Cambiamento climatico: gli aut aut di Copenaghen

Di Enzo Di Giulio Giovedì 10 Dicembre 2009 18:26 Stampa

A oltre un decennio dal Protocollo di Kyoto le principali questioni relative al cambiamento climatico rimangono aper­te, a testimonianza della debolezza intrinseca dell’accordo del 1997. Prevedere l’esito della prossima Conferenza di Copenaghen sul clima è piuttosto arduo. Molto, in defini­tiva, sembra dipendere dalla possibilità che gli Stati Uniti siano disponibili alla sottoscrizione di un accordo legalmente te vincolante.

Aut aut è un’espressione che indica la necessità di una scelta tra due alternative inconciliabili. Ma è anche il titolo di una celebre opera di Kierkegaard. E per ironia della sorte, Copenaghen è non solo la città dove il grande filosofo danese nacque e operò, ma anche la sede della 15a Conferenza delle Parti sul clima (COP 15), evento da molti interpretato come uno snodo cruciale nella lotta al cambiamento climatico: un aut aut del pianeta. A ben guardare, molte sono le similitudini. In “Aut-aut” Kierkegaard pone la questione della scelta tra vita etica e vita estetica. Da una parte il matrimonio, dall’altra la libertà dello scapolo. Da una parte, un regime vincolato, sottomesso alla legge e al contratto, dall’altra uno stato di libertà incondizionata. Mutatis mutandis, a Copenaghen il mondo affronta una scelta analoga, tra due opposti poli: l’accordo, e dunque il vincolo a contenere le emissioni, contro l’assenza di obblighi. Il legame contro l’autonomia. L’aut aut è declinabile in più modi. Ad esempio: accordo tra tutti i paesi o solo, più probabilmente, tra paesi ricchi? Stati Uniti dentro l’accordo o fuori dall’accordo? Accordo legalmente vincolante del tipo Kyoto bis, oppure un nuovo protocollo non vincolante sul piano legale? Tetti fissi alle emissioni oppure flessibili? Tetti definiti attraverso algoritmi oppure esito di contrattazione? Stesso tetto per tutti i paesi ricchi oppure tetti ad hoc? Orizzonte temporale lungo o corto, 2020 o 2050? Verifiche intermedie dei piani di contenimento e delle mitigazioni, oppure verifica solo al termine del periodo di vincolo? Gli aut aut potrebbero crescere di numero se si considerassero gli aspetti tecnici: approccio settoriale al trasferimento di tecnologia attraverso i progetti, oppure approccio bottom-up? Banking delle quote di CO2 dal primo al secondo periodo di vincolo, oppure cancellazione delle stesse? Queste sono solo alcune delle domande che si potrebbero porre. È come se l’aut aut si disperdesse in innumerevoli rivoli, tutti originanti dalla stessa sorgente, il meta aut aut accordo-non accordo, matrimonio tra paesi-libertà di inquinare. Da notare: i mille aut aut si pongono oggi, nel 2009, a dodici anni di distanza dalla firma del Protocollo di Kyoto, del dicembre 1997. Tutto ciò testimonia la debolezza intrinseca dell’accordo di Kyoto. A distanza di oltre un decennio le principali questioni sono ancora aperte. Unfinished business, si era detto nel 1998 e poi nel 1999 e poi nel 2000. Si auspicava che le diverse COP – che di anno in anno, ai primi di dicembre, tentavano di far avanzare il negoziato – disincagliassero la barca del Protocollo dalle secche degli interessi contrapposti e che le questioni aperte – unfinished business, appunto – potessero chiudersi. Poi, nell’estate del 2001 c’era stata la COP 6bis di Bonn e nell’autunno dello stesso anno la COP 7 di Marrakech: lì era parso che, magicamente, la nave tornasse a navigare in mare aperto. O meglio, navigasse per la prima volta, essendo Kyoto, più che una crociera, il progetto di un viaggio. Molti nodi critici che la mano di nessun negoziatore, nei precedenti anni, era stato in grado di sciogliere sembravano slacciarsi. E infatti, sembrava esservi un’accelerazione: nel maggio 2002 l’Unione europea ratificava il Protocollo; nel novembre 2004, dopo anni di esitazioni, anche l’ondivaga Russia ratificava. Finalmente, si raggiungeva il limite fatidico del 55% delle emissioni da parte dei paesi soggetti a vincolo che rese possibile l’entrata in vigore del Protocollo, il 16 febbraio 2005. Era legge o, sarebbe meglio dire, era una specie di legge perché gli faceva difetto – allora come oggi – la sanzione in caso di non rispetto dell’accordo. Su questo punto si tornerà.

