsi davanti al Sejm polacco per l’esigua cifra di 15 milioni di dollari per iniziative a tutela dell’ambiente, con la promessa di chiedere al congresso altri 100 milioni per altri scopi.32 Ci sarebbe stato qualche sgravio dei debiti e il sostegno per ottenere un prestito dal Fondo monetario. Per aggiungere la beffa al danno, il capo dello staff presidenziale, John Sunumu, ex governatore del New Hampshire, toccò un nervo sensibile parlando dei rischi di un’offerta troppo generosa di crediti, con la quale i polacchi si sarebbero comportati come «un ragazzino in un negozio di dolciumi».33

Il presidente Bush a Varsavia passò più tempo del previsto con il generale Jaruzelski, cercando di convincerlo a candidarsi alla presidenza, al fine di assicurare la stabilità del paese. In effetti Jaruzelski dichiarò in seguito di avere deciso di candidarsi in buona misura perché avvertiva di avere il sostegno degli americani.34 L’ambasciata americana aveva il forte timore che «se Jaruzelski non è eletto presidente, c’è il rischio concreto di una guerra civile che si concluderebbe, in gran parte dei casi, con un intervento sovietico, riluttante ma brutale».35 Come Gorbaciov, Bush non aveva interesse a «ficcare un bastone nel termitaio» dell’Europa dell’Est.36 Così si esprimeva Bush: «Abbiamo seguito la situazione da vicino ma in silenzio, possiamo fare di più parlando di meno».37 Non sorprende che l’accoglienza che gli riservò il popolo polacco fosse meno trionfale di quanto egli stesso e l’ambasciatore Davis avessero sperato.38 La sua improvvida dichiarazione, secondo la quale i sovietici potevano pensare di ritirare le proprie truppe dalla Polonia, aveva provocato un tale nervosismo da parte di Gorbaciov che il presidente americano (e il suo ambasciatore a Mosca) tentarono immediatamente di rassicurarlo, sostenendo che Bush non aveva inteso dire quella cosa sul serio.39 La visita di Bush a Budapest ebbe un carattere simile, anche se l’accoglienza fu molto più calorosa che in Polonia. Una volta di più manifestò la propria netta preferenza per i comunisti riformati al potere piuttosto che per i dissidenti che avevano lottato per il cambiamento. Nel corso di un ricevimento nella residenza dell’ambasciatore Mike Palmer, Bush espresse preoccupazione quando Imre Pozsgay gli disse che i comunisti avrebbero sicuramente perso il potere in libere elezioni. Palmer, che aveva coltivato buone relazioni con i dissidenti e i comunisti riformatori, era deluso, a quanto dichiarò, per «l’eccessiva cautela» del presidente e del segretario di Stato. «Bush e Baker predicavano prudenza a quelle persone (...) nel mio salotto (...) dicendo di non andare troppo in fretta e di non spingersi troppo avanti». Bush spiegò ai dissidenti che il governo comunista «si stava muovendo nella direzione giusta. Il vostro paese procede un passo alla volta. È di sicuro prudente». Quando gli venne presentato Janos Kis, esemplare esponente dell’intellighenzia e della dissidenza mitteleuropea, che godeva di una grande considerazione in tutta Europa, Bush disse poi al suo entourage: «Non sono proprio i tipi giusti per dirigere questo posto. Almeno non ancora. Non sono ancora pronti ». Preferiva decisamente la gestione dei comunisti al governo.40

La reazione di Bush alla caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, lasciò un’analoga impressione di disinteresse e scarsa comprensione. Nelle proprie memorie Bush e Scowcroft affermano, forse con troppa enfasi, che il riserbo dell’Amministrazione riguardo al Muro, alla Polonia, all’Europa dell’Est nel suo complesso, era una questione di “prudenza”, la loro parola preferita. 41 Bush aveva promesso a Gorbaciov che non si sarebbe messo a “ballare sul muro” e in effetti non lo fece. James Baker osserva che il presidente non voleva dare l’impressione che «gli stessimo ficcando le dita negli occhi».42 Nello stesso tempo, non è proprio chiaro se avesse compreso le notevoli implicazioni della caduta del Muro per la Germania e per l’Europa. E, forse ancor più importante è il fatto che nei suoi commenti non risultava esserci nessun riconoscimento del ruolo dei cittadini della Germania orientale in uno dei principali momenti della caduta del comunismo. Alla metà di ottobre, mentre le manifestazioni a Lipsia attiravano l’attenzione del mondo, l’Amministrazione Bush continuava a parlare di “normalizzazione” e di “riconciliazione”, ma non di “unificazione” o “riunificazione”, termini giudicati troppo incendiari.43 «Che c’era di male in una Germania divisa – osservava Brent Scowcroft – purché la situazione restasse stabile? ».44 Quella che l’Amministrazione Bush definiva prudenza, per i suoi critici era mancanza di immaginazione. Helmut Kohl comprendeva perfettamente i rischi e le prospettive della situazione nella Germania orientale. Quando, all’inizio dell’estate, i suoi cittadini cominciarono a riversarsi in massa dal paese verso Occidente, attraverso l’Ungheria, affollando le ambasciate tedesco-occidentali di Praga e di Varsavia per ottenere il visto d’ingresso nella Repubblica Federale, Kohl intuì rapidamente che le politiche per lungo tempo attuate a supporto del regime della DDR in cambio di concessioni sui diritti umani e sulle visite si erano dimostrate fallimentari. Il regime tedesco-orientale non era disposto a impegnarsi in autentiche riforme e la Repubblica Federale non poteva permettersi di sostenere una situazione nella quale un numero enorme di cittadini della DDR che minacciavano di andarsene sarebbe finito nel proprio territorio. Con le manifestazioni di Lipsia dell’inizio autunno e l’abbattimento del Muro in novembre, Kohl prese a muoversi decisamente verso l’unificazione.

