Alle origini di un G2? I rapporti tra Cina e Stati Uniti nell'era Obama

Di Enrico Fardella Giovedì 10 Dicembre 2009 18:48 Stampa

Il declino relativo della potenza americana non è un fenomeno recente e ad esso si accompagna, come movimento parallelo, la progressiva emersione eco­nomica del gigante cinese. Divisi tra una politica di contenimento e di impegno verso il competitor cine­se, gli Stati Uniti, in particolare dopo l’insediamento di Obama, puntano tuttavia a una partnership spe­ciale con la Cina, un G2 che miri alla realizzazione di una global governance e che trova nel Dialogo stra­tegico sull’economia uno dei pilastri più solidi.

 

 

La crisi economico-finanziaria e le difficoltà militari in Iraq e in Afghanistan rievocano la tesi del declino degli imperi presentata alla fine degli anni Ottanta dallo storico inglese Paul Kennedy. Secondo Kennedy «le grandi potenze in declino relativo reagiscono invariabilmente spendendo di più per la “sicurezza”, privando quindi i settori produttivi di potenziali risorse e complicando i loro problemi di lungo termine».1

Il declino relativo della potenza americana non è un fenomeno recente. Se all’inizio degli anni Cinquanta l’economia americana produceva circa il 27,3% della ricchezza mondiale, cinquant’anni dopo la sua capacità produttiva è scesa al 20%.2 Ciononostante, gli Stati Uniti continuano a investire nella “sicurezza” quanto tutti gli altri paesi del mondo sommati insieme ma al contempo hanno smesso di essere uno dei principali paesi produttori o esportatori di beni, avendo ceduto questa posizione all’Asia Orientale, in particolare alla Cina.3

Le straordinarie performances economiche di Pechino sembrano approfondire il senso del declino americano. Il poderoso sviluppo degli ultimi anni ha eletto, di fatto, la Cina popolare a nuova potenziale antagonista di Washington per la leadership globale. Secondo alcuni studiosi questo cambio al vertice è imminente, e non sarà indolore: l’ascesa di Pechino al ruolo di grande potenza modificherà profondamente lo statu quo e condurrà ad un conflitto con il suo principale garante, gli Stati Uniti d’America.4 Corollario logico di questa visione dei rapporti sino-americani è una decisa politica di containment dell’ascesa cinese come garanzia al mantenimento dello statu quo e della supremazia americana. Un’altra scuola di pensiero, sempre più in voga oggi negli Stati Uniti, ritiene invece che sia possibile pilotare in modo pacifico l’ascesa di Pechino attraverso una politica di engagement che diluisca i conflitti mantenendo un dialogo serrato e costante con Pechino: «Cina e Stati Uniti possono quasi sempre raggiungere in modo più efficace i propri obiettivi strategici tramite una gestione accurata e concordata del proprio “smart power” – composto da strumenti sia diplomatici, che economici, militari, politici e culturali − piuttosto che attraverso azioni unilaterali».5

La versione più avanzata della politica di engagement è quella del G2 – ossia una partnership speciale tra le due economie dominanti del pianeta per una global governance − formula proposta lo scorso anno dal direttore del Peterson Institute for International Affairs, C. Fred Bergsten, e immediatamente avallata da personaggi di primo piano quali Henry Kissinger, Robert Zoellick e Zbigniew Brzezinski: «Ciò di cui abbiamo bisogno − sostiene Brzezisnki − è di un G2 informale. Il rapporto tra Cina e Stati Uniti deve trasformarsi in una partnership completa, analoga a quelle che abbiamo con l’Europa e il Giappone».6 Fu proprio Brzezinski, National Security Advisor del presidente Jimmy Carter tra il 1977 e il 1980, a ideare la prima cooperazione strategica con Pechino che avrebbe accelerato la sconfitta sovietica nella guerra fredda e favorito al contempo la riforma economica avviata in quegli anni da Deng Xiaoping.7Brzezinski, oggi consulente esterno per la politica estera del presidente Obama, sembra aver traghettato queste idee all’interno della nuova Amministrazione.

Il Dialogo strategico sull’economia (Strategic and Economic Dialogue, S&ED), avviato con successo da Stati Uniti e Cina nel 2006 e allora condotto dal segretario al Tesoro Henry M. Paulson e dal vicepremier cinese Wu Yi, è stato infatti allargato dall’Amministrazione Obama a tutte le materie di interesse strategico globale. Il nuovo criterio adottato prevede due percorsi, uno incentrato sui temi strategici e gestito dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton, insieme al consigliere di Stato cinese, Dai Bing - guo, e uno prettamente dedicato alle tematiche economiche, affidato al segretario del dipartimento del Tesoro Timothy Geithner e al vicepremier cinese Wang Qishan.

La logica del dialogo strategico con Pechino condivide con la scuola del “conflitto inevitabile” il presupposto che l’ascesa della Cina sia un fenomeno innegabile; ma a differenza della prima ritiene che essa non abbia, e non avrà per diversi anni, né la forza né l’interesse di sfidare la leadership americana. Se gli Stati Uniti sapranno rispettare gli interessi di Pechino sarà dunque possibile stabilire una relazione amichevole e pacifica tra i due paesi che diventerà l’asse fondante del sistema internazionale dei prossimi anni. Per valutare la fondatezza della scelta strategica dell’Amministrazione Obama è necessario analizzarne i presupposti logici: la superiorità della forza degli Stati Uniti in Asia e la convergenza degli interessi tra Cina e Stati Uniti.

 

La supremazia americana in Asia

La politica asiatica dell’Amministrazione Bush è stata spesso accusata di aver provocato un indebolimento della supremazia americana in Asia. L’invasione dell’Iraq, la linea dura contro la Corea del Nord, l’approccio unilaterale nei confronti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni regionali in Asia, così come nella guerra al terrorismo e nella lotta al cambiamento climatico, sono stati ritenuti fattori controproducenti per il rafforzamento della leadership americana nella regione.8

Alla perdita di influenza americana si contrappone la possente avanzata della Cina popolare. La sua potente influenza economica e la sua efficace strategia diplomatica sembrano presagire un’imminente trasformazione della balance of power a favore di Pechino.9

Alcuni degli studi più recenti, tuttavia, sembrano correggere questa interpretazione “declinista”, che tende a rimarcare la debolezza americana e a sottolineare la potenza cinese, offrendo un’analisi più equilibrata che mira a ridimensionare sia il declino dell’influenza americana che gli effetti negativi dell’ascesa della Cina popolare sulla leadership americana nella regione.10Secondo questa prospettiva l’Amministrazione Obama ha ereditato dall’Amministrazione Bush una posizione decisamente vantaggiosa dal punto di vista dei rapporti bilaterali in Asia: gli Stati Uniti possono oggi vantare rapporti privilegiati sia con la Cina popolare che con il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, l’India e il Pakistan, un evento senza precedenti nella storia della presenza americana in Asia e un vantaggio formidabile per la leadership americana.11

Nonostante la crescita dell’influenza di Pechino nella regione, la maggior parte dei paesi asiatici preferisce ancora affidare la propria sicurezza alla protezione americana. I governi asiatici basano la propria legittimità sulla capacità di garantire sviluppo economico ai paesi che amministrano e ciò richiede un contesto internazionale stabile e sicuro. L’Asia è un continente potenzialmente instabile anche a causa della sfiducia che caratterizza spesso i rapporti bilaterali tra i governi. Gli Stati Uniti sono, agli occhi dei governi asiatici, l’unico garante capace al momento di investire le risorse umane e materiali necessarie per preservare l’ordine, cosa che né la Cina né gli altri paesi della regione sarebbero in grado di assicurare.

Sebbene poi la maggior parte dei governi cerchi di stabilire rapporti positivi con Pechino, ciascuno di essi, al contempo, tende a rafforzare i legami di intelligence e militari con gli Stati Uniti per tutelarsi nel caso di una eventuale degenerazione “aggressiva” della politica estera cinese.12

Il legame tra economie export-oriented − come quelle asiatiche − e il maggior consumatore al mondo – gli Stati Uniti – è stato un fattore strutturale dell’economia internazionale in questi ultimi anni (il deficit di bilancio americano nei confronti dell’Asia è di 350 miliardi di dollari, la metà del totale). Sebbene la recente crisi economica e il relativo declino delle importazioni americane abbiano spinto diversi paesi a puntare sul mercato interno, questo processo sembra ancora molto lento. Nel frattempo si continua a puntare su una ripresa del commercio globale che ristabilisca i precedenti livelli di esportazione con il risultato di riproporre la relativa dipendenza dal mercato americano.

Anche i canali non governativi hanno la loro importanza decisiva per la promozione della leadership americana nella regione. Nel corso della loro storia gli Stati Uniti hanno esercitato una massiccia influenza in Asia per lo più attraverso canali economici, religiosi, educativi ecc. Questa influenza continua ancora oggi, e ha un impatto profondamente positivo sul soft power americano nell’area. A ciò andrebbe aggiunto il ruolo dell’immigrazione asiatica negli USA, fenomeno che da anni lega una parte importante del popolo americano ai rispettivi paesi di origine, costituendo un canale formidabile di promozione dell’immagine del paese.