Qui, è importante sottolineare la rilevanza della dimensione temporale. Il Protocollo entra in vigore sette anni dopo la firma a Kyoto. Questo intervallo di tempo si somma ai cinque anni che trascorrono tra la Convenzione quadro sui Cambiamenti climatici, negoziata a Rio de Janeiro nel 1992, e Kyoto. Dodici anni per pervenire alla ratifica di un accordo che non risolve affatto il problema ma che, meramente, comincia ad affrontarlo. Se il raggiungimento del mitico obiettivo di contenimento dell’aumento della temperatura del pianeta entro i 2 °C è una maratona da correre, Kyoto non rappresenta nemmeno il primo chilometro, ma una semplice – seppur importante – operazione di riscaldamento dei muscoli. Dunque, la storia dimostra che il negoziato sul clima è caratterizzato da lentezza intrinseca. A essa concorrono, certo, gli interessi contrapposti e le differenti visioni dei paesi ma anche la gradualità dell’emergere del problema. Come mostrava il famoso documentario di Al Gore sul clima – “An inconvenient truth”, premiato con l’Oscar – se la temperatura dell’acqua nella pentola aumenta gradualmente, la rana non salta fuori e viene lessata; il contrario accade, invece, se la rana cade all’improvviso nell’acqua già bollente. In tal senso, l’evento drammatico – l’uragano Katrina che si abbatte su New Orleans – ha un impatto sulla psiche del policy maker mille volte superiore alle analisi approfondite di qualsiasi Assessment Report dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Ma il tempo caratterizza la questione del cambiamento climatico in almeno altri tre modi. In primo luogo, la dissonanza cognitiva del politico – la sua razionalità, secondo un’interpretazione benevola – che ha facilità a siglare accordi la cui scadenza è fissata nel lungo periodo mentre nel breve, timoroso di perdere il voto degli elettori, diviene preda dell’esitazione. Di qui l’inclinazione a programmi che fissano target di grande ambizione al 2050: ad esempio, la California e altri Stati americani hanno definito obiettivi di riduzione, al 2050, intorno all’80% rispetto alle emissioni del 1990, mentre il paese nel suo insieme non è stato in grado di impegnarsi a ridurre in 12 anni le emissioni del 7%, come richiesto da Kyoto, aumentandole al contrario di circa il 17%. Non decidendo nel breve periodo, il politico trasferisce alle generazioni future il costo ambientale del cambiamento climatico; decidendo nel breve periodo, salva le generazioni future ma trasferisce il costo economico del salvataggio sulle generazioni presenti. Di fronte alla scelta tra le due alternative, il politico tende a preferire la prima oppure, afferrato dal dilemma della scelta – la scelta genera angoscia, per citare ancora Kierkegaard – esita, prende tempo, evita di decidere: consegna se stesso alle dichiarazioni di principio. E le tante COP che dopo Kyoto si sono succedute, di anno in anno, rappresentano – a co-minciare dal cosiddetto BAP (Bali Action Plan) – una summa di dichiarazioni di principio. In secondo luogo, il tempo è rilevante perché i diversi paesi hanno tempi differenti, essendo su sentieri temporali di crescita diversi. I cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) sono su un tratto della traiettoria della crescita del tutto diverso da quello dei paesi industrializzati. E la stretta, seppur non indissolubile, relazione tra reddito pro capite ed emissioni pro capite fa sì che i punti di vista dei paesi