Il cancelliere tedesco non ha difficoltà a riconoscere l’amicizia per George H. W. Bush e il sostegno che quest’ultimo gli diede durante la crisi. Nelle sue memorie, ripete che Bush lo sostenne e appoggiò le sue scelte politiche, soprattutto alla luce della fiera opposizione ai cambiamenti in Germania da parte del premier britannico Margaret Thatcher, della reticenza sfuggente del presidente francese François Mitterrand e dei tentativi in extremis di Gorbaciov, soprattutto nell’inverno 1989, di mettere un freno ai piani di Kohl.45 Scrive a proposito Melvyn Leffler: «La loro amicizia (di Kohl e di Bush) si consolidò mentre si adoperavano per trasformare il panorama dell’Europa».46 È peraltro vero, come rileva Timothy Garton Ash, che i tedeschi avevano bisogno degli americani, con Bush in testa, quali «garanti della posizione militare e della sicurezza di una Germania unita, che avrebbero fatto accettare a Gorbaciov l’adesione alla NATO».47 La leadership sulla questione tedesca in quella fase è indubbia: fu Kohl a gestire l’unificazione della Germania.

Sulla questione di chi dirigeva e chi era diretto dopo la caduta del Muro di Berlino, ci sono passi rivelatori nelle memorie di Bush e Scowcroft, nei quali si lamenta il fatto che Kohl non volle rivedere i suoi famosi “Dieci punti” del 28 novembre 1989 insieme alla Casa Bianca, prima di presentarli al Bundestag48 (Kohl non li diede nemmeno al suo alleato nella coalizione di governo, il ministro degli Esteri Dietrich Genscher). Nelle proprie memorie Kohl sostiene di avere in realtà avvertito il presidente di quanto aveva in mente: «Informai Bush della mia intenzione di riassumere le idee del governo della Germania Ovest sulla questione tedesca in una sorta di elenco (Katalog). Il presidente americano mi assicurò una volta di più che gli Stati Uniti avrebbero sostenuto la rivendicazione dell’autodeterminazione e dell’unità del popolo tedesco».49 Kohl sostiene anche di non avere reso noti i Dieci punti agli alleati (e ai partner della coalizione) perché inevitabilmente il documento avrebbe perso la sua incisività con eventuali apporti esterni. Gli alleati l’avrebbero ricevuto dai rispettivi ambasciatori a Bonn nella mattinata in cui veniva presentato al Bundestag, con un’unica eccezione: «Il presidente americano, al quale avevo già in precedenza comunicato l’iniziativa, avrebbe ricevuto personalmente i Dieci punti».50 Ma i tedeschi trasmisero i Dieci punti intenzionalmente nell’originale in tedesco. Dato il tempo necessario per tradurre il testo, ha osservato Horst Teltschik in un recente colloquio, un eventuale intervento sarebbe arrivato troppo tardi.51

 

I sovietici

Il riserbo di Bush nei confronti dell’Europa dell’Est, della DDR e dei cambiamenti in atto si rispecchiava nell’atteggiamento di Gorbaciov, anche se quest’ultimo era chiaramente più in agitazione e più loquace riguardo ai fatti importanti che richiamavano l’attenzione di tutto il mondo. La situazione di Gorbaciov e quella dell’Unione Sovietica erano esposte a rischi a causa di quei cambiamenti più di quanto non fossero quella di Bush e degli Stati Uniti, anche se non è certo che egli ne fosse consapevole. Fin quasi dal principio l’atteggiamento di Gorbaciov nei riguardi dell’impero sovietico nell’Europa dell’Est fu complesso e “insolente”. Spesso si ha l’impressione, leggendo delle conversazioni interne sulle vicende dell’area est-europea, che egli non volesse nemmeno sentirne parlare. Per prima cosa, il “nuovo pensiero” in politica estera riguardava soprattutto il controllo degli armamenti, le relazioni con gli Stati Uniti e, sempre di più con l’andar del tempo, le relazioni con l’Europa, intesa come Europa occidentale. Le sue idee riguardo a una “casa comune europea” avevano soprattutto lo scopo di incantare gli europei occidentali. Nei suoi colloqui con gli americani e gli europei, gli europei dell’Est non venivano quasi nominati.52 Gorbaciov voleva che i comunisti dell’Europa dell’Est seguissero il suo orientamento, si impegnassero per attuare una propria forma di perestrojka e si conquistassero la fedeltà dei propri cittadini. I partiti comunisti e i popoli dei paesi fratelli avevano il diritto e il dovere di stabilire il proprio “corso politico” e il proprio “modello di sviluppo”. 53 Certe volte faceva appelli più gentili ai suoi “amici” est-europei, perché abbandonassero i vecchi metodi. Gorbaciov temeva che la presenza di militari sovietici in certe zone dell’Europa dell’Est provocasse, in un modo o in un altro, attacchi antisovietici che l’avrebbero costretto a intervenire. 54 Ma in nessun caso i comunisti est-europei avrebbero dovuto aspettarsi che l’Unione Sovieti - ca intervenisse a loro nome contro le proprie popolazioni: il loro compito era di fare ordine a casa propria impegnandosi in vaste riforme. Alla fine, secondo le parole dello stesso Gorbaciov, si sarebbe prodotta «una sintesi di democrazia e socialismo ».55 Ma non era così ottimista riguardo alla disponibilità a seguirlo dei capi dei partiti est-europei: «All’inizio non presero sul serio le nostre intenzioni ma le trattarono con cortese curiosità e perfino con condiscendente ironia». Una volta compreso che faceva sul serio, scrive Gorbaciov, «cominciarono a rifiutarsi chiaramente di accettare la perestrojka, soprattutto quando si arrivò a parlare di democratizzazione e di glasnost».56

Gorbaciov apprezzava che Jaruzelski avesse preso con decisione la leadership delle riforme in Polonia, ma era molto meno soddisfatto dei capi de- gli altri partiti est-europei.57 Al plenum del Politburo del 29 gennaio 1987, aveva affermato: «Notiamo la presa di distanza da noi di Honecker, Kadar e Zhivkov. Con Honecker abbiamo divergenze di vedute (...). Egli mette la nostra autogestione sullo stesso piano di quella degli jugoslavi (...). Non è contento di come ci siamo regolati con Sakharov (al quale era stato tolto l’ostracismo nel dicembre 1986). Dobbiamo aderire strettamente al principio in base al quale ogni partito comunista al potere deve essere responsabile di come vanno le cose nel proprio paese. Kadar e Honecker non credono che il processo (della perestrojka) sia irreversibile. Husak non risparmia i complimenti, ma si oppone a qualsiasi novità all’interno. Zhivkov parla di “campagnismo” (kampaneishchine). Il vostro Krusciov con le sue riforme ha scatenato il 1956 ungherese. E adesso, a quanto pare, Gorbaciov sta destabilizzando la comunità socialista».58