Gli Stati Uniti sono dunque ancora profondamente integrati in Asia. La loro presenza militare ed economica sembra rispondere alle esigenze dei governi locali e non risulta messa in discussione da nessun paese della regione, neanche dalla Cina, che resta ancora un attore per molti versi “sospetto” agli occhi dei paesi vicini. «L’Amministrazione Obama – ha scritto di recente l’esperto di relazioni sino-americane Robert Sutter – può impegnarsi ad affrontare l’Asia con la consapevolezza che la leadership americana nella regione rimane ampiamente apprezzata dai governi locali e ineguagliata da forze o potenze regionali».13  

Stati Uniti e Cina: convergenza di interessi

Per analizzare l’intrecciarsi degli interessi strategici di Cina e Stati Uniti ci soffermeremo sull’analisi di alcune aree specifiche: quelle rivendicate da Pechino come parti integranti del territorio nazionale (Taiwan) e aree esterne ai confini della Cina popolare ma di importanza strategica sia per Pechino che per Washington – l’Asia nord-orientale (Corea del Nord) e il Medio Oriente (Iran), Asia meridionale (India-Pakistan-Afghanistan) e Africa.

 

Taiwan Dopo la sconfitta nella guerra civile contro i comunisti (1945-49) i membri del partito nazionalista Guomindang si rifugiarono sull’isola di Taiwan e fondarono la Repubblica di Cina sotto la protezione di Washington. Da allora Pechino non riconosce il governo di Taipei e rivendica la “provincia ribelle” come parte integrante del territorio della Repubblica Popolare

Cinese (RPC).

Grazie a un compromesso diplomatico – noto come il principio di “una sola Cina” – entrambe le parti riconoscono che esiste una sola Cina e che Taiwan ne è parte inalienabile, senza tuttavia chiarire a quale Cina si faccia riferimento, se quella popolare di Pechino o quella nazionalista di Taipei. Tra il 2000 e il 2008 il governo del leader del Partito democratico di Taiwan, Chen Shui-Bian, favorevole all’indipendenza di Taiwan e dunque alla violazione del principio di “una sola Cina”, aveva riacceso le tensioni tra Pechino e Taipei. Il ritorno al potere del Guomindang nel 2008 con Ma Ying-jeou, contrario all’indipendenza e favorevole al dialogo costruttivo con Pechino, ha portato un netto miglioramento dei rapporti tra le due sponde dello Stretto. Nel maggio 2009 la RPC ha accettato (per la prima volta dal suo ingresso nelle Nazioni Unite al posto di Taiwan) che Taiwan partecipasse come osservatore – con il nome di “Chinese Taipei” nel rispetto del principio di “una sola Cina” – all’assemblea dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Il presidente della RPC, Hu Jintao, non usa più ormai i toni aggressivi dei suoi predecessori preferendo invece concentrarsi sullo sviluppo degli scambi economici e culturali per rafforzare il clima di fiducia e di cooperazione tra le due parti.

La RPC e già da tempo il più importante partner commerciale per Taiwan, territorio della Repubblica Popolare Cinese (RPC). e Taipei è tra i dieci più importanti partner commerciali di Pechino. Da quest’anno Taipei ha aperto un centinaio di industrie taiwanesi agli investimenti diretti della madrepatria e le due parti hanno da poco raggiunto un accordo sui collegamenti finanziari tra le due sponde. Proprio questo accordo sembra abbia un peso importante poiché consentirà alle banche taiwanesi di partecipare alla crescita della RPC e di attrarre enormi capitali in patria. L’interesse è tale che Taipei, alla vigilia della finalizzazione dell’accordo, ha negato per motivi di “interesse nazionale” il visto di ingresso a Rebiya Kadeer – presidente del World Uighur Congress, accusata da Pechino di essere la promotrice degli scontri etnici esplosi nello Xinjiang nel luglio del 2009 – una mossa che ha portato Philip Browning, l’esperto di Asia del “New York Times”, a dire che «l’indipendenza de facto di Taiwan sembra lentamente dissolversi nella forma “un paese, due sistemi” di Hong Kong».14

Gli Stati Uniti guardano di buon occhio al dialogo tra Pechino e Taipei. Già dai tempi di Nixon e Carter la tutela americana nei confronti di Taiwan era vista come un ostacolo per il miglioramento delle relazioni con Pechino. La normalizzazione con Pechino fu resa possibile proprio quando Brzezinski fece intuire ai cinesi che l’“abbandono” di Taiwan da parte di Washington aveva ormai un peso più politico che diplomatico: l’importanza strategica della partnership con Pechino oscurava il peso diplomatico di Taiwan ma non cancellava agli occhi dell’opinione pubblica americana il fatto che l’isola era stata un alleato fedele nella lotta contro il comunismo. Era dunque necessario preservare l’immagine degli Stati Uniti e non abbandonare del tutto l’isola.

Quando, nel 1979, Washington riconobbe il governo di Pechino e interruppe i rapporti diplomatici con Taipei riuscì – all’interno dell’accordo sulla normalizzazione – a riservarsi la possibilità di continuare a vendere armi “difensive” a Taiwan per garantirne la sicurezza e favorire una soluzione pacifica del problema.15 La vendita di armi a una provincia ribelle era però vista da Pechino come una interferenza di Washington negli affari interni della Cina.

Tuttavia, secondo Shirley A. Kan, specialista di sicurezza asiatica al Congressional Research Service, tra il 2007 e il 2008 gli Stati Uniti avevano di fatto, congelato le vendite di armi a Taiwan, anche se l’Amministrazione Bush si era rifiutata di riconoscerlo pubblicamente. 16

Taiwan, nel frattempo, è diventata una democrazia accrescendo il suo peso politico presso l’opinione pubblica americana che in essa vede ciò che la Repubblica Popolare dovrebbe essere: un paese libero. Alla vigilia delle elezioni presidenziali del novembre 2008, infatti, le vendite di armi a Taiwan sono riprese provocando forti critiche da parte di Pechino e la sospensione dei contatti militari tra Cina e Stati Uniti.17 I contatti sono immediatamente ripresi nel 2009 nell’ambito del Dialogo strategico sull’economia avviato dall’Amministrazione Obama. Sia la Cina che gli Stati Uniti sembrano avere il comune interesse a ridimensionare il problema di Taiwan nei rapporti bilaterali lasciando che essa ritorni gradualmente tra le braccia di Pechino. Questo scenario tuttavia potrebbe avere delle pericolose ripercussioni nell’area. Il controllo di Taiwan coinvolge ad esempio la sicurezza del Giappone la cui metà delle importazioni di energia e cibo passano vicino alle coste dell’isola. Inoltre, se Pechino dovesse risolvere il problema di Taiwan non avrebbe altre ragioni per giustificare i suoi massicci investimenti militari, specialmente quelli navali, rivelandone in tal modo la vera natura, cioè quella di creare una forza bellica all’altezza della sua potenza economica. Ciò però potrebbe alimentare una corsa agli armamenti nella regione e ulteriori tensioni con paesi limitrofi come il Giappone e la Corea del Sud.

Resta poi il problema, non secondario, dell’immagine negativa che Pechino continua ad avere agli occhi dell’opinione pubblica americana. Abbandonare una democrazia come Taiwan nelle braccia di Pechino non gioverebbe di certo all’immagine di un’Amministrazione, specie con il profilo di quella attuale. Questa è forse una delle ragioni che spingono la Casa Bianca a promuovere l’immagine di Pechino presso l’opinione pubblica, come simboleggiavano i colori della bandiera cinese sull’Empire State Building a New York in occasione del 60° anniversario della fondazione della RPC. Un passo importante, e strategico, in questa direzione, potrebbe essere l’impegno americano ad accelerare la normalizzazione tra la Cina e il Vaticano – legato ancora diplomaticamente a Taiwan ma da tempo attivo per risolvere gli ostacoli che lo separano da Pechino – tanto auspicata da gran parte del mondo cattolico. «Il vero tema non è quello della vendita delle armi a Taiwan – scrive Francesco Sisci, esperto di Cina del quotidiano “La Stampa” – ma trovare una composizione politica per la regione che includa il ritorno dell’isola alla madrepatria».

Washington e Pechino ne discutono già, e la visita di Obama nella capitale cinese, in programma per novembre, potrebbe essere un passo importante nella ricerca di una soluzione. La conferma sembra averla data Hu Jintao nel corso della recente visita di Obama a Pechino. Il suo “rumoroso” silenzio sul tema della vendita delle armi a Taiwan – la prima volta per un leader cinese dalla storica visita di Nixon nel 1972 – sembra più chiaro di mille parole.