siano spesso “ortogonali” rendendo arduo qualsiasi accordo: come indurre la Cina e l’India le cui emissioni pro capite sono pari a 4,3 e 1,1 tonnellate CO2 a contenere le proprie emissioni quando l’americano medio emette in un anno 19 tonnellate CO2 e i politici che lo hanno rappresentato da Kyoto in poi, da Clinton a Bush, non hanno avuto la forza e il coraggio di ratificare il Protocollo? Infine, il tempo conta perché siamo già in forte ritardo: la concentrazione attuale di CO2 eq. nell’atmosfera è pari a circa 430 ppm. Secondo il IV Assessment Report dell’IPCC, la stabilizzazione della concentrazione a 450 ppm implicherebbe il 40-60% di probabilità di conseguire l’obiettivo del +2 °C. Tale livello di concentrazione implica il raggiungimento del picco delle emissioni nella prossima decade e poi la loro riduzione in misura che diversi studi stimano nell’ordine del 25-30% al 2020 rispetto allo scenario cosiddetto business as usual, ossia tendenziale. Occorre pertanto agire subito e in modo vigoroso, e ciò purtroppo non è sufficiente a dare la certezza del risultato. Come ha mostrato un recente articolo di Carlo Carraro ed Emanuele Massetti apparso su “LaVoce.info” (www.lavoce.info), secondo il modello WITCH – uno degli esiti più felici della ricerca italiana sul clima – il raggiungimento di un obiettivo di contenimento della temperatura tra i 2,5-3 °C implicherebbe l’azzeramento delle emissioni dei paesi OCSE a partire dal 2030-35. Poiché questa non è una strada praticabile, non rimane altro da fare che attivare, oltre che politiche di mitigazione, politiche di adattamento che neutralizzino o contengano al massimo l’impatto negativo del cambiamento climatico.

Posta in risalto la dimensione temporale che così fortemente caratterizza la lotta al cambiamento climatico – una lotta che divora tempo, fatta contro il tempo, da parte di agenti che però hanno tempi diversi – è opportuno evidenziare alcune questioni che rivestono particolare importanza nel negoziato sul clima. Innanzitutto, il tema di quanto ridurre le emissioni e in che modo definire i target. A Kyoto essi furono stabiliti sulla base della negoziazione, cioè dei rapporti di forza e dell’abilità di contrattazione delle parti. È chiaro che questa impostazione non è più possibile. Occorre un criterio esplicito, trasparente e condiviso. Certo, esso sarebbe ancora una volta influenzato dalla dimensione politica – questo è inevitabile – ma essa sarebbe ben visibile, sintetizzata in un algoritmo o in qualche tipo di formula che rende esplicito l’implicito. Ad esempio, l’Unione europea ha elaborato l’ipotesi che i target siano definiti sulla base di quattro parametri, opportunamente combinati: reddito pro capite, emissioni per unità di PIL, crescita della popolazione, sforzo già fatto per ridurre le emissioni. Ora, si può non condividere questa ipotesi, oppure modificare e migliorare, ma è indubbio che essa ha il pregio di rendere visibili gli elementi da cui dipendono i tetti alle emissioni. In alternativa, qualora si volesse evitare lo scoglio tecnico, i paesi ricchi potrebbero accordarsi per un obiettivo comune di riduzione percentuale delle emissioni (ad esempio _30% al 2030). Ciò che va evitato in tutti i modi è la definizione di target differenziati sulla base di criteri non trasparenti: ciò alimenterebbe la recriminazione, il malumore e la tensione tra le parti, come ha dimostrato la storia delle negoziazioni dopo Kyoto.