In occasione della sua visita a Praga nell’aprile 1987, Gorbaciov si emozionò vedendo l’entusiastica accoglienza della folla, che guardava a lui come al proprio salvatore. «L’atmosfera mi ricordava il maggio 1945 – raccontò ai compagni del Politburo il 16 aprile –, mi gridavano: “Resta con noi almeno per un anno”». Ma aveva anche notato amaramente come i cechi non manifestassero nessun entusiasmo per il proprio leader comunista, Gustav Husak. Alla fine della visita, disse a Husak: «Non attueremo la nostra politica della perestrojka a tue spese, ma non puoi contare di sopravvivere a nostre spese».59 A dicembre, Husak fu destituito.

Malgrado quella mancanza di entusiasmo dei leader est-europei, Gorbaciov si rifiutò coerentemente di intervenire nei loro affari interni. Era esplicitamente sprezzante nei confronti del leader rumeno, Nicolae Ceausescu, ma scelse il silenzio quando i comunisti dissidenti rumeni gli chiesero aiuto per esautorare il dittatore. «Non reagiremo (a tale richiesta)» disse all’ambasciatore sovietico che gli comunicava l’appello. «Non mettiamo il naso nelle loro faccende».60 Smentendo i timori del governo americano, Gorbaciov guardava con favore ai cambiamenti rivoluzionari che avvenivano in Polonia nell’estate 1989. L’ambasciatore Jack Matlock non sbagliò nel giudicare l’atteggiamento di Mosca verso gli eventi polacchi. Avrebbero voluto che il Partito comunista conservasse un ruolo importante nella politica polacca, scriveva Matlok, «ma in ultima analisi, anche se Solidarno s´ c´ può essere una pillola amara da mandare giù, abbiamo ragione di ritenere che i sovietici la inghiottiranno, se si arriva a tanto, sia pure tra smorfie e lamenti. Il loro interesse essenziale in Polonia sarà soddisfatto da qualsiasi regime, guidato o no da Solidarno s´c´, in grado di promuovere la stabilità interna ed evitare rivolte antisovietiche».61 Mark Kramer ritiene che i sovietici abbiano fatto anche di più: «Invece di cercar di conservare il ruolo di guida del PZPR (il partito polacco) nella società polacca, l’Unione Sovietica favorì attivamente il crollo del potere comunista nel paese».62

Durante la sua decisiva visita a Berlino Est del 6 e 7 ottobre 1989, per la celebrazione del quarantesimo anniversario della nascita della DDR, una visita che aveva tentato in tutti i modi di evitare, Gorbaciov fu ancora una volta impressionato dalla folla. La gente sfilava davanti a lui e, anche se c’era Honecker al suo fianco, gli gridava: «Gorbaciov, sei la nostra speranza!», «Perestrojka! Gorbaciov! Aiutaci!» e «Gorby, Gorby!».63 Honecker era un caso senza speranza, Gorbaciov ne era convinto, ma non sarebbe intervenuto di persona per esautorarlo. Sapeva che, come Egon Krenz aveva detto a Falin a Berlino, se la SED non avesse scalzato “Erich”, «la faccenda avrebbe provocato ben presto un attacco al Muro».64 Dopo che Gorbaciov aveva fatto capire a Berlino che un cambiamento non sarebbe stato sgradito a Mosca e circa settantamila persone avevano partecipato a grandi manifestazioni a Lipsia, il 9 ottobre, Krenz e i suoi alleati nella direzione della SED destituirono Honecker.65

Gorbaciov esprimeva posizioni speculari rispetto alla superpotenza rivale di Washington, che si concentrava sulle relazioni sovietico-americane e sul controllo degli armamenti e non pareva essere molto al corrente o curarsi di quanto avveniva nei paesi dell’Europa dell’Est, finché restavano nel Patto di Varsavia e la NATO era confinata all’Europa occidentale. Scrive il suo più stretto confidente sulle questioni politiche, Anatolii Cherniaev: «(Gorbaciov) non capiva molto della situazione negli Stati alleati. La nostra politica nei loro confronti (...) era completamente improvvisata. Non avevamo una linea politica».66

I verbali del plenum del Comitato centrale del 1989 e 1990, per non parlare dei diari e del materiale del ministero degli Esteri accessibile per quel periodo, quasi non fanno menzione del’Europa dell’Est e dei fatti che investivano la regione in modo tanto spettacolare. I dirigenti sovietici, Gorbaciov in testa, sembravano piuttosto completamente assorbiti dall’economia, dalle sorti della perestrojka, dalla necessità di tenere sotto controllo l’opposizione interna e, alla fine, dalle sollevazioni nel Caucaso e nelle repubbliche baltiche. Cherniaev osserva che non più del 5 o del 6 per cento delle discussioni verteva sulla politica estera in generale, e quelle poche erano dominate soprattutto dai temi del controllo degli armamenti e della fine della guerra fredda, e non dell’Europa dell’Est.67 Valerii Boldin arriva addirittura a sostenere: «I più importanti cambiamenti nei paesi della ex comunità socialista non furono mai discussi, in nessun genere di assise, grande o piccola che fosse».68 Intanto il ministro degli Esteri e i funzionari che avevano il compito di seguire l’Europa dell’Est e i paesi fratelli erano considerati meno degni di interesse e meno capaci degli esperti americani e dell’Europa occidentale.69 Lo stesso ministro degli Esteri era più interessato alle sorti della perestrojka. «Il ruolo di Shevardnadze, la sua attenzione – ha scritto James Baker, riferendosi a un meeting a Parigi nel novembre 1989 con il ministro degli Esteri sovietico – sono sempre più distratti dalle questioni interne».70