 

Asia nord-orientale: Corea del Nord La Repubblica Popolare Democratica di Corea, o Corea del Nord, fondata nel 1948, è sopravvissuta alla guerra del 1950-53 grazie all’intervento militare della Cina maoista contro le forze della Corea del Sud, appoggiate dalla coalizione delle Nazioni Unite guidata dagli Stati Uniti. Sin dal 1950 la RPC non ha mai smesso di fornire al regime nordcoreano – guidato da Kim Il Sung prima e, dal 1994, da suo figlio Kim Jong Il – aiuti politici ed economici. Secondo i dati della Banca mondiale, nel corso degli anni Novanta la RPC è stato il principale fornitore di alimenti (80% dell’import) e di energia (90% dell’import) della Corea del Nord.18

Nel 2006 i rapporti tra i due paesi hanno subito una netta inversione di tendenza. Dopo il test missilistico e la detonazione nucleare sotterranea, attuati dal regime di Pyongyang tra luglio e ottobre, Pechino ha deciso di appoggiare la risoluzione n. 1718 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che imponeva sanzioni al regime nord - coreano. Dopo il secondo test nucleare del maggio 2009 Pechino si è detta a favore di misure ancora più severe nei confronti di Pyongyang.

Ciononostante non è corretto ritenere che Pechino possa voltare bruscamente le spalle al suo alleato. Pechino continua a fornire a Pyongyang un massiccio aiuto economico che sminuisce di fatto l’impatto delle sanzioni economiche imposte dall’ONU, accresce la sua influenza sul regime e contemporaneamente contribuisce alla sua stabilizzazione.19

La Corea del Nord è una zona di interposizione che separa il confine cinese dalla Corea del Sud, alleato degli Stati Uniti, dove stazionano circa 30.000 soldati americani. La presenza di un regime amico e stabile a Pyongyang consente a Pechino di alleggerire l’impegno militare sul fronte nordorientale e concentrarsi su altri fronti, come quello di Taiwan.20 Una destabilizzazione in Corea del Nord, inoltre, potrebbe trascinare Pechino in un impegno militare nella penisola e, al contempo, provocare un massiccio esodo di centinaia di migliaia di profughi nordcoreani oltre confine, scenari che Pechino preferirebbe di certo non dover affrontare.21

Lo scopo di Pechino è quello di mantenere lo statu quo nella penisola e di garantire una risoluzione pacifica della questione. I cinesi sembrano disposti a fare il possibile per mantenere stabile l’attuale regime nordcoreano e procedono con il loro piano di aiuti economici che sembrano indirizzati a favorire una progressiva liberalizzazione economica del regime e una lenta e graduale riforma politica.22 Come si è visto in occasione delle ultime provocazioni di Pyongyang, il leverage di Pechino sembra sempre più limitato alla componente economica e non a quella militare. Se il regime nordcoreano dovesse mettere a repentaglio lo statu quo della regione con altre bizzarre azioni unilaterali, e se Pechino fosse certa che una Corea riunificata sotto Seul potesse garantire meglio i suoi interessi, allora il suo appoggio nei confronti di Pyongyang potrebbe venire meno. Secondo un rapporto del United States Institute of Peace (USIP) Pechino avrebbe già preparato un piano di intervento militare in Corea del Nord in caso di improvvisa instabilità.23

Washington mostra spesso di disapprovare i metodi di Pechino nei confronti di Pyongyang. Gli Stati Uniti hanno cercato fino a oggi, attraverso la minaccia di sanzioni economiche, di spingere il regime nordcoreano a interrompere il suo programma nucleare fornendo in cambio appoggi economici e diplomatici. Pechino ritiene le sanzioni uno strumento diplomatico inadeguato, che rischia di isolare il regime e di spingerlo ad azioni destabilizzanti.

Cina e Stati Uniti condividono gli stessi interessi nella regione: mantenere la stabilità significa non solo contenere il programma nucleare nordcoreano ma anche impedire a Corea del Sud e Giappone di avviarne uno proprio. 24 Un regime nordcoreano dotato di armi nucleari potrebbe provocare una escalation nucleare nella regione con ripercussioni sul controllo del programma nucleare iraniano, un altro dei punti cruciali di cui da tempo discutono Stati Uniti e Cina.

 

Medio Oriente: Iran La possente crescita dell’economia cinese ha aumentato esponenzialmente negli ultimi anni i consumi energetici della RPC. Il carbone continua a essere la risorsa base per lo sviluppo cinese (2/3 del consumo totale di energia), e la Cina ne è insieme il maggior produttore e consumatore al mondo. Ma consuma anche molto petrolio. Se fino al 1993 Pechino era ancora un esportatore di petrolio oggi deve importare oltre il 40% del suo fabbisogno. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (AIE) entro il 2030 Pechino sarà costretta a importare fino all’80% del petrolio necessario a sostenere la sua economia. La metà di quest’enorme mole di carburante dovrebbe giungere dal Golfo Persico.25

In questa luce vanno letti i rapporti tra Pechino e il regime iraniano. Il commercio tra Cina e Iran è solo lo 0,6% del totale del commercio cinese ma nonostante ciò l’Iran costituisce un’eccellente opportunità per la Cina. Dall’inizio del 2009 il commercio tra i due paesi è cresciuto del 35%, e sono già centinaia le compagnie di stato cinese impegnate sul territorio iraniano. Nel 2008 la China National Petroleum Corp. ha firmato un contratto di 1,76 miliardi di dollari con la National Iranian Oil. Co. per lo sfruttamento del promettente giacimento di Azadegan mentre in agosto il governo cinese ha concluso l’accordo per lo sviluppo delle raffinerie di Abadan e del Golfo Persico.26

Grazie alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti sul commercio con Teheran non vi è una forte presenza di attori di peso internazionale sul territorio del paese. Molte delle riserve petrolifere iraniane sono ancora inutilizzate o poco sfruttate e molti dei bacini sono ancora inesplorati a causa della mancanza di tecnologie adeguate e di capitali. La Cina può aiutare l’Iran a modernizzare il suo settore energetico e anche la sua economia fornendo tecnologia, capitali, tecnologia nucleare e know-how. In una prospettiva di lungo periodo, l’Iran potrà investire nelle strutture “a valle” (downstream) e costruire raffinerie in Cina, mentre i cinesi potranno investire sulle infrastrutture “a monte” (upstream), sull’esplorazione e sullo sviluppo dei giacimenti di petrolio e anche di gas, di cui l’Iran è molto ricco.27 Oltre al fattore energetico altri due elementi risultano interessanti ai fini di questa analisi: le forniture cinesi di armi a Teheran e il supporto di Pechino allo sviluppo del programma nucleare iraniano.

Le relazioni tra Pechino e Teheran, riprese nel 1970, hanno iniziato a svilupparsi nel corso della guerra Iran - Iraq (1980-88) proprio grazie alle forniture militari cinesi al regime iraniano. Nel corso degli anni Novanta Pechino, ormai diventata il principale fornitore di armi del paese, ha continuato a trasferire a Teheran knowhow e materiali per la costruzione di missili e per lo sviluppo dell’energia nucleare.

Tra il 1996 e il 1997 tuttavia le forti pressioni degli Stati Uniti per l’interruzione del supporto di Pechino ai programmi missilistici e nucleari iraniani hanno spinto il governo cinese a cambiare direzione e a impegnarsi a non sostenere più i progetti di Teheran su questi punti.28 Gli Stati Uniti accusano, infatti, il regime iraniano di utilizzare il programma nucleare per sviluppare armi atomiche e minacciano ritorsioni, incluse quelle militari, per impedire che ciò accada. Un Iran nucleare, governato da un leader ostile e imprevedibile come Ahmadinejad in un’area altamente strategica per gli Stati Uniti come il Medio Oriente – dallo Stretto di Hormuz di fronte alle coste iraniane passa il 20% di tutte le esportazioni di greggio del mondo – è un rischio che Washington, e soprattutto Israele, non possono permettersi di correre.