Altro aspetto rilevante è l’estensione geografica del vincolo, ovvero la partecipazione o meno dei paesi in via di industrializzazione. È chiaro che scenari come quelli dell’IPCC che auspicano riduzioni drammatiche delle emissioni mondiali non possono essere realizzati senza il contributo dei paesi in via di industrializzazione. Qui, un primo dilemma che si pone è quello relativo alla conciliazione della dimensione assoluta con quella pro capite. La Cina ha ormai raggiunto gli Stati Uniti come principale emettitore di anidride carbonica, ma a livello pro capite le emissioni cinesi sono un quarto di quelle americane. Su questo aspetto cruciale della questione climatica, a New York, in una plenaria della recente conferenza di Point Carbon sul trading di carbonio, un alto funzionario cinese si è espresso più o meno con queste parole: «Noi vorremmo ridurre le emissioni, ma come possiamo far comprendere al popolo cinese che dobbiamo assumere un vincolo legale alle emissioni di carbonio quando un americano emette 4-5 volte più di un cinese? I cinesi ci risponderebbero che allora non è vero quello che dice la Costituzione americana, cioè che tutti gli esseri umani sono uguali». È indubbio che l’ironia mandarina sintetizzi un punto di vista difficilmente controvertibile. La conciliazione tra dimensione assoluta e dimensione pro capite è impresa ardua: da sempre, essa rappresenta una sorta di stretto di Scilla-Cariddi nel quale il veliero della sostenibilità – e con esso il pianeta – rischia di affondare. Né la risposta sta nel passaggio dalla visione backward, come direbbero gli anglosassoni, a quella forward. Secondo questo ragionamento, se è vero che applicando il principio delle responsabilità comuni ma differenziate al passato emerge la netta responsabilità dei paesi industrializzati, lo stesso non può dirsi del futuro. I trend dimostrano che la loro crescita è strepitosa: nei quindici anni tra il 1990 e il 2005, ad esempio, le emissioni cinesi sono raddoppiate. Secondo l’International Energy Agency (“World Energy Outlook 2009”), da oggi al 2030 la totalità della crescita delle emissioni proverrà dai paesi non OCSE. È così, certo, ma il problema della diversa entità delle emissioni pro capite rimane, se non intatto ancora robusto. E allora, come riconciliare le due dimensioni? Forse una soluzione esiste, e non è nemmeno difficile da intuire: anzi, essa è banale. Come direbbero i cinici, «esiste un prezzo per tutto». E nel caso del cambiamento climatico, si tratta letteralmente di un prezzo, ovvero di un finanziamento: miliardi di euro che fluiscono dal mondo ricco al mondo povero. Nell’interpretazione cinica, una sorta di scambio per indurlo – se non oggi, domani – a sottostare a vincoli stringenti. In quella meno smaliziata, una soluzione sia etica che economica, poiché minimizza i costi favorendo l’abbattimento delle emissioni laddove è meno oneroso, ovvero nei paesi poveri. L’etica che si coniuga all’economia, qualcosa in grado di accordare il primo Adam Smith – quello dei sentimenti morali – con il secondo, quello della mano invisibile: nel nome del padre, si direbbe... (dell’economia, s’intende). Al di là dell’umorismo, è certo che il tema del finanziamento a favore dei paesi in via di industrializzazione è questione sempre più dibattuta, segno che essa rappresenta – oggi più di ieri, va detto – un nodo critico del negoziato. La Commissione europea ha ipotizzato 100 miliardi di euro all’anno, dai paesi ricchi a quelli poveri, finalizzati alla lotta al cambiamento climatico: tra il 20 e il 50% di origine pubblica, il resto dal mercato del carbonio. Si trattadi cifre da capogiro, se si pensa alla difficoltà che hanno avuto i governi europei a reperire qualche miliardo di euro per finanziare misure contro la crisi economica, ovvero a loro stesso beneficio. Oppure se si pensa che gli 800-900 miliardi di dollari – dollari, non euro – stanziati dall’Amministrazione Obama per il rilancio dell’economia americana rappresentano, per essa, una una tantum secolare. D’altra parte, non bisogna scoraggiarsi: come non ricordare la stima fatta dal premio Nobel Joseph Stiglitz circa il costo della guerra in Iraq? Tremila miliardi di dollari. Certo, se si guarda a questo numero – tralasciando la questione enorme degli effetti nefasti in termini di vite umane e di proliferazione del terrorismo – torna il sorriso, e tutto diventa possibile. Tuttavia, non mancano i problemi tecnici: quale sarà l’effetto inflazionistico, soprattutto sui prezzi dei beni energetici? E l’impatto sulla competitività dei prodotti dei paesi industrializzati? E la possibilità di carbon leakage, ovvero di spostamento delle produzioni inquinanti in aree dove la regolamentazione ambientale è meno stringente? Un finanziamento al mondo povero, seppure finalizzato alla tutela del clima, non rappresenterebbe una forma di sussidio alle sue produzioni? Come si concilia questo con il libero scambio?

