I cambiamenti climatici e il processo negoziale internazionale da Kyoto verso Copenaghen

Di Sergio Castellari Giovedì 10 Dicembre 2009 18:31 Stampa

Il tema dei cambiamenti climatici è una questione scottan­te sui tavoli dei decisori politici che cercano, con diverse vi sioni, di raggiungere a Copenaghen un possibile nuovo ac­cordo climatico da attuare dopo il 2012, alla fine del pri­mo periodo individuato dal Protocollo di Kyoto.

 

 

Il problema scientifico dei cambiamenti climatici

Il 6 novembre scorso si è conclusa a Barcellona l’ultima serie di incontri (Barcellona Climate Change Talks 2009) nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC), che si è tenuta prima della Conferenza delle Parti (Conference of Parties 15, COP15), che avrà luogo a Copenaghen dal 7 al 18 dicembre.

Il tema dei cambiamenti climatici si sta imponendo sempre più pesantemente su tutti i tavoli dei decisori politici a livello nazionale e internazionale. I mutamenti climatici di origine antropogenica sono causati dalle emissioni di gas serra (come l’anidride carbonica, il metano, il protossido di azoto e altri gas), dalle emissioni di particelle di aerosol e dalle modificazioni dell’uso del territorio (ad esempio la deforestazione, che causa rilascio di CO2 e cambi nell’albedo).

Nel 1988 è stato istituito il Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC) con lo scopo non di svolgere ricerche ma di fornire ai decisori politici valutazioni sulla letteratura scientifica disponibile in ordine ai vari aspetti relativi ai cambiamenti climatici (osservazioni, proiezioni future, impatto prevedibile, adattamento, mitigazione), al fine di ampliare la comprensione del rischio del mutamento del clima causato dalle attività umane. L’IPCC pubblica vari rapporti, tra cui si citano qui, tra i più importanti, i Rapporti di valutazione, che hanno ricoperto, a partire dal primo, pubblicato nel 1990, fino all’ultimo, il “Fourth Assessment Report”, AR4, pubblicato nel 2007, un ruolo essenziale nell’attività di sensibilizzazione e informazione nelle sedi multilaterali di negoziazione sui cambiamenti climatici.

Sono ormai molteplici le osservazioni che dimostrano come il riscaldamento di origine antropogenica del clima registrato negli ultimi trenta-quaranta anni sia in atto.1 Ad esempio, le misure termometriche hanno evidenziato che la temperatura media superficiale globale è cresciuta di 0,74 °C negli ultimi cento anni (1906-2005). Il 2008 è stato l’ottavo anno più caldo, a livello globale, dal 1880 (secondo il National Oceanic and Atmospheric Administration, NOAA e il National Climatic Data Center, NCDC).2 Gli aumenti significativi di emissioni e di concentrazioni atmosferiche di gas a effetto serra (greenhouse gas, GHG) di origine antropogenica sono stati rilevati a partire dall’età industriale, vale a dire due secoli fa: attualmente, la concentrazione globale atmosferica di CO2 è di oltre 385 ppm.

Gli impatti del cambiamento climatico sono già particolarmente evidenti sull’ecosistema e varieranno a seconda delle aree del pianeta; complessivamente, essi potranno comportare costi netti annuali crescenti nel tempo, in parallelo con l’aumento della temperatura superficiale globale. Questa situazione comporterà una necessità di adattamento, per far fronte all’impatto negativo già registrato sul pianeta a causa delle emissioni degli anni passati.3 La comunità scientifica4 ha valutato che un aumento della temperatura fino a 2 °C (rispetto ai livelli pre-industriali) probabilmente permetterà azioni di adattamento per molti sistemi umani a costi economici, sociali e ambientali accettabili. Invece, con un aumento di temperatura superiore ai 2 °C, molte delle conseguenze potranno risultare quasi irreversibili e i costi di adattamento cresceranno vertiginosamente. L’Unione europea ritiene ormai da anni che l’obiettivo dei 2 °C sia una meta essenziale da raggiungere per la salute dell’intero pianeta; per questo motivo lo ha inserito a pieno titolo nella sua politica climatica (EU 2 °C Climate Target).