Inizialmente Gorbaciov pensava che i cambiamenti in atto nell’Europa dell’Est non potessero che favorire la causa sovietica, assicurando la stabilità interna e il consenso politico in quei paesi. Era anche convinto che la sicurezza e la stabilità interna sovietica non sarebbero state negativamente influenzate dai cambiamenti nell’Europa dell’Est. Come i suoi consulenti, osservava più volte, nei colloqui interni, che l’Unione Sovietica aveva la responsabilità di avere esportato alla fine degli anni Quaranta nell’Europa dell’Est un sistema stalinista impraticabile. Era ormai arrivato il momento di sostituire quel sistema. Ma nonostante l’Ungheria, la Polonia e la DDR fossero toccate da crisi politiche, Gorbaciov non era disposto né a intervenire con la forza né a orientare il corso degli eventi. Il ricorso alla forza avrebbe fatto affondare la perestrojka incoraggiando i conservatori all’interno e mettendo fine ai buoni rapporti con l’Occidente. Nel suo importante discorso alle Nazioni Unite, nel dicembre 1988, Gorbaciov aveva assicurato al mondo che l’Unione Sovietica non avrebbe interferito nei «cambiamenti radicali e rivoluzionari in atto» e che non ci sarebbero più stati «interventi di forza o minacce di ricorso alla forza, che non devono essere strumenti di politica estera».71

Anche un semplice orientamento implica una responsabilità, e Gorbaciov non era disposto ad assumersela. Con Helmut Kohl si scambiava proverbi popolari appropriati in tedesco e in russo, riguardo alla delicata situazione ungherese; Kohl: «La chiesa deve restare nel paese... (che significa) gli ungheresi devono decidere da soli quello che vogliono»; Gorbaciov: «Abbiamo un proverbio simile: non andare in un altro monastero con il tuo carro».72 Ai primi di ottobre 1989, Cherniaev annotava sul suo diario: «In sintesi, come fenomeno mondiale, il socialismo è soggetto a un totale disfacimento (...). Probabilmente è un fatto inevitabile e anche un bene».73 In questo senso, lo stesso Gorbaciov afferma di essere diventato un socialdemocratico, più che un socialista sovietico di vecchio stampo.74 Alcuni studiosi hanno ipotizzato che Gorbaciov avesse cominciato a vedere il mondo con gli occhi di uno statista e leader politico europeo.75

Da leader di una superpotenza al suo interlocutore, Bush aveva più volte assicurato a Gorbaciov che non avrebbe sfruttato le rivolte in corso nell’Europa dell’Est, una dopo l’altra, e Gorbaciov aveva promesso a Bush di non intervenire militarmente o politicamente, lasciando che la “storia” facesse il suo corso. Entrambi apprezzarono le reciproche dimostrazioni di moderazione. Cionondimeno, da entrambe le parti c’erano personaggi potenti che continuavano a sospettare delle intenzioni della controparte. Per quanto la fine della guerra fredda fosse tante volte proclamata da politici e intellettuali di entrambi i fronti, tutte e due continuavano a operare come se fossero ancora le vecchie superpotenze di un tempo, strette in una competizione mortale. Il KGB e la CIA presentavano rapporti che accusavano la controparte, rispettivamente, del tentativo di sfruttare la situazione allo scopo di minarne la forza. Così si esprimeva un documento del KGB dell’agosto 1989: «Nelle situazioni di rinnovamento rivoluzionario della società sovietica, con la democratizzazione e la glasnost, i servizi speciali dei paesi capitalisti e i centri stranieri antisovietici a questi legati (...) trasformano la propria attività clandestina contro l’URSS portandola a un nuovo livello strategico e tattico (...)» con il fine di «rovesciare con la forza il potere sovietico».76 Come aveva scritto Adam Ulam una quarantina d’anni fa: «Ormai da qualche tempo gli Stati Uniti e la Russia combattono non tanto tra di loro ma contro fantasmi, contro la paura di come possa andare a finire se non si guadagna un vantaggio nei confronti dell’avversario e se non si impedisce un successo dell’altro».77 Questo fatto era vero nel 1989 come lo era stato prima, durante la guerra fredda.

La mossa di Gorbaciov, alla fine del 1989 – secondo l’idea che veniva periodicamente ai sovietici, nei primi anni della storia postbellica delle relazioni tedesco-sovietiche, di barattare l’unificazione tedesca con una neutralizzazione e demilitarizzazione della Germania – spaventava la Casa Bianca e sollecitava il presidente a rafforzare le proprie già strette relazioni con Kohl e con Bonn. Ma Gorbaciov aveva in testa questioni più importanti. Già nel 1986 aveva detto ai propri consiglieri che la Repubblica Federale era essenziale per il successo della perestrojka. Era il principale partner commerciale e potenzialmente la maggiore fonte di capitali, di investimenti e di prestiti in Occidente, e per questo l’Unione Sovietica aveva un disperato bisogno di buone relazioni con Bonn. Nel momento in cui diventava seria la questione dell’unificazione tedesca, nell’inverno 1989-90, appariva sempre più evidente che Gorbaciov era al governo di uno Stato estremamente debole, se non addirittura in bancarotta. Aveva un bisogno disperato di aiuto. Si rivolse ai tedeschi occidentali, nella speranza che una relazione stretta con loro producesse importanti vantaggi politici e, soprattutto, economici. Nel corso dei suoi colloqui con Kohl a Bonn, nel giugno 1989, il cancelliere tedesco fu molto esplicito sui possibili vantaggi economici in caso di concessioni sovietiche sulla questione tedesca. Non erano possibili relazioni più strette «finché tra di noi s’interpone la divisione della Germania. È un ostacolo decisivo alle nostre relazioni».78