Teheran si difende sostenendo che il suo programma ha solo lo scopo di utilizzare l’energia nucleare per produrre elettricità. Pechino segue la posizione ufficiale iraniana e si dichiara a favore della non-proliferazione nucleare, nel frattempo protegge Teheran dalle sanzioni e dichiara di voler risolvere il problema attraverso un negoziato da svolgersi all’interno dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Allo stesso tempo Pechino ha fortemente incoraggiato Teheran ad accettare l’offerta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (insieme alla Germania) di sospendere il suo programma di arricchimento dell’uranio e placare i timori della comunità internazionale in relazione alle sue attività nucleari: una posizione che, non soddisfacendo né Teheran né Washington, rivela la volontà di Pechino di mantenersi il più possibile equidistante per conservare un ampio margine di manovra.29

Se si dovesse tuttavia delineare un pattern di lungo periodo nel dialogo tra Cina e Stati Uniti sull’Iran nel corso degli ultimi venti anni emergerebbe con chiarezza che il governo cinese ha fino a oggi subordinato il suo rapporto con Teheran a quello con Washington: «la Cina sembra aver deciso di non confrontarsi con gli Stati Uniti sull’Iran – scrive l’esperto di relazioni sino- iraniane John Garver – Pechino tuttavia ha sempre cercato di concedere il minimo indispensabile cercando allo stesso tempo di trovare altri canali per appoggiare Teheran».30

A ben guardare, anche in quest’area gli interessi di Washington e Pechino sembrano convergere.31 Circa un terzo del petrolio importato da Pechino giunge infatti dal Golfo Persico, una zona la cui sicurezza al momento è garantita solo da Washington. La Marina americana è inoltre l’unica al momento capace di pattugliare le rotte sulle quali naviga il petrolio del Golfo destinato a Pechino, un compito, questo, che la flotta cinese non è ancora in grado di assolvere. La Cina si affida inoltre agli Stati Uniti per rassicurare i paesi vicini all’Iran e impedire che Israele, spinta dal timore di un potenziale at - tacco nucleare iraniano, si lanci in un’azione preventiva che potrebbe far esplodere la regione.

La Cina, come gli Stati Uniti, non trarrebbe alcun vantaggio da un conflitto nell’area che oltre a mettere a repentaglio i suoi rifornimenti energetici rischierebbe di vanificare definitivamente i suoi investimenti di - retti nell’area. Né sembra avere alcun interesse a favorire il programma nucleare iraniano che, peraltro, rischierebbe, come nel caso nordcoreano, di provocare una proliferazione nucleare nell’area e, soprattutto, spingerebbe il costo del petrolio ad impennarsi, un duro colpo per un paese importatore di energia come la RPC, specie in una difficile congiuntura economica come quella attuale.

Mentre cresce dunque la presenza della RPC nella regione, crescono anche le sue responsabilità: grazie ai miliardi di dollari di interscambio, e soprattutto viste le prospettive di crescita dei rapporti tra Pechino e i paesi produttori dell’area, le decisioni del governo cinese hanno e avranno sempre maggior impatto sugli equilibri della regione.

Questo insieme di fattori dovrebbe spingere il governo cinese nei prossimi mesi ad assumere una posizione più netta nei riguardi del problema iraniano. Sono molti gli incentivi che Washington potrà utilizzare per spingere Pechino a cooperare più attivamente: l’Arabia Saudita, ad esempio, fornisce già a Pechino molto più greggio di quanto non faccia Teheran e potrebbe accrescere le sue forniture se la Cina intervenisse in modo attivo per impedire al regime iraniano di concludere il suo programma nucleare, un programma che sembra preoccupare seriamente i sauditi; anche Israele, già partner militare di primo piano di Pechino, potrebbe giocare le sue carte così come fece nel corso degli anni Novanta per persuadere i cinesi a sospendere la cooperazione missilistica e nucleare con Teheran.32

Asia meridionale: India-Pakistan- Afghanistan La guerra in Afghanistan e la lotta al terrorismo, avviati nel 2001 dall’Amministrazione Bush, hanno elevato il livello di importanza strategica della parte meridionale dell’Asia. Il rapporto conflittuale tra le due potenze nucleari della regione – l’India, vicina a Washington, e il Pakistan, storico alleato di Pechino – è divenuto un fattore determinante nelle complesse relazioni bilaterali sino-americane. Sin dal 2002 Stati Uniti e India hanno avviato una cooperazione militare su larga scala e Washington ha aiutato Nuova Delhi ad acquisire tecnologia militare all’avanguardia soprattutto tramite Israele.33

Gli Stati Uniti hanno impostato il loro rapporto con l’India su tre pilastri: strategico (global issues e difesa), economico (commercio, finanza e ambiente) ed energetico. La cooperazione include anche il fronte dell’antiterrorismo, la fornitura all’India di tecnologia duale – utilizzabile cioè per scopi sia civili che militari – e rilevanti concessioni sullo sviluppo del programma nucleare, concluse nel 2008 con l’approvazione da parte del Congresso dell’accordo tra i due paesi sul nucleare civile.34

A fronte del recente legame stabilito tra Washington e Nuova Delhi, i rapporti di amicizia tra Cina e Pakistan hanno una storia più lunga. I due paesi hanno stabilito contatti diplomatici dal 1951 e il rapporto bilaterale è sempre stato basato su una stretta e salda cooperazione anche durante periodi “difficili” per Pechino come quello dell’isolamento diplomatico durante la Rivoluzione culturale. Sin dagli anni Sessanta la Cina ha fornito al Pakistan una corposa assistenza militare divenendo, nel corso degli anni Novanta, il principale fornitore di armi di Islamabad: scopo principale di queste forniture è sempre stato quello di bilanciare l’influenza indiana nell’area.35 Il reciproco interesse a un contenimento della potenza indiana è, infatti, da sempre uno degli elementi fondanti di questa intesa. Le tensioni tra India e Pakistan risalgono al 1947 quando la Gran Bretagna rinunciò alla sua sovranità sul subcontinente indiano e decise di dividere la sua ex colonia in due Stati, gli attuali India e Pakistan. Da allora tra i due paesi si sono succedute tre guerre e molti scontri militari di minore intensità. A oggi la tensione rimane alta in relazione alla contesa sulla sovranità della regione settentrionale del Kashmir. L’India non ha mai gradito il rapporto privilegiato tra Pechino e Islamabad e interpreta le forniture militari cinesi al suo vicino come parte di una strategia di “accerchiamento” mirato a impedire a Nuova Delhi di sfidare la crescente influenza cinese nella regione.36 Nel 1962 India e Cina si sono affrontate militarmente al confine e, ancora oggi, entrambe accusano l’altra parte di occupare considerevoli porzioni del proprio territorio.37

Dalla fine degli anni Novanta l’aspetto economico è andato acquisendo maggiore importanza rispetto a quello strategico-militare all’interno del rapporto bilaterale tra Pechino e Islamabad. Nel 2008 i due paesi hanno raggiunto un accordo generale sulla liberalizzazione degli scambi che ha favorito profondamente i legami economici tra essi. Diverse aziende statali cinesi sono impegnate in progetti infrastrutturali di larga scala in Pakistan: autostrade, miniere d’o ro e di rame, impianti di energia elettrica e diversi progetti per lo sviluppo dell’energia nucleare. Uno dei progetti più rilevanti riguarda il complesso portuale all’interno della base navale di Gwadar, nella provincia del Balochistan, inaugurato alla fine del 2008: un investimento strategico che fornisce a Pechino, grazie a un accesso privilegiato al Golfo Persico (lo Stretto di Hormuz dista appena 180 miglia marine), un maggiore monitoraggio delle rotte del petrolio ma anche uno sbocco per le riserve petrolifere e di gas naturale dello Xinjiang.

Ciononostante, il rapporto tra Pechino e Islamabad resta squilibrato e, a oggi, è il Pakistan ad avere più bisogno della Cina. Benché i rapporti tra Washington e Islamabad siano migliorati, sull’onda della guerra al terrorismo, il regime pakistano non ha approvato l’accordo sul nucleare civile concluso da India e Stati Uniti. Washington ha negato ad Islamabad la possibilità di concludere un accordo analogo e lo stesso ha fatto Pechino, preoccupata di alterare il rapporto con gli Stati Uniti su una questione così delicata. Pechino peraltro sembra diffidare della situazione politica nel paese e sospetta che alcuni dei separatisti uiguri siano stati ingaggiati e addestrati proprio in Pakistan fin dagli anni Ottanta.38

La Cina, inoltre, teme un confronto diretto tra Islmabad e Nuova Delhi che la costringerebbe a prendere apertamente le parti di uno dei contendenti incentivando al contempo Washington a intervenire in maniera più diretta nell’area.

Come Pechino, anche Washington si impegna a mantenere basso il livello di attrito tra India e Pakistan e sin dal 1998 – anno dei primi esperimenti nucleari nei due paesi – ha impostato la sua strategia nella regione sulla non proliferazione nucleare. La guerra in Afghanistan ha accresciuto di molto l’importanza strategica che gli Stati Uniti attribuiscono alla stabilità in Pakistan; non a caso, dal 2001 il governo di Islamabad è diventato uno dei maggiori recettori al mondo di aiuti da parte di Washington. Gli USA hanno bisogno della cooperazione pakistana per contrastare l’infiltrazione di estremisti islamici dal Pakistan in Afghanistan, uno dei principali ostacoli nella lotta al movimento dei Taliban e alla stabilizzazione del paese.39

Anche l’Afghanistan presenta un curioso esempio della crescente convergenza di interessi tra Cina e Stati Uniti nella regione. «In Afghanistan, gli interessi cinesi e americani convergono » ha scritto recentemente Robert Kaplan sulle colonne del “The New York Times”.40 Kaplan cita il caso della provincia afgana di Logar, a sud di Kabul, dove truppe americane garantiscono la sicurezza allo sfruttamento delle riserve di rame della regione portate avanti dalle compagnie di Stato cinesi. Mentre alcuni degli alleati USA all’interno della NATO sembrano restii a impegnarsi per la stabilizzazione del paese, la Cina sembra invece disposta a fare la sua parte, attirata dagli immensi e inesplorati giacimenti afgani di rame, ferro, oro, uranio e gemme preziose. Attraverso lo sfruttamento delle risorse afgane la Cina fornisce migliaia di posti di lavoro alla popolazione locale, aumentando in tal modo le entrate fiscali del traballante governo di Kabul. «Se gli Stati Uniti sperano di trasformare l’Afghanistan in un paese moderatamente stabile che non sia più il santuario degli estremisti, la Cina vede la stabilità del paese legata alla sicurezza dei canali di trasporto dell’energia dall’Oceano Indiano. Se l’America sconfigge Al Quaeda e i Taliban, la posizione geopolitica della Cina sarà notevolmente migliorata».41

 

Africa Al di là della fascinazione mediatica che la cosiddetta scramble for Africa tra Cina e Stati Uniti sembra suscitare, a ben guardare anche in questo caso gli interessi dei due paesi in questa importante area strategica non sembrano necessariamente in conflitto.