La complessità della sfida posta dal mutamento del clima è causata principalmente dall’inerzia connaturata al sistema: le emissioni di gas a effetto serra causano infatti concentrazioni atmosferiche che rimangono per molto tempo; anche se si riducessero sostanzialmente le emissioni, per ridurre le conseguenze del loro impatto sul clima ci vorrebbe comunque molto tempo. L’obiettivo pare dunque essere la stabilizzazione delle concentrazioni atmosferiche globali di questo tipo di emissioni; per fare ciò, è necessario che esse raggiungano un picco, per poi diminuire. Quindi gli sforzi di mitigazione delle emissioni nei prossimi due o tre decenni saranno fondamentali. Il traguardo dei 2 °C potrà essere raggiunto, infatti, solo stabilizzando la concentrazione atmosferica dei gas a effetto serra a circa 445-490 ppm CO2 equivalente. La scienza indica che saranno necessari sostanziali riduzioni di emissioni globali di questi gas (almeno il 50% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050) e ulteriori riduzioni oltre il 2050, al fine di poter raggiungere emissioni nulle alla fine del XXI secolo.5

Il 2 °C target potrebbe essere raggiunto con perdite del PIL non superiori al 2,5% entro il 2050 (riduzione della crescita annuale non oltre 0,05%/anno) ma, considerando i co-benefici in termini di riduzione di inquinamento dell’aria, i costi netti si ridurrebbero in maniera significativa. I costi delle misure di mitigazione del cambiamento climatico sono minori dei costi di adattamento dei futuri impatti causati dalla inazione.6

 

Il problema della governance climatica

La risposta politica internazionale ai cambiamenti climatici è iniziata con l’adozione, nel 1992, della Convenzione UNFCCC, ratificata, ad oggi, da 192 paesi. L’obiettivo dell’UNFCCC, espresso nell’articolo 2, è «la stabilizzazione delle concentrazioni globali atmosferiche dei GHG ad un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico».

L’UNFCCC identifica diversi gruppi di paesi: Parti allegato I (paesi industrializzati e paesi con economie in transizione, EIT); Parti allegato II (parti allegato I senza EIT); Parti non-allegato I (paesi in via di sviluppo, PVS e paesi OPEC).

La Convenzione non introduce obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni per le Parti, ma soltanto l’impegno generico per le Parti allegato I di riportare, individualmente o insieme, le emissioni antropogeniche dei gas a effetto serra, non controllati dal Protocollo di Montréal, ai livelli del 1990 e per le Parti allegato II di fornire assistenza tecnica e finanziaria ai paesi in via di sviluppo per interventi di mitigazione e adattamento (articoli 4.3, 4.4 e 4.5). Tutte le parti si impegnano a promuovere e a cooperare nello sviluppo, applicazione e diffusione di pratiche per ridurre o prevenire le emissioni antropogeniche di gas a effetto serra in tutti i settori rilevanti (ad esempio: energia, trasporti, industria, agricoltura, foreste) e a fornire al segretariato dell’UNFCCC informazioni sui propri programmi climatici nazionali nonché gli inventari delle emissioni di gas (articoli 4.1 e 12). Quindi, nonostante la Convenzione nella sua struttura fondante consideri i cambiamenti climatici come un problema globale, essa assegna «responsabilità comuni ma differenziate» ai paesi membri, e in particolare richiede che i paesi industrializzati diventino i leader nelle azioni di riduzione delle emissioni globali.

I principi guida della Convenzione sono in parte riflessi anche nel Protocollo di Kyoto, adottato nel 1997 e attivato nel 2005, che ora comprende 189 paesi. Il Protocollo contiene obiettivi legalmente vincolanti di riduzione di emissioni per i paesi industrializzati. Esso costituisce un primo passo per spingere la comunità internazionale ad attivarsi per il raggiungimento delle finalità della Convenzione (articolo 2): le Parti allegato I si impegnano a ridurre collettivamente le emissioni dei sei principali gas a effetto serra del 5,2% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-12 (primo periodo di impegno) con obiettivi differenti per i vari paesi. Le riduzioni di emissioni nazionali possono essere accompagnate da meccanismi flessibili che assistano i paesi sviluppati nel raggiungimento dei loro obiettivi. Il Protocollo, pur applicando i principi guida della Convenzione, ha richiesto parecchi anni di negoziati per raggiungere una forma definitiva che ha permesso a tutti i paesi sviluppati, eccetto gli Stati Uniti, di ratificarlo.

La Convenzione contiene nel suo testo (articolo 7.2a) la possibilità di valutare il proprio assetto istituzionale e di riesaminare periodicamente gli obblighi delle Parti. Il Protocollo (articolo 3.9) richiede che la COP riesamini periodicamente il testo e prenda in considerazione gli impegni delle Parti allegato I per il periodo post 2012.