Nell’autunno del 1989 ci fu una notevole opposizione nelle file dei consiglieri di Gorbaciov, soprattutto tra i germanisty del ministero degli Esteri e del Comitato centrale, alle concessioni sulla questione tedesca. Anche se qualcuno riteneva che fosse ormai inevitabile l’unificazione della Germania e provava una certa simpatia per i tedeschi che soffrivano per la divisione del loro paese, la maggioranza non voleva accettare di essere sul punto di “perdere la Germania” e, per questo, non poteva prospettare serie alternative a Gorbaciov, anche se quest’ultimo li avesse interpellati.79 Altri, come Falin, non si opponevano all’unificazione tedesca in linea di principio, ma erano preoccupati: «Dovremmo riuscire a “venderla” a un prezzo più alto», dicevano. 80 Gorbaciov era riuscito a limitare il vero processo decisionale a una cerchia tanto ristretta che perfino il Politiburo non sollevò obiezioni alla possibilità di un’unificazione.81 Alla riunione del Politburo del 9 novembre, il giorno della caduta del Muro, non si discusse affatto della situazione in Germania. Invece l’attenzione di Gorbaciov e dei leader sovietici era concentrata sulla rivolta nelle repubbliche baltiche.82 Perfino l’ambasciatore sovietico a Berlino Est, Viacheslav Kochemasov, e la locale centrale dell’intelligence avevano scarsissime informazioni su quanto stava avvenendo intorno al Muro.83

Alla vigilia della caduta del Muro, l’opposizione di Mitterrand e soprattutto della Thatcher all’unificazione era più di disturbo per Kohl che di utilità per Gorbaciov. «Per due volte abbiamo sconfitto i tedeschi, ed eccoli qui di nuovo!», aveva esclamato la “lady di ferro” alla riunione di Strasburgo della Comunità europea, nel dicembre 1989.84 Gorbaciov aveva la spiacevole sensazione che Thatcher e Mitterrand (e anche gli americani) lo sfruttassero per rimandare il processo di unificazione e usarlo come “parafulmine” dell’irritazione di Bonn. Alla riunione del Politburo del 3 novembre aveva dichiarato: «L’Occidente non vuole l’unificazione della Germania, ma vuole sfruttarla per metterci in contrasto con la Repubblica Federale ed evitare un accordo tra URSS e Germania ».85 Nello stesso tempo, come ammise in seguito, in quel momento non aveva idea delle difficoltà che la questione tedesca avrebbe posto alla politica estera sovietica.86

Per questo, all’inizio del 1990, nonostante la forte opposizione all’interno, e di Mitterrand e soprattutto della Thatcher all’estero, Gorbaciov si spinse fino ad avallare l’inevitabilità dell’unificazione tedesca, un fatto che neppure i più inguaribili ottimisti alla Casa Bianca avrebbero potuto prevedere. Baker e Kohl studiarono le condizioni che potevano rendere possibile l’unificazione. Né Shevardnadze né Gorbaciov avevano molte obiezioni da fare. Racconta Oleg Grinevskii, che prese parte alle discussioni a Mosca nel febbraio 1990, insieme a James Baker: «Non avevamo una posizione (...) nessuna linea concreta». Per questo, vista la posizione unitaria della Germania e degli Stati Uniti, Gor - baciov non si oppose alla questione se una nuova Germania unita potesse mantenere i propri legami con la NATO.87

Conclusioni

Mentre la Thatcher e Mitterrand volevano che Gorbaciov bloccasse l’unificazione tedesca, Gorbaciov auspicava che loro (con Kohl) impedissero agli americani di interferire nell’Europa dell’Est, proprio l’ultima cosa che Washington aveva in mente di fare. In realtà Washington voleva solo mantenere Gorbaciov al potere e conservare l’equilibrio in Europa, e i due obiettivi potevano essere ostacolati da qualsiasi rivolgimento in Europa orientale. 88 Intanto gli americani continuavano a temere che Gorbaciov si prendesse un vantaggio nei loro confronti, segnando punti a proprio favore in Europa con iniziative sul controllo degli armamenti e convincendo Kohl a creare un rapporto privilegiato. Tuttavia, per entrambe le superpotenze lo status quo era preferibile a qualsiasi cambiamento perché – in molti sensi – un cambiamento avrebbe messo in discussione la loro stessa posizione.

L’atteggiamento di inerte attesa delle superpotenze nei confronti dell’Europa dell’Est e il loro concomitante attaccamento a una situazione statica in una realtà continentale che stava cambiando più in fretta e più dinamicamente di quanto tutte e due potessero tollerare, offrì agli europei del- l’Est e ai tedeschi l’opportunità di decidere del proprio destino nel 1989. Era sintomatico quello che rispose Shevardnadze agli ungheresi che avevano deciso, nel maggio 1989, di aprire la frontiera con l’Austria, rendendo così possibili le fughe di cittadini della DDR in Occidente: «È una faccenda che riguarda l’Ungheria, la DDR e la RFT».89 Quando Kohl lo interpellò sullo stesso problema, Gorbaciov si limitò a rispondere: «Gli ungheresi sono brava gente».90 I comunisti polacchi poterono giungere a un accordo sulla spartizione del potere con Solidarno s´c´ alla Tavola rotonda della primavera 1989, che fu il primo passo verso il disfacimento del comunismo in Polonia, senza interferenze sovietiche. I manifestanti tedesco-orientali a Lipsia poterono occupare le piazze con la fiducia, se non con la garanzia, che le truppe sovietiche non avrebbero interferito nella lotta per riprendere in mano il proprio destino. Helmut Kohl e il suo vice Horst Teltschik poterono approfittare delle sollevazioni nella Germania orientale e della caduta del Muro per pilotare il processo di unificazione. Né i sovietici né gli americani glielo avrebbero impedito. La paralisi autoindotta delle superpotenze aiutò i tedeschi, a Ovest come a Est, a mettere fine all’ordine postbellico in Germania. Valentin Falin avrebbe potuto parlare a nome del Cremlino come della Casa Bianca, quando affermò: «Non abbiamo noi controllato gli eventi, sono stati gli eventi che hanno controllato noi».91