La Cina ha quattro interessi di fondo in Africa. Vuole anzitutto assicurarsi l’accesso al petrolio, ai minerali e ai prodotti agricoli del continente: oggi Pechino importa oltre il 30% del suo greggio dall’Africa e percentuali ancora più alte di minerali essenziali per lo sviluppo dell’economia cinese quali il cobalto e il manganese.42 La RPC ambisce inoltre a stabilire buoni rapporti con i governi locali per garantirsi un supporto politico ed economico all’interno dei forum regionali e internazionali: i paesi africani indipendenti furono determinanti per l’ammissione della RPC all’ONU nel 1971 e oggi i voti di questi Stati sono cruciali per supportare le proposte di Pechino all’interno di organizzazioni internazionali come l’Organizzazione mondiale per il commercio (OMC) e le Nazioni Unite, specie in tema di diritti umani, su cui esiste, tra questi paesi e la RPC, una certa uniformità di vedute. Pechino cerca allo stesso tempo di sviluppare le relazioni bilaterali con i paesi dell’area per ridurre il più possibile la presenza diplomatica di Taiwan nel continente e sostituirla con la propria.43 Un altro obiettivo per la RPC è quello che vede nell’Africa un mercato potenziale per i prodotti cinesi. La Cina mira ad accrescere le proprie esportazioni mentre con lo sviluppo delle economie locali aumenta anche il benessere e dunque la capacità di spesa degli africani. In questi anni, l’Africa ha mantenuto un certo attivo nel commercio con la Cina principalmente grazie alle esportazioni di petrolio: oggi le esportazioni cinesi verso l’Africa costituiscono appena il 3% del totale e sono composte in larga parte da manufatti e macchinari, ma le prospettive di crescita del continente lasciano ben sperare e Pechino vuole essere pronta a sfruttarle al meglio.44

Gli interessi degli Stati Uniti in Africa sono simili e per lo più sovrapponibili a quelli della RPC. Gli Stati Uniti importano più petrolio dall’Africa di quanto non faccia oggi Pechino. Un quinto delle importazioni americane di greggio proviene da questo continente e i volumi importati, sebbene inferiori in percentuale rispetto a quelli cinesi, restano maggiori in termini assoluti.

Come Pechino, anche Washington ambisce ad allargare i volumi delle proprie esportazioni in Africa, sebbene fino ad oggi non si sia impegnata a favorire le proprie aziende tanto quanto il governo cinese. La maggior parte delle imprese che operano in Africa, specie nei progetti più strategicamente rilevanti, sono infatti statali (State Owned Enterprises, SOE). La Commissione per la supervisione e l’amministrazione degli assets statali (SASAC) – che non ha equivalenti negli Stati Uniti e ha lo stesso rango del ministero degli Esteri e di quello del Commercio – opera direttamente in Africa attraverso una rete di uffici distaccati. Nel 2004, inoltre, la Cina ha stabilito il China-Africa Business Council insieme al Programma di sviluppo delle Nazioni Unite per incrementare gli investimenti anche nel settore privato nell’Africa Sub-sahariana. 45 La Export-Import Bank cinese svolge un ruolo cruciale in Africa: è l’unica entità statale per distribuire assistenza economica ufficiale. Fornisce prestiti a basso tasso di interesse ai governi e incoraggia le aziende cinesi a investire in Africa attraverso crediti all’esportazione, prestiti e garanzie internazionali. Questi prestiti si associano in genere a grandi progetti per la costruzione di infrastrutture realizzati da compagnie cinesi con materiali e spesso anche con manodopera cinese.46

Pechino sembra anche più attiva degli USA nei rapporti intergovernativi con gli Stati africani. Anche gli Stati Uniti tentano di conquistare il supporto dei governi africani nei forum internazionali ma Pechino sembra più capace nel mantenere vivi i rapporti con i loro leader grazie a un’attiva trip-driven diplomacy e a una maggiore umiltà nell’approccio con le élite locali. A ciò bisognerebbe aggiungere che le pressioni di Washington in tema di diritti umani e riforme politiche non vengono accolte con favore dai governi locali, che sembrano invece prediligere il principio di non interferenza negli affari interni che ispira la politica estera di Pechino. Gli Stati Uniti non devono concorrere peraltro con Taiwan per il riconoscimento diplomatico dei paesi del continente, un fattore che stimola invece notevolmente l’impegno di Pechino nel rapporto intergovernativo con i paesi dell’area.47

Dall’inizio della guerra contro il terrorismo, gli Stati Uniti hanno aggiunto l’elemento della sicurezza ai loro interessi strategici nel continente, elemento invece per lo più assente sino a oggi nei rapporti tra Pechino e i paesi africani. Gli USA hanno stanziato cospicui investimenti in Africa centrale e orientale per assistere i governi locali nella lotta all’estremismo: nel 2002 hanno persino stabilito una base militare nel Djibouti e nel 2007 hanno creato un nuovo Comando militare per l’Africa, l’AFRICOM. La Cina non possiede invece alcuna base militare nella zona anche se i recenti attacchi al personale cinese in Sudan, Nigeria ed Etiopia potrebbero spingere Pechino a prestare maggiore attenzione al problema della sicurezza. In seguito al tentativo da parte di pirati di sequestrare una nave cinese vicino alle coste della Somalia, il governo cinese ha tuttavia deciso di inviare due delle sue navi in supporto della forza internazionale messa in piedi per la lotta alla pirateria.48

«Gli interessi di Stati Uniti e Cina in Africa presentano più punti di contato che di frizione – ha recentemente scritto in un articolo sul tema David H. Shinn – vi sarà di certo una qualche competizione tra i due paesi sull’accesso alle risorse africane e al supporto politico dei governi locali, ma le possibilità di cooperazione restano di gran lunga maggiori».49

La crescente presenza cinese in Africa ha spinto inoltre gli Stati Uniti a prestare maggiore attenzione e impegno nei confronti di questo continente. La nuova Amministrazione Obama ha dichiarato espressamente che si dedicherà con più incisività alla lotta contro la povertà e la corruzione, a migliorare i livelli sanitari per contrastare la diffusione di malattie letali quali l’AIDS, la malaria e la tubercolosi, a promuovere la riduzione dei debiti dei paesi africani, a favorire la “rivoluzione verde” nel continente, a incrementare la democratizzazione, a finanziare la cooperazione contro il terrorismo e a lanciare un’iniziativa congiunta con i governi dell’area per combattere i cambiamenti climatici. 50 Nessuno di questi punti – eccetto quello relativo alla democratizzazione che, come si è detto, non rientra nell’agenda attuale del governo cinese – sembra ostacolare seriamente la cooperazione tra Stati Uniti e Cina. Obama ha dichiarato che i due paesi dovrebbero impegnarsi a trovare dei punti di contatto per una cooperazione che possa meglio contribuire allo sviluppo africano. Gli spazi per una azione comune sono ampi: dalle operazioni di peacekeeping, allo sviluppo energetico, all’assistenza congiunta a progetti agricoli e sanitari, allo sforzo per implementare le capacità di esportazione del continente, al miglioramento delle politiche ambientali.51

Pechino potrebbe essere interessata. Come dimostra il caso del Golfo Persico, la crescente presenza economica cinese in Africa lega sempre più gli interessi di Pechino al mantenimento della stabilità. Ciò impone ai cinesi delle responsabilità specifiche, che potrebbero in un certo senso spingerli a violare informalmente la loro tradizionale politica di non interferenza negli affari interni dei paesi nei quali investono. Il caso del Darfur potrebbe essere paradigmatico a questo proposito. Negli ultimi anni Pechino è stata ripetutamente accusata dalla comunità internazionale di appoggiare la repressione del governo sudanese nei confronti della popolazione non araba del Darfur per difendere i propri interessi economici. Le pressioni sembrano aver avuto il loro effetto e Pechino si è impegnata a rendere più flessibile la politica del governo sudanese. «La Cina è stata molto cooperativa – ha detto Andrew S. Natsios, ex inviato speciale dell’Amministrazione Bush in Sudan – il livello di coordinamento e cooperazione è migliorato di mese in mese».52