Nel corso della Conference of Parties 11 (COP11) e COP/MOP1 a Montréal (Canada) nel dicembre 2005 si è deciso di prendere in considera zione fino alla COP13 del 2007 la questione delle azioni future che le Parti devono intraprendere (Convention Dialogue) e, istituendo un nuovo organo di negoziazione del Protocollo (Ad Hoc Working Group on Further Commitments for Annex I Parties under the Kyoto Protocol, AWG-KP), di discutere i possibili futuri impegni delle Parti allegato I.

Alla COP13 e COP/MOP3 a Bali (Indonesia) si è adottato il BAP (Bali Action Plan) che ha istituito un nuovo organo di negoziazione della Convenzione, AWG-LCA (Ad Hoc Working Group on Longterm Cooperative Action), al fine di trovare un consenso su quali azioni nel lungo termine (oltre il 2012) debbano essere intraprese da tutti i paesi per raggiungere l’obiettivo della Convenzione. La missione dell’AWG-LCA è di raggiungere un consenso su una «visione comune per azioni a lungo termine», concentrandosi su quattro elementi chiave (mitigazione, adattamento, finanziamento e tecnologia). A Bali ci si è accordati anche su un processo di due anni, il Bali Roadmap, per raggiungere questa possibile visione comune. Le conclusioni dell’AWG-KP di Bali hanno citato espressamente i risultati del WGIII-AR4 del Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici, che indicano che le emissioni globali di gas a effetto serra dovranno raggiungere un picco nei prossimi dieci-quindici anni e poi essere ridotte drasticamente, ben al di sotto del 50% dei livelli del 2000, entro il 2050, al fine di stabilizzare le concentrazioni atmosferiche ad un livello inferiore ai 500 ppm di CO2 equivalente. Questo implica che le emissioni dei paesi sviluppati, collettivamente, dovranno ridursi entro il 2020 del 25-40% rispetto ai livelli del 1990. Le principali posizioni negoziali che si sono delineate a Bali hanno visto l’Unione europea sostenere in modo convinto la necessità di stringere un accordo post Kyoto che unisca i due percorsi delineati a Bali (il futuro della Convenzione e il futuro del Protocollo); gli Stati Uniti hanno invece ribadito il diniego alla partecipazione a protocolli o altri accordi internazionali che introducano obblighi di riduzione di emissioni per i paesi industrializzati, senza la partecipazione dei principali paesi in via di sviluppo a economie emergenti (come Cina, India, Brasile e Messico); India e paesi OPEC hanno espresso il rifiuto di ulteriori nuovi impegni per i paesi in via di sviluppo; la Cina e il Sudafrica non condividono nessun impegno di riduzione delle emissioni per i paesi in via di sviluppo senza un rafforzamento del capacity building e del trasferimento di tecnologia; infine, i paesi meno sviluppati e le piccole isole hanno ribadito la necessità che i paesi industrializzati mantengano i propri impegni per il sostegno ai programmi di adattamento dei paesi più poveri e vulnerabili.

 

I possibili futuri scenari energetici

Il consumo mondiale annuale di energia alla fine del 2009 dovrebbe subire una forte riduzione a causa della crisi mondiale dell’economia e della finanza, la prima a partire dal 1981. La recessione economica degli ultimi due anni ha ridotto drasticamente le emissioni globali di gas a effetto serra, creando una condizione idonea per trasformare il settore energetico dei vari paesi industrializzati. Questi paesi, quindi, hanno a disposizione un periodo di tempo, forse non lungo, per concentrare gli investimenti su tecnologie a basse emissioni di CO2. Ciò sarà, purtroppo, inutile se non si raggiungerà a dicembre a Copenaghen un accordo attuativo con reali obiettivi di riduzione, perché si assisterà ad un nuovo aumento delle emissioni in coincidenza con la ripresa economica.7