Certo, Gorbaciov e il suo comportamento sono stati fondamentali per gli esiti del 1989. La sua scelta di far camminare gli “amici” est-europei sulle proprie gambe perché si assumessero la responsabilità dei propri paesi, senza che potessero più contare sul sostegno e nemmeno sulle istruzioni dei sovietici, affrettò i cambiamenti dal 1985 in poi. L’esempio stesso della perestrojka incoraggiò le opposizioni nell’Europa dell’Est a intensificare le rivendicazioni e tolse fiato ai loro avversari comunisti che avevano perso il sostegno di Mosca.92 La reiterata rinuncia alla “dottrina Breznev” – mai esplicitata ma abbastanza chiara per chiunque – da parte di Gorbaciov sottrasse un puntello psicologico, ma anche reale, essenziale per i regimi comunisti dell’Europa dell’Est. Tuttavia il segretario generale sovietico sembrava meno interessato alla questione tedesca di quanto non fosse a quella della Polonia, dove credeva ingenuamente che Jaruzelski sarebbe stato in grado di costruire un’alleanza politica con l’opposizione che avrebbe mantenuto il paese nel Patto di Varsavia come alleato strategico ancora per molto tempo. Ai polacchi, come agli ungheresi, ai bulgari e agli altri interlocutori esteuropei, Gorbaciov ripeteva sovente che l’evoluzione politica nei loro paesi era un affare loro. Dovevano affrontare da soli i propri problemi e le proprie crisi. Una risposta che risultava particolarmente inappropriata per la DDR, dove era presente quasi mezzo milione di soldati sovietici e i loro contingenti stazionavano intorno al paese. Gran parte dell’immagine che i sovietici avevano di se stessi si basava sulla vittoria sulla Germania nazista ed era simboleggiata da questa presenza militare a Est. Ma, come in molti altri casi, Gorbaciov non aveva una vera risposta alla questione tedesca. Non aveva una politica tedesca e quelli che l’avevano, come i germanisty del ministero degli Esteri e Valentin Falin, capo del dipartimento internazionale del Comitato centrale, erano regolarmente messi da parte a causa del loro “conservatorismo”. Per questo, sia pure con qualche contorcimento, Gorbaciov finì per andare a rimorchio di Kohl. E la visione di Kohl si fondava su un’istintiva comprensione della popolazione tedesco-orientale, di quelli che volevano andarsene, che scendevano in piazza o che semplicemente volevano la fine definiva dell’esperimento socialista.

Ritornando allo scambio di dispacci tra Davis ed Eagleburger dal quale è partita l’analisi, le superpotenze ebbero molteplici motivi per congratularsi nel 1989, ma la storia ci dice molto di più su quello che esse non fecero piuttosto che su ciò che fecero. Ci sono anche seri interrogativi su quello che capirono o non capirono di quegli avvenimenti. Ma le superpotenze si incantavano a vicenda e le concezioni dottrinarie sulla propria influenza fecero sì che non interferissero sulle rivoluzioni del 1989, mentre non si può dire lo stesso per le potenze europee con la Rivoluzione francese, le rivoluzioni del 1848 o la rivoluzione bolscevica. Con le superpotenze completamente inerti, tutto finì ragionevolmente bene.

 


[1] National Security Archive (di seguito NSA), E 473, American Embassy Warsaw to Secretary of State, 24 August 1989, E 471, Secretary of State to American Embassy Warsaw, 24 agosto 1989.

[2] E-mail privata di Thomas W. Simons, Jr., 3 settembre 2008. Si ringrazia l’ambasciatore Simons per avere autorizzato la citazione.

[3] Sulle rivoluzioni nell’Europa dell’Est si veda G. Stokes, The Walls Came Tumbling Down: The Collapse of Communism in Eastern Europe, Oxford University Press, New York 1997; T. G. Ash, The Magic Lantern: the Revolution of ’89 witnessed in Warsaw, Budapest, Berlin, and Prague, Vintage, New York 1993 e S. Kotkin, con un contributo di J. T. Gross, Uncivil Society: 1989 and the Implosion of the Communist Establishment, Random House, New York 2009.

[4] P. Zelikow, C. Rice, Germany Unified and Europe Transformed: A Study in Statecraft, Harvard University Press, Cambridge 1995; R. L. Hutchings, American Diplomacy and the End of the Cold War: An Insider’s Account of US Policy in Europe, 1989-1992, Wilson Center, Washington 1997. Hutchings sostiene, ad esempio, che è «un mito » il fatto che «il mondo fu colto di sorpresa nel 1989» (p. 8).

[5] Zelikow, Conferenza dell’Accademia delle Scienze austriaca sul 1989, Discussione plenaria dei testimoni, 2 ottobre 2009.

[6] M. Kramer, The Collapse of East European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 1), in “Journal of Cold War Studies”, 4/2004, pp. 178-256. J. Levesque, The Enigma of 1989. The USSR and the Liberation of Eastern Europe, University of California Press, Berkeley 1997.

[7] M. E. Sarotte, 1989: The Struggle to Create a Post-Cold War Europe, Princeton University Press, Princeton 2009, p. 93.

[8] Tra i migliori studi di recente pubblicazione, cfr. M. P. Leffler, For the Soul of Mankind: The United States, the Soviet Union, and the Cold War, Hill and Wang, New York 2007, e Sarotte, 1989: The Struggle to Create a Post- Cold War Europe, op. cit.

[9] Cfr. J. Matlock, Autopsy of an Empire: The American Ambassador’s Account of the Fall of the Soviet Empire, Random House, New York 1995.

[10] Sarotte, 1989: the Struggle to Create a Post-Cold War Europe, op. cit.

[11] H. Kohl, Erinnerungen 1982-1990, Droemer, Monaco 2005, p. 961. Cfr. C. Maier, Dissolution: The Crisis of Communism and the End of the East German Regime, Princeton University Press, Princeton 1997, pp. 223-24, 235-36.

[12] NSA, Masterpieces of History: Soviet Withdrawal from Eastern Europe, 1989, The Musgrave Book, bozza di lavoro, p. 231. L’autore ringrazia Svetlana Savranskaya dell’Archivio della sicurezza nazionale, che ha inviato il libro in bozze e ha permesso di poterlo citare. Si veda inoltre: NSA, Director of Intelligence, CIA, Moscow’s 1989 Agenda for US-Soviet Relations, febbraio 1989, un documento essenziale, che non fa nessuna menzione dell’Europa dell’Est, almeno nelle parti che non sono state omesse.

[13] Hoover Institution Archives (in seguito HIA), Hoover Institution-Gorbachev Foundation Collection (in seguito HIGFC), Box 3, Shultz, p. 33. Shultz riteneva anche di essere stato «indotto in errore dai servizi d’informazione che gli avevano mentito ed escluso» e che le analisi dell’intelligence «erano state distorte da forti opinioni politiche », cfr. G. P. Shultz, Turmoil and Triumph: My Years as Secretary of State, Charles Scribner’s Sons, New York 1993, p. 864.