 

Conclusioni Nell’agosto del 2009 John M. Hunts - man, ex governatore repubblicano dello Utah, ha preso servizio come nuovo ambasciatore americano in Cina. Huntsman parla correntemente il cinese e una delle sue figlie è una bambina cinese adottata, un messaggio di forte valore simbolico per il paese. Alla fine di agosto Huntsman annunciando la visita del presidente Obama in Cina ha aggiunto: «I cinesi dicono sempre, quando la famiglia è felice il mondo è in pace. La mia famiglia è molto felice, e sinceramente spero che le due sponde del Pacifico siano anch’esse felici. Così i nostri due paesi potranno entrambi godere di pace e benessere. Il mondo oggi più che mai dipende da una sana e stabile relazione tra Stati Uniti e Cina».53

Prima dell’incontro con Obama a Pechino, il premier cinese Wen Jiabao ha detto di “sperare sinceramente” che la visita del presidente americano possa condurre ad una cooperazione più profonda tra i due paesi.54 Secondo quanto emerso dagli incontri sembra di fatto che la speranza del premier cinese sia stata soddisfatta. La visita di Obama a Pechino (15-18 novembre) ha costituito un importante passo in avanti nell’implementazione della cooperazione strategica tra le due potenze. Le basi di questa nuova partnership sembrano abbastanza solide. Gli Stati Uniti continuano a essere il principale protagonista nello scacchiere asiatico e globale e sono ancora in tempo per poter indirizzare l’ascesa di Pechino in una direzione pacifica, utile alla realizzazione dei propri interessi. La politica estera di Pechino e di Washington nelle aree strategiche può trovare una sostanziale convergenza. Laddove sembrano emergere potenziali conflitti sul breve termine (come nei casi di Taiwan, Iran e Africa), gli interessi di medio-lungo periodo dei due paesi indicano un orizzonte comune che legittima la scelta della partnership strategica seguita da Washington e lascia ben sperare per il futuro dei rapporti bilaterali.

Uno degli strumenti logici che vengono spesso proposti dai teorici del “conflitto inevitabile” è l’analogia tra l’ascesa della Cina di oggi e quella della Germania guglielmina all’inizio del Novecento.55 Secondo questa analogia, poiché l’integrazione economica tra la potenza allora egemone, l’Inghilterra, e la potenza emergente, la Germania, non impedì l’esplosione del conflitto, lo stesso dovrebbe accadere oggi tra Stati Uniti e Cina. In questo caso, tuttavia, il ricorso alla storia come magistra vitae potrebbe apparire abusivo. I processi di integrazione economica del mondo contemporaneo sono, infatti, di gran lunga più profondi e articolati rispetto a quelli dell’inizio del Novecento e favoriscono una dilatazione del concetto di interesse nazionale che crea ampie aree di communality, zone cioè in cui gli interessi nazionali specifici si trasformano in interessi comuni. Si pensi, ad esempio, al tema dell’ambiente – che non a caso è il fiore all’occhiello del dialogo strategico tra Washington e Pechino −56 o alla tanto discussa “dipendenza” cinese dal dollaro. Approfondiamo questo punto. In questi anni il modello del rapporto economico tra Stati Uniti e Cina prevedeva, in sintesi, che la Cina producesse beni da far poi consumare ai cittadini americani. Ciò consentiva a Pechino di accumulare ingenti riserve e di reinvestirle in dollari e buoni del tesoro USA, e, di conseguenza, a Washington di espandere ulteriormente il proprio debito. La recente crisi economica ha colpito questo sistema nel suo punto più debole: la capacità di consumo degli americani. Pechino adesso teme che la crisi possa portare Washington a svalutare ulteriormente il dollaro per ridimensionare il deficit e rilanciare le esportazioni, e, di conseguenza, per attutire l’impatto della svalutazione, è costretta a diversificare le nuove riserve. Gli Stati Uniti, tuttavia, continuano ad avere enorme bisogno degli investimenti cinesi, specie in una fase critica come quella attuale, e cercano di trovare una composizione congiunta con Pechino che miri sul breve periodo a uscire dalla crisi e sul medio termine a favorire i consumi cinesi per riequilibrare il sistema. In tutto questo interessante intreccio resta chiaro che entrambi i paesi puntano alla stabilità: i cinesi non hanno alcun interesse a vedere una destabilizzazione del sistema economico amercano così come gli americani non possono permettersi una crisi del sistema politico ed economico in Cina. Se, nel caso cinese, la fiducia va dunque riposta sull’Amministrazione corrente, quella di Obama, da parte americana si tratta di affidarsi alla capacità del Partito comunista cinese di gestire il paese in questa fase delicata.

Trent’anni fa Brzezinski, prima che Deng Xiaoping diventasse il nuovo leader del PCC, scriveva al presidente Carter: «Deng sembra condividere con i teorici della modernizzazione occidentali l’idea che lo sviluppo richieda specializzazione, gerarchia, e urbanizzazione. Dopo venti anni alla ricerca di un percorso originale verso la modernità, il regime cinese sotto la guida di Deng sembra riconnettersi con il resto del mondo».57 Era l’inizio di una svolta nei rapporti tra Cina e Stati Uniti, una svolta che avrebbe portato l’America a favorire l’ascesa di Deng ai vertici del partito supportando la sua strategia di riforma economica, e la Cina a “internalizzare” il suo rapporto con Washington come un elemento cruciale per la ripresa della sua economia: la politica interna cinese divenne dunque sempre più un elemento cruciale della China policy di Washington e allo stesso tempo il rapporto con gli Stati Uniti, e di conseguenza anche la politica interna americana, divennero sempre più importanti per la strategia riformatrice del PCC. Gli Stati Uniti iniziarono a riconoscere come proprio interesse strategico la stabilizzazione di una Cina guidata da un PCC “riformatore”. Problemi come quello di Taiwan, del Tibet, dello Xinjiang, sarebbero dunque stati progressivamente subordinati alle esigenze “superiori” di stabilità del paese. Se dopo gli eventi di Tiananmen del 1989, Bush padre, per rispondere all’opinione pubblica americana, dovette imporre sanzioni contro Pechino – inviando al contempo una delegazione segreta per tranquillizzare i leader cinesi – nel 2008 suo figlio, il presidente George W. Bush, poteva godersi i Giochi Olimpici a Pechino all’indomani degli scontri in Tibet. O, per fare un esempio più attuale, si potrebbe citare il “rumoroso silenzio” del segretario di Stato Clinton sul tema dei diritti umani nel corso della sua visita in Cina.

La scelta della partnership strategica con Pechino dell’Amministrazione Obama sembra l’ultima fase di un percorso storico abbastanza lineare e razionale che mira a gestire l’integrazione sempre più profonda del paese più popoloso al mondo nel sistema internazionale nel modo più armonico e pacifico possibile. Sebbene il percorso possa apparire a volte cinico in alcune delle sue fasi, l’obiettivo che esso si pone è di certo grandioso. Si pensi, ad esempio, al problema del crescente nazionalismo dell’opinione pubblica cinese e all’impatto distruttivo che esso potrebbe avere sul sistema internazionale se trovasse una forte rappresentanza politica. Come mostra l’esperto americano Robert Ross in un recente saggio, uno di questi effetti perversi del nazionalismo dal basso si nota già nella politica navale della RPC che rischia di diventare minacciosa per gli Stati Uniti e i paesi circostanti, come alcuni recenti episodi sembrano confermare: non è un caso che una delle componenti centrali nei colloqui militari ripresi di recente tra i due paesi si basi proprio su questo punto.58

Sebbene questo percorso possa apparire virtuoso, ciò non ne garantisce automaticamente il successo. Sono già varie le voci critiche in proposito.59 Se gli Stati Uniti sono ancora il leader mondiale, infatti, è ovvio che la loro interpretazione di una “partnership” con Pechino non sarà facilmente intesa in termini di totale e completa uguaglianza. La politica di engagement di Washington riflette pur sempre l’interesse degli Stati Uniti di aggiornare la sua leadership globale ai cambiamenti in corso. Allo stesso tempo, se è pur vero che i cinesi si sentono lusingati di tanta attenzione da parte di Washington, di cui riconoscono tuttora la superiorità strategica ed economica, non è scontato che si lascino coinvolgere del tutto in un rapporto esclusivo con gli Stati Uniti. Pechino continuerà molto probabilmente a coltivare i suoi rapporti bilaterali con paesi – come l’Iran, la Corea del Nord e la Russia – nei cui confronti l’influenza di Washington vacilla da tempo.60 Ciò continuerà a dare maggiore flessibilità alla politica estera cinese e di certo consentirà a Pechino di rafforzare la sua posizione all’interno del dialogo strategico con Washington. Quando, nel maggio del 1978, Brzezinski si recò in visita a Pechino per avviare il dialogo strategico tra i due paesi, si presentò ai suoi ospiti cinesi con un dono speciale, un pezzo di roccia lunare, accompagnato dalla nota: «Un dono simbolico per il nostro cammino verso un futuro migliore». Nella cultura tradizionale cinese la luna è associata al principio femminile e all’Occidente, laddove il sole rappresenta il maschile e l’Oriente. Con la sua “luna”, Brzezinski portava l’Occidente in Cina. Oggi forse i cinesi potrebbero ricambiare: ma regalare un po’ di sole all’America non sarà facile, e si corre il rischio di ustionarsi.61


 

[1] P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1993, p. 29.