Quale sarà il ruolo dei paesi in via di sviluppo nel prossimo futuro? Secondo lo Scenario di riferimento8 elaborato dalla International Energy Agency (IEA), nel periodo 2007-30 la domanda mondiale di energia primaria potrà crescere dell’1,5% annuo (un aumento totale pari al 40%) e in questa crescita i paesi in via di sviluppo dell’Asia rivestiranno un ruolo primario. Nello Scenario i combustibili fossili rimarranno la fonte principale di energia mondiale e causeranno oltre i tre quarti dell’aumento del consumo energetico globale. La crescita della domanda di petrolio potrà essere dell’1% annuo e riguarderà in particolar modo i paesi non-OCSE: tre quarti dell’impennata delle emissioni di CO2 nel settore energetico, al 2030, potrebbero provenire dalla Cina, dall’India e dal Medio Oriente.9 Questo Scenario descrive una crescita inesorabile della concentrazione atmosferica dei GHS, che potrà arrivare ad un livello superiore ai 1000 ppm di CO2 equivalente, causando un aumento della temperatura ben al di sopra dei 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali. L’IEA considera anche un altro scenario energetico globale, definito Scenario 450, che ha come obiettivo la stabilizzazione delle concentrazioni atmosferiche dei gas a effetto serra a 450 ppm di CO2 equivalente, cosa che permetterebbe di limitare l’aumento della temperatura a 2 °C con una probabilità del 50%. Secondo questo scenario, mediante azioni politico-economiche radicali e coordinate in varie regioni del pianeta, le emissioni globali di CO2 nel settore energetico potrebbero arrivare ad un picco di 30,9 miliardi di tonnellate poco prima del 2020 e poi ridursi fino a 26,4 miliardi di tonnellate nel 2030 (34% in meno rispetto al precedente Scenario di riferimento). Questo obiettivo di 450 ppm potrà essere raggiunto però solo se dopo il 2020 gli impegni di riduzione saranno estesi anche ai paesi in via di sviluppo con economie emergenti come Cina, India, Brasile, Sudafrica.10 È importante sottolineare che le politiche e le misure nazionali che in questo periodo sono allo studio del governo cinese potrebbero fornire circa 1 miliardo di tonnellate di riduzione al 2020 (circa il 25% della riduzione assunta nello Scenario 450), ponendo questa nazione in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici. Sempre secondo questo scenario, saranno necessari circa 10 migliaia di miliardi di dollari di investimenti addizionali nel settore energetico fino al 2030 per raggiungere l’obiettivo di 430 ppm e, in particolare, saranno necessari 197 miliardi di dollari nel 2020 per investimenti aggiuntivi nei paesi non-OCSE.

Quindi, un nuovo accordo globale di tipo attuativo richiederà l’impegno di tutti i paesi, oltre che ingenti risorse finanziarie, che dovranno essere fornite in parte dai paesi industrializzati. L’entità di questo sostegno finanziario, i meccanismi per attuarlo e i vari impegni per i diversi Stati sono l’oggetto di negoziazione in questi ultimi due anni.

 

Gli attuali scenari negoziali

Nell’ultimo anno il negoziato UNFCCC ha mostrato la sua grande complessità e si sono svolte varie sessioni dei due organi AWG-LCA e AWG-KP: a Bonn in marzo-aprile, in giugno e in agosto, a Bang - kok in settembre-ottobre e a Barcellona in novembre. Le questioni chiave per il raggiungimento di un nuovo accordo a Copenaghen sono: l’approccio one track o two tracks verso l’accordo; la forma legale dell’accordo; il tema della mitigazione per i paesi sviluppati e in via di sviluppo e la valutazione degli sforzi intrapresi; il finanziamento.

In generale, i paesi industrializzati sono favorevoli a un nuovo accordo unico internazionale, che includa anche gli aggiornamenti del Protocollo di Kyoto e che coinvolga gli Stati Uniti e i paesi in via di sviluppo ad economie emergenti negli sforzi di mitigazione; essi, dunque, intendono pervenire ad un solo documento a Copenhagen (one track). I paesi in via di sviluppo, invece, si oppongono a questa posizione e desiderano mantenere separati i due percorsi negoziali verso l’aggiornamento del Protocollo e verso un nuovo trattato (two tracks). Inoltre tali paesi considerano il Protocollo come un benchmark per le azioni dei paesi industrializzati e richiedono che siano proprio questi ultimi, a causa della loro responsabilità storica nelle emissioni accumulate, ad intraprendere gli obiettivi più ambiziosi di riduzione delle emissioni. Essi, in particolare la Cina e l’India, potranno dunque contribuire ad uno sforzo globale di riduzione solo se i paesi ricchi si impegneranno a sostenere finanziariamente le loro misure di mitigazione e adattamento e a raggiungere sia un obiettivo a lungo termine molto ambizioso (riduzione nell’ordine dell’80-95% rispetto al 1990 entro il 2050), sia un obiettivo ancora più ambizioso a medio termine (riduzione nell’ordine del 40-45% rispetto al 1990 entro il 2020).