[14] In un volume fondamentale curato da A. L. Horelick con l’intento di valutare quanto Gorbaciov avesse inciso sulle vicende politiche mondiali, non c’è quasi una sola parola sull’Europa dell’Est o sulla questione tedesca. U.S.-Soviet Relations: The Next Phase, Cornell University Press, Ithaca 1986.

[15] D. J. MacEachen difende i risultati della CIA in CIA Assessments of the Soviet Union: The Record Versus the Charges: An Intelligence Monograph, Center for the Study of Intelligence, maggio 1996, pp. 99-101. In un altro testo egli osserva quanto fosse difficile presentare analisi “pure” di intelligence al Congresso, soprattutto quando interessi politici avevano la meglio sull’obiettività. Cfr. S. Savranskaya, T. Blanton, V. Zubok, Dialogue: The Musgrove Conference, May 1-3, 1998, p. 74. L’autore ringrazia Svetlana Savranskaya del National Security Archive che ha inviato questa pubblicazione in bozze.

[16] HIA, HIGFC, Box 1, Falin, p. 29.

[17] R. M. Gates, From the Shadows, Simon and Schuster, New York 1996, p. 449.

[18] Ivi, pp. 460-61.

[19] Ivi, p. 483.

[20] R. D. Blackwill, European Influences and Constraints on U.S. Policy toward the Soviet Union, in Horelick (a cura di), U.S.-Soviet Relations: The Next Phase, op. cit., p. 144.

[21] NSA, Dossier del vertice di Mosca del 1988. The White House: Memorandum of Conversation, Second Shultz- Shevardnadze Meeting, May 31, 1988.

[22] J. A. Baker, III, The Politics of Diplomacy: Revolution, War and Peace, 1989-1992, GP Putnam’s Sons, New York 1995, p. 140.

[23] Shultz, Turmoil and Triumph: My Years as Secretary of State, op. cit., p. 1138.

[24] Hutchings, American Diplomacy and the End of the Cold War: An Insider’s Account of US Policy in Europe, 1989-1992, op. cit.

[25] Baker, The Politics of Diplomacy: Revolution, War and Peace, 1989-1992, op. cit., p. 68. Anche Scowcroft espresse la propria “delusione” riguardo al processo di revisione strategica. G. Bush, B. Scowcroft, A World Transformed, Alfred A. Knopf, New York 1998, p. 53.

[26] Cit. in Leffler, For the Soul of Mankind: The United States, The Soviet Union, and the Cold War, op. cit., p. 425.

[27] Bush, Scowcroft, A World Transformed, op. cit., p. 43.

[28]  A. Cherniaev, Sovmestnyi iskhod: Dnevnik dvukh epokh 1872-1991 goda, ROSSPEN, Mosca 2008, p. 818.

[29]  M. Gorbaciov, Memoirs, Doubleday, New York 1996, p. 501.

[30]  G. F. Domber, Rumblings in Eastern Europe: Western Pressure on Poland’s Moves Towards Democratic Transformation, in F. Bozo, M.-P. Rey et al. (a cura di), Europe and the End of the Cold War, Routledge, Londra-New York 2008, pp. 58-61; Sarotte, 1989: The Struggle to Create a Post-Cold War Europe, op. cit.

[31] NSA (E 23), Solidarity, Doc. 2, Amembassy Warsaw to Secstate, June 2, 1989.

[32] Anche Scowcroft ammette che il pacchetto finanziario era «esiguo in modo imbarazzante». Bush, Scowcroft, A World Transformed, op. cit., p. 114.

[33]  G. Dalos, Der Vorhang geht auf. Das Ende der Diktaturen in Osteuropa, C. H. Beck, Monaco 2009, p. 57.

[34] Ivi, p. 56.

[35] NSA (E378), Solidarity, Doc. 4, Amembassy Warsaw to Secstate, June 23, 1989.

[36] NSA, Masterpieces of History: Soviet Withdrawal, Gorbachev to Kohl, June 12, 1989, p. 194.

[37] Bush, Scowcroft, A World Transformed, op. cit., p. 135.

[38] In un dispaccio del 27 giugno 1989 destinato alla Casa Bianca, dal titolo “La Polonia guarda al presidente Bush” l’ambasciatore Davis scriveva: «(La visita del presidente) può anche diventare uno di quegli eventi nei quali la convergenza di tendenze storiche, di interessi nazionali e di individui risoluti può generare un momento che cambia la direzione della storia». NSA (E384), Solidarity, Doc. 5.

[39] Matlock, Autopsy of an Empire: The American Ambassador’s Account of the Fall of the Soviet Empire, op. cit.

[40] V. Sebestyen, Revolution 1989: The Fall of the Soviet Empire, Pantheon Books, New York 1989, pp. 304-05. L’autore ringrazia Timothy Garton Ash per questo e altri utili riferimenti.

[41] Si veda, ad esempio, Bush, Scowcroft, A World Transformed, op. cit., pp. 40, 55. Baker muove critiche all’approccio esplicito all’unificazione dell’ambasciatore americano Vernon Walters, in quanto andava contro gli sforzi della Casa Bianca per una «evoluzione prudente»; cfr. Baker, The Politics of Diplomacy: Revolution, War and Peace, 1989-1992, op. cit., p. 165. Hutchings scrive: «L’assoluta prudenza» con cui il presidente attuava le sue scelte politiche «fa sì che a molti sfugga quanto sia stata ambiziosa la sua visione centrale»; cfr. Hutchings, American Diplomacy and the End of the Cold War: An Insider’s Account of US Policy in Europe, 1989-1992, op. cit., p. 38.

[42] Baker, The Politics of Diplomacy: Revolution, War and Peace, 1989-1992, op. cit., p. 164.

[43] Ivi, pp. 162-63.

[44] Bush, Scowcroft, A World Transformed, op. cit., pp. 188-89.

[45] H. Kohl, Erinnerungen 1982-1990, Droemer, Monaco 2005, pp. 871-72.

[46] Leffler, For the Soul of Mankind, op. cit., p. 439.

[47] T. Garton Ash, In Europe’s Name: Germany and the Divided Continent, Random House, New York 1993, p. 349.