[2] A. Maddison, The World Economy: Historical Statistics, OECD, Parigi 2003, p. 261.

[3] Per i dati sugli investimenti americani per la difesa si veda www.globalissues.org/article/75/world-military-spend - ing; a questo dato andrebbe aggiunto anche l’enorme costo dell’impegno militare in Iraq, recentemente calcolato da Joseph E. Stiglitz e Linda J. Bilmes in 3000 miliardi di dollari. Cfr. J. E. Stiglitz e L. J. Bilmes, The Three Trillion Dollar War: the True Cost of the Iraq Conflict, Allen Lane, Londra 2008, capitolo 1. Per il riferimento sul cambiamento del profilo dell’economia americana cfr. M. Jacques, When China rules the world, Allen Lane, Londra 2009, p. 7.

[4] Cfr. J. Mearsheimer, The Tragedy of Great Power Politics, W. W. Norton, New York 2001; N. Ferguson, ‘Chimerica’ is Headed for Divorce, in “Newsweek”, 9/2009. È interessante notare come questa corrente trovi in Cina il suo corrispettivo nella scuola più realista incentrata sul tema, molto popolare, del “sorpasso” dell’Occidente. Cfr. Yan Xuetong, Jueqi zhong de Zhongguo guojia liyi neihan (L’essenza dell’interesse nazionale di una Cina in ascesa), in Xu Jia, China’s National Interests and its Influence, Shishi chubanshe, Pechino 2006, pp. 4-5; Yu Xilai (pseudonimo di Chen Ziming), 21 shiji Zhongguo xiandaihua yicheng (xia) (L’agenda di modernizzazione della Cina nel XXI secolo, Parte 2), in “Zhanlue yu guanli” (“Strategia e management”), 4/2001, pp. 1-11.

[5] Smart Power in U.S.-China relations. A report of the CSIS Commission on China, Center for Strategic & International Studies (CSIS), marzo 2009, p. VI; si veda anche C. F. Bergsten, C. Freeman, N. R. Lardy, D. J. Mitchell, China’s Rise: Challenges and Opportunities, Peterson Institute for International Economics and Center for Strategic and International Studies, Washington 2008; N. Hachigian, M. Schiffer, W. Chen, A Global Imperative: a Progressive Approach to U.S.-China Relations in the 21st Century, Center for American Progress, Washington, agosto 2008; R. A. Cossa, B. Glosserman, M. A. McDevitt, N. Patel, J. Przystup, B. Roberts, The United States and the Asia-Pacific Region: Security Strategy for the Obama Administration, Center for a New American Security, Washington, febbraio 2009; Liu Xuecheng, R. Oxnam, The Pivotal Relationship: How Obama Should Engage China, EastWest Institute, New York 2009. Da parte cinese, questa corrente è rappresentata dai più noti esponenti della scuola razionalista quali Wang Jisi, Men Honghua, Wang Yiwei: si veda ad esempio, Wang Jisi, Guoji zhengzhi de lixing sikao (Riflessioni razionali sulla politica internazionale), Beijing Daxue Chubanshe, Pechino 2006; Jisi, Guanyu gouzhu Zhongguo guoji zhanlue de jidian kanfa (Alcuni punti sulla costruzione della strategia internazionale della Cina), in “Guoji zhengzhi yanjiu” (“Giornale di politica internazionale”), 4/2007, pp. 1-5; Men Honghua, Zhongguo zhanlue wenhua: yixiang yanjiu yicheng (La cultura strategica della Cina: un argomento di ricerca), in Guo Shuyong (a cura di), Guoji guanxi huyu Zhongguo lilun (Le relazioni internazionali hanno bisogno di una teoria cinese), Tianjin renmin chubanshe, Tianjin 2005, pp. 313-16; Wang Yiwei, Hexie shijie guan de sanchong neihan (Le tre dimensioni della visione del “mondo armonioso”), in “Jiaoxue yu yanjiu” (“Insegnamento e ricerca”), 2/2007, pp. 68-70.

[6] Z. Brzezinski, The Group of Two that could change the world, in “Financial Times”, 13 gennaio 2009, disponibile su www.ft.com/cms/s/0/d99369b8-e178-11dd-afa0-0000779fd2ac.html?nclick_check=1.

[7] Ibid.; si veda anche E. Fardella, The Sino-American Normalization: A Reassessment”, in “Diplomatic History”, 4/2009, pp. 545-78.

[8] Cfr. M. Abramowitz, S. Bosworth, Chasing the Sun, Century Foundation, New York 2006.

[9] D. Shambaugh, China Engages Asia: Reshaping the Regional Order, in “International Security”, 3/2004-05, pp. 64-99; J. Kurlantzick, Charm Offensive: How China’s Soft Power is Transforming the World, Yale University Press, New Haven 2007; D. Kang, China Rising: Peace, Power and Order in East Asia, Columbia University Press, New York 2007; R. Sutter, Assessing China’s Rise and U.S. Leadership in Asia: Growing Maturity and Balance, Pacific Forum, CSIS, PacNet 6, Honolulu, 29 gennaio 2009.

[10] V. Cha, Winning Asia: America’s Untold Success Story, in “Foreign Affairs”, 6/2007, pp. 98-113; E. Goh, Southeast Asia: Strategic Diversification in the “Asian Century”, in A. Tellis, M. Kuo, A. Marble (a cura di), Strategic Asia 2008-2009, National Bureau of Asian Research, Seattle 2008.

[11] Cfr. R. Sutter, The United States in Asia, Rowman and Littlefield, Lanham 2009.

[12] E. Medeiros, Pacific Currents: The Responses of US Allies and Security Partners in East Asia to China’s Rise, RAND Corporation, Santa Monica 2008.

[13] Sutter, The Obama Administration and US Policy in Asia, in “Contemporary Southeast Asia”, 2/2009, pp. 189- 216.

[14] P. Bowring, Taiwan and China, in “The New York Times”, 7 ottobre 2009.

[15] Cfr. Fardella, The Sino-American Normalization: A Reassessment cit.

[16] Cfr. S. Kan, Taiwan: Major US Arms Sales Since 1990, Congressional Research Service, 24 settembre 2009, disponibile su www.fas.org/sgp/crs/weapons/RL30957.pdf.

[17] Cfr. I. Williams, America’s missile diplomacy, in “The Guardian”, 8 ottobre 2008, disponibile su www.guardian.co.uk/commentisfree/cifamerica/2008/oct/09/china.taiwan.us.arms.sale , nel quale si fa riferimento comunque al fatto che solo una parte delle armi richieste dai taiwanesi è stata effettivamente consegnata loro.

[18] N. Eberstadt, Statistical Blackouts in North Korea: trade Figures Uncovered, The World Bank Group, disponibile su www.worldbank.org/html/prddr/trans/marapr98/pgs21-23.htm.

[19] Sul conflitto tra aiuti economici cinesi e sanzioni dell’ONU si veda: North Korea’s Second Nuclear Test: Implications of U.N. Security Council Resolution, Congressional Research Service, 23 luglio 2009, disponibile su fas.org/sgp/crs/nuke/R40684.pdf; l’ultima concessione di aiuti da parte di Pechino risale ai primi di ottobre 2009, cfr. Choe Sang-Hun, China Aims to Steady North Korea, in “The New York Times”, 7 ottobre 2009. In termini relativi, tuttavia, gli aiuti concessi da Pechino nel 2009 sono diminuiti in percentuale del 4,13% rispetto ai volumi del 2008.

[20] Shen Dingli, North Korea’s Strategic Significance to China, in “China Security”, autunno 2006, pp. 19-34.

[21] La RPC e la Corea del Nord sono legate da un Trattato di amicizia, cooperazione e assistenza reciproca, firmato nel 1961. Il Trattato prevede che la Cina difenda la Corea del Nord in caso di aggressione non provocata. Secondo Jaewoo Choo, docente di Politica estera cinese all’Università Kyung Hee, tuttavia, la Cina si riserva il diritto di dare un’interpretazione personale alle clausole del trattato. Cfr. Jaewoo Choo, Mirroring North Korea’s Growing Economic Dependence on China: Political Ramifications, in “Asian Survey”, 2/2008, pp. 343-72.