L’Unione europea, ad esempio, è favorevole ad un accordo attuativo, che coinvolga tutti i paesi (con azioni di mitigazione per i paesi in via di sviluppo misurabili e verificabili) e che contenga un riferimento al 2 °C target e la sua relativa conversione in obiettivi di riduzione a medio e lungo termine: una riduzione delle emissioni globali del 50% rispetto al 1990 da raggiungere entro il 2050; una riduzione delle emissioni per i paesi sviluppati del 30% rispetto al 1990 da raggiungere al 2020; un impegno dei paesi in via di sviluppo all’obiettivo globale di mitigazione nel range 15-30% rispetto al loro scenario business-as-usual; risorse addizionali a sostegno delle azioni di mitigazione e adattamento per i paesi poveri.

Gli Stati Uniti, invece, appaiono finora più inclini ad un testo dell’accordo che includa impegni politici piuttosto che legali di riduzione delle emissioni.

Inoltre, la divergenza è molto ampia anche sulla entità dell’assistenza finanziaria ai paesi in via di sviluppo. Sicuramente le risorse finanziare da impegnare dovranno essere imponenti, come ha dimostrato nel caso dell’adattamento un nuovo studio della Banca mondiale,11 che ha stimato i costi nell’ordine di 75-100 miliardi di dollari all’anno nel periodo 2010-50.

Alla sessione di Barcellona di novembre tutti questi temi sono stati oggetto di accese trattative tra i diversi Stati ai due tavoli negoziali. Ad esempio, nell’AWG-LCA la discussione si è concentrata sull’aggiornamento e semplificazione di vari non-papers, contenenti le revisioni dei testi negoziali, elaborati prima di Barcellona. Mentre nell’AWG-KP la discussione si è svolta più a rilento e si è concentrata su quattro nuovi non-papers. Questa sessione di Barcellona ha ridotto in parte le divergenze tra i paesi in merito all’adattamento, alla cooperazione tecnologica, alla riduzione delle emissioni da deforestazione e da mutamento del territorio nei paesi in via di sviluppo e ai possibili meccanismi di finanziamento, ma non ha riportato progressi in merito all’entità di questo finanziamento e agli obiettivi a medio termine di riduzione dei paesi ricchi.12

Visti i risultati raggiunti finora, sarà sempre più arduo ottenere a Copenaghen un accordo attuativo post 2012. Probabilmente si giungerà soltanto a una dichiarazione di impegno politico generale tra tutti le Parti dell’UNFCCC, che si concretizzerà in un “pacchetto di decisioni della COP” contenenti i temi fondamentali della discussione, includendo anche la questione dei finanziamenti urgenti a breve termine (fast-start finance) per i paesi in via di sviluppo e le modalità per la continuazione della discussione in un’altra Conference of Parties 15, denominata COP15-bis, che forse avrà luogo nel giugno 2010.

 


 

[1] Si veda Climate Change 2007: The Physical Science Basis, Contribution of Working Group I to the Fourth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge 2007.

[2] Si veda il portale www.ncdc. noaa.gov.

[3] Summary for Policymakers, in Climate Change 2007: Impacts, Adaptation and Vulnerability, Contribution of Working Group II to the Fourth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge 2007.

[4] Cfr. Summary for Policymakers, in Climate Change 2007: Impacts, Adaptation and Vulnerability, Contribution of Working Group II, op. cit.; Summary for Policymakers, in Climate Change 2007: Mitigation, Contribution of Working Group III to the Fourth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge 2007; European Commission, Limiting global climate change to 2 degrees Celsius - The way ahead for 2020 and beyond, European Commission 2007; N. Stern, The Stern Review: The Economics of Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge 2006.

[5] Cfr. Summary for Policymakers, in Climate Change 2007: Mitigation, Contribution of Working Group III, op. cit.

[6] Stern, The Stern Review: The Economics of Climate Change, op. cit.

[7] Cfr. International Energy Agency (IEA), World Energy Outlook 2009.

[8] Lo Scenario di Riferimento del WEO 2009 dell’IEA fornisce una stima delle possibili evoluzioni dei mercati energetici globali nel periodo 2007-30 assumendo che i paesi non cambino le attuali politiche.

[9] Cfr. International Energy Agency (IEA), World Energy Outlook 2009.

[10] Ibid.

[11] Cfr. The World Bank, Economics of Adaptation to Climate Change, 2009.

[12] Cfr. Summary of the Barce - lona climate change talks: 2-6 November 2009, in “Earth Negotiations Bulletin”, 447/2009.