[48] Bush, Scowcroft, A World Transformed, op. cit., pp. 194-95. Almeno nel libro di ricordi, Scowcroft si dimostra più irritato di Bush riguardo alla scelta di Kohl.

[49] Kohl, Erinnerungen 1982-1990, op. cit., p. 989.

[50] Ivi, p. 996.

[51] Horst Teltschik, Conferenza dell’Accademia delle Scienze Austriaca sul 1989, Sessione plenaria dei testimoni, 2 ottobre 2009.

[52] Si veda HIA, HIGFC, Box 2, P. R. Palazchenko, p. 23.

[53] Vadim Medvedev, cit. in S. Savranskaia, In the Name of Europe: Soviet Withdrawal from Eastern Europe, in F. Bozo, M.-P. Rey et al. (a cura di), Europe and the End of the Cold War, op. cit., p. 38.

[54] Kramer, The Collapse of East European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 1), op. cit., pp. 189-92.

[55] Gorbaciov, Mlynar, Conversations with Gorbachev: on Perestroika, The Prague Spring, and the Crossroads of Socialism, Columbia University Press, New York 2002, p. 84.

[56] Gorbaciov, Memoirs, op. cit., p. 483.

[57] Scrive Gorbaciov: «(Jaruzelski) e io avevamo costruito un rapporto molto stretto e, direi, amichevole», Ivi, p. 485.

[58] V Politbiuro TsK KPSS: Po zapisiam Anatoliia Cherniaeva, Vadim Medvedeva, Geogiia Shakhnazarova, 1985- 1991 (Moscow, Gorbachev Foundation, 2006), p. 141.

[59] Ivi, p. 166.

[60] HIA, HIGFC, Medvedev, Box 2, p. 35.

[61] NSA (E437), Solidarity, Doc. 8, Amembassy Moscow to Secstate, August 16, 1989.

[62] Kramer, The Collapse of East European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 1), op. cit., p. 200.

[63] Gorbaciov, Memoirs, op. cit., p. 524.

[64] Cherniaev, Sovmestnyi iskhod: Dnevnik dvukh epokh 1872-1991 goda, op. cit., p. 806.

[65] Si veda A. J. McAdams, Germany Divided: From the Wall to Unification, Princeton University Press, Princeton 1993, p. 197.

[66] HIA, HIGFC, Cherniaev, Box 1, pp. 65-66.

[67] Cherniaev in Savranskaya, Blanton, Zubok, Dialogue: The Musgrove Conference, May 1-3, 1998, op. cit., p. 41. «(...) La politica estera, anche nei momenti più drammatici, anche nel periodo dell’unificazione tedesca, occupava solo il cinque o il sei per cento delle riflessioni di Gorbaciov e del Politburo, del loro tempo e delle loro energie».

[68] V. Boldin, Ten Years that Shook the World: The Gorbachev Era as Witnessed by his Chief of Staff, Basic Books, New York 1994, p. 144.

[69] HIA, HIGFC, A. L. Adamishin, Box 1, p. 26.

[70] Baker, The Politics of Diplomacy, p. 141. «Dal suo modo d’agire era evidente – scrive Baker nelle sue memorie – che Shevardnadze era preso dalle questioni interne». Ivi, p. 150.

[71] “Gorbachev’s Speech to the U.N. December 7, 1988”, CNN Cold War Series: Historical Documents.

[72] NSA, Masterpieces of History: Soviet Withdrawal from Eastern Europe, Gorbachev and Kohl, June 12, 1989, p. 194.

[73] Cherniaev, Sovmestnyi iskhod: Dnevnik dvukh epokh 1872-1991 goda, op. cit., p. 806.

[74] Gorbaciov, Mlynar, Conversations with Gorbachev: on Perestroika, The Prague Spring, and the Crossroads of Socialism, op. cit., p. 79.

[75] J. J. Sheehan, The Transformation of Europe and the End of the Cold War, in J. Engel (a cura di), The Fall of the Berlin Wall: The Revolutionary Legacy of 1989, Oxford University Press, New York 2009.

[76] HIA, fond 89, op. 18, d. 127, l. 1. “O sozdanii v KGB SSSR Upravleniia po zashchite sovetskogo konstitutsionnovo stroia”, 4 agosto 1989.

[77]  A. B. Ulam, The Rivals: America and Russia since World War II, Viking, New York 1971, p. 382.

[78] Kohl, Erinnerungen 1982-1990, op. cit., pp. 888-89.

[79] HIA, HIGFC, Adamishin, Box 1, p. 23. Si veda anche Cherniaev, Box 1, p. 54.

[80] HIA, HIGFC, Falin, Box 1, p. 29.

[81] HIA, HIGFC, G. M. Kornienko, Box 2, p. 34. Vedi anche Cherniaev, Box 1, pp. 60-61.

[82] W. Taubman, S. Savranskaia, If a Wall Fell in Berlin and Moscow Hardly Noticed, Would it Still Make a Noise?, in Engel (a cura di), The Fall of the Berlin Wall: The Revolutionary Legacy of 1989, op. cit., p. 70.

[83]  A. Stent, Russia and Germany Reborn: Unification, the Soviet Collapse, and the New Europe, Princeton University Press, Princeton 1999, p. 107.

[84] Kohl, Erinnerungen 1982-1990, op. cit., p. 1013.

[85] Dalos, Der Vorhang geht auf. Das Ende der Diktaturen in Osteuropa, op. cit., p. 139.

[86] Gorbaciov, Memoirs, op. cit., p. 516.

[87] HIA, HIFGC, O. A. Grinevskii, Box 2, p. 33. Si veda anche Boldin, Ten Years that Shook the World, op. cit., p. 143.

[88] S. R. Dockrill, The End of the Cold War Era: The Transformation of the Global Security Order, Hodder Arnold, Londra 2005, p. 71.

[89] Cit. in A. Brown, Seven Years that Changed the World: Perestroika in Perspective, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 235.

[90] HIA, HIGFC, Adamishin, Box 1, p. 26.

[91] HIA, HIGFC, Falin, Box 1, p. 39.

[92] Kramer, The Collapse of East European Communism and the Repercussions within the Soviet Union (Part 1), op. cit., p. 180.