[22] A. Lankov, Staying Alive. Why Korea will not change, in “Foreign Affairs”, 2/2008, disponibile su www.foreignaffairs.com/articles/63216/andrei-lankov/staying-alive.

[23] Keeping an Eye on an Unruly Neighbor. Chinese views of Economic Reform and Stability in North Korea, United States Institute of Peace, Working Paper, 3 gennaio 2008, disponibile su www.usip.org/files/resources/ Jan2008.pdf

[24] Tianjian Shi, Northeast Asia Security Conference, 19 aprile 2009, disponibile su www.carnegieendowment.org/ events/?fa=eventDetail&id=1349&prog=zch.

[25] H. Lee, D. A. Shalmon, Searching for Oil: China’s Initiatives in the Middle East, in “Environment”, 5/2007.

[26] D. Pierson, China’s Link to Iran: a snag for sanctions, in “Los Angeles Times”, 16 ottobre 2009, disponibile su www.latimes.com/news/nationworld/world/la-fg-china-iran16-2009oct16,0,7925393.story.

[27] D. Cristiani, China and Iran Strengthen Their Bilateral Relationship, in “PINR”, 6 ottobre 2006, disponibile su www.pinr.com/report.php?ac=view_report&report_id566.

[28] Per un’analisi più approfondita su questo punto, cfr. J. W. Garver, China & Iran: Ancient Partners in a Post- Imperial World, University of Washington Press, Seattle 2006, pp. 216-36.

[29] S. A. Yetiv , Chunlong Lu, China, Global Energy, and the Middle East, in “The Middle East Journal”, 2/2007, disponibile su findarticles.com/p/articles/mi_7664/is_200704/ai_n32220575/?tag=content;col1.

[30] Garver, China & Iran, op. cit., p. 233.

[31] Un’interessante analisi su questo punto si trova in M. Ghafouri, China’s Policy in the Persian Gulf, in “The Middle East Policy”, 2/2009, pp. 80-92.

[32] Sulla lobbying di Israele nei riguardi di Pechino, cfr. Garver, China & Iran, op. cit., pp. 234-35.

[33] K. A. Kronstadt, India-US Relations, Congressional Research Service, Library of Congress Report, 31 luglio 2006, pp. 15-16.

[34] S. Limaye, Consolidating Friendships and Nuclear Legitimacy, in “Comparative Connections”, 4/2008. Per un’analisi sull’accordo sul nucleare civile tra i due paesi, cfr. E. Pan, The U.S.-India Nuclear Deal, Council of Foreign Relations, 2 ottobre 2008, disponibile su www.cfr.org/publication/9663/.

[35] E. G. M. Parker, T. C. Schaffer, India and China: the Road ahead, in “South Asia Monitor”, 120/2008, p. 3, disponibile su csis.org/files/media/csis/pubs/sam120.pdf. Le forniture di Pechino a Islamabad si basano sostanzialmente su tecnologie per i missili balistici, aerei militari e sistemi di difesa aerea nonché tecnologie e assistenza per lo sviluppo del programma nucleare, incluso, secondo qualche esperto, anche il progetto per la realizzazione della bomba atomica.

[36] Cfr. Kronstadt, Pakistan-U.S. Relations, Congressional Research Service, 6 febbraio 2009, disponibile su www.fas.org/sgp/crs/row/RL33498.pdf.

[37] Cfr. China Protests Trip by India Leader, in “The New York Times”, 14 ottobre 2009.

[38] Cfr. Z. Haider, Sino-Pakistan Relations and Xinjiang’s Uighurs. Politics Trade and Islam along the Karakoram Highway, in “Asian Survey”, 4/2005, pp. 522-45.

[39] Kronstadt, Pakistan-U.S. Relations cit., pp. 53-56.

[40] R. Kaplan, Beijing’s Afghan Gamble, in “The New York Times”, 7 ottobre 2009, disponibile su www.nytimes.com/2009/10/07/opinion/07kaplan.html.

[41] Ibid.

[42] D. H. Shinn, Africa, China, the United States, and Oil, CSIS Online Africa Policy Forum, 8 maggio 2007, disponibile su forums.csis.org/africa/?p=34; H. G. Broadman, Africa’s Silk Road: China and India’s New Economic Frontier, The World Bank, Washington 2007, p. 120.

[43] Restano ancora solo quattro paesi in Africa che continuano a riconoscere diplomaticamente Taiwan al posto della RPC.

[44] Shinn, Eisenman, Responding to China in Africa, American Foreign Policy Council, Washington, giugno 2008, disponibile su www.afpc.org/publication_listings/viewPolicyPaper/236; per i dati citati cfr. International Monetary Fund, Direction of Trade Statistics Yearbook 2007, IMF, Washington 2007, p. 131.

[45] Cfr. I. Taylor, China’s New Role in Africa, Lynne Rienner Publishers, Boulder 2009, pp. 139-51.

[46] B. Gill, J. Reilly, The Tenuous Hold of China Inc. in Africa, in “Washington Quarterly”, 3/2007, p. 43.

[47] Shinn, Africa: the United States and China Court the Continent, in “Journal of International Affairs”, 2/2009, p. 37-54.

[48] Sailing to Strengthen Global Security, in “China Daily”, 26 dicembre 2008.

[49] Shinn, Africa, China, the United States, and Oil cit., p. 37.

[50] Barack Obama and Joe Biden’s Strategy to Promote Global Development and Democracy, disponibile su www.barackobama.com/pdf/issues/Fact_Sheet_Foreign_Policy_Democratization_and_Development_FINAL.pdf.

[51] Zha Daojiong, Hu Weixing, Promoting Energy Partnership in Beijing and Washington, in “Washington Quarterly”, 4/2007, pp. 112-14; Shinn, Eisenman, Responding to China in Africa, op. cit., pp. 7-11.

[52]  L. Polgreen, China in New Role, Presses Sudan on Darfur, in “The New York Times”, 23 febbraio 2008, disponibile su www.nytimes.com/2008/02/23/world/africa/23darfur.html. Nel comunicato congiunto emesso dopo la conclusione del primo round dei colloqui strategici tra Pechino e Washington, nell’ambito del S&ED, nel luglio del 2009 si dice che: «Le due parti hanno espresso la loro volontà di voler approfondire il coordinamento e la consultazione sul tema del Sudan per raggiungere una soluzione politica rapida e duratura del problema». Cfr. China, U.S. how to strengthen cooperation on regional, int’l issues, in “The New York Times”, 29 luglio 2009.

[53]  F. Sisci, Il Mondo Dipende da USA-Cina, 23 agosto 2009, disponibile su www.lastampa.it/_web/ cmstp/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=98&ID_articolo=424&ID_sezione=180&sezione=.

[54] “Wen: China disagrees to so-called G-2”, in “China Daily”, 18 novembre 2009, disponibile su www.chinadaily. com.cn/china/2009-11/18/content_8998039.htm.

[55] Cfr. Ferguson, Chimerica’ is Headed for Divorce cit.

[56]  In questi ultimi due anni sono stati pubblicati diversi studi sulla cooperazione tra Stati Uniti e Cina in relazione al tema ambientale: si vedano in particolare D. Wendt, Clean Coal: U.S.-China Cooperation in Energy Security, EastWest Institute, agosto 2008, disponibile su www.ewi.info/clean-coal-us-china-cooperation-energy-security; Asia Society Task Force Report, Common Challenge, Collaborative Response: A Roadmap for U.S.-China Cooperation on Energy and Climate Change, in “Asia Society”, gennaio 2009, disponibile su www.asiasociety. org/policy-politics/environment/roadmap-us-china-cooperation-energy-and-climate-change.

[57] Memorandum, Brzezinski to Carter, 7 aprile 1978, National Security Council Weekly Report 53, Box 41, Zbigniew Brzezinski Collection, Jimmy Carter Library.

[58] R. Ross, China’s Naval Nationalism: Sources, Prospects and U.S. Response, in “International Security”, 2/2009, pp. 46-81.

[59] Cfr. E. C. Economy, A. Segal, The G-2 Mirage, in “Foreign Affairs”, 3/2009, pp. 14-23.

[60] Sul rapporto Cina-Russia, cfr. Bobo Lo, Axis of Conveniente: Moscow, Beijing and the New Geopolitics, Brookings Institution Press, Washington 2008, in cui l’autore spiega come i due paesi non abbiano né una visione comune di lungo periodo sul mondo né un’idea condivisa del loro posto in esso e continuino a prestare molta più attenzione all’Occidente di quanto non facciano tra loro. La Cina tuttavia, sostiene l’autore, trae più vantaggi di Mosca dal rapporto bilaterale ma, a differenza di Mosca, non lo considera come un contrappeso strategico contro Washington.

[61] W. Eberhard, A Dictionary of Chinese Symbols, Routledge, Londra-New York 2006, pp. 193-94.