In chiusura, i temi rilevanti sono almeno quattro. Quello della compliance, ovvero delle regole per far rispettare l’accordo. Al momento, in caso di non rispetto dell’accordo di Kyoto, non esiste alcuna sanzione, se non un’ipotesi di inasprimento del target pari al 30% nel secondo commitment period, 2013- 17. È vero che siamo nel contesto del diritto internazionale e che, dunque, non esiste un’autorità sovranazionale che possa far rispettare gli accordi. Uno Stato, come dimostra la posizione statunitense, può sottrarsi all’accordo come vuole, e nulla accade. Tuttavia c’è da ritenere che soluzioni intermedie tra il controllo assoluto e il nulla esistano. Si possono congetturare procedure d’infrazione o multe che creino l’incentivo al rispetto dell’accordo. La regola vigente nello schema europeo di trading (ETS, Emission Trading System) può essere un buon riferimento: per ogni tonnellata di CO2 non abbattuta, al di là del cap ammesso, le imprese pagano una multa di 100 euro, oltre a essere obbligate a sanare l’eccesso di emissioni. Una procedura del genere, che ha dimostrato di funzionare, potrebbe essere concepita per gli Stati. Naturalmente, e questo conduce al secondo tema, la possibilità della sua attuazione è strettamente legata alla questione sempre più dibattuta denominata MRV (Monitoring, Reporting and Verification). In altre parole, affinché un accordo sul clima funzioni occorre che esistano procedure standardizzate di gestione dei registri delle emissioni e che le stesse siano adeguatamente misurate e certificate. Su questo terreno c’è ancora molto da fare. Come terzo tema non può non essere citata la questione denominata REDD (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation). Si tratta di un argomento di crescente importanza per almeno due ragioni: primo, le emissioni non sono generate solo dalla combustione dei fossili e, dunque, la gestione del territorio riveste una grande rilevanza; secondo, attraverso progetti di corretta gestione delle foreste si possono generare crediti di carbonio – offsets – che possono concorrere al perseguimento dei target mitigando le spinte al rialzo dei prezzi delle quote di emissioni, siano esse nazionali (AAUs, Assigned Amount Units) oppure legate a programmi specifici quali, ad esempio, l’ETS (EUAs, European Union Allowances). Infine, l’ultimo tema da citare concerne l’annosa questione dell’hot air, ovvero dei crediti di carbonio a disposizione di alcuni paesi – Russia e Ucraina, soprattutto – maturati non attraverso azioni virtuose di abbattimento quanto piuttosto a seguito della recessione economica. Si tratta di una massa ingente di crediti stimata, dagli esperti, intorno agli 8 miliardi di tonnellate CO2. Al momento, sono state oggetto di transazione solo 150 milioni. È chiaro che se si consentisse all’intero volume potenziale di crediti di riversarsi sul mercato nel post 2012, esso si indebolirebbe considerevolmente e gli operatori perderebbero l’incentivo a realizzare piani di abbattimento. D’altra parte, a ragione dell’opposizione dei paesi detentori, l’azzeramento di tali quote nel post 2012 non è obiettivo di facile realizzazione.

Per concludere: questo articolo viene scritto prima della Conferenza di Copenaghen, dunque fare una previsione circa l’esito della stessa è impresa temeraria. Secondo una corrente di pensiero, si va verso un accordo non legalmente vincolante perché esso renderebbe tutto più snello e più semplice, scavalcando l’ostacolo enorme della ratifica dei paesi. Chi scrive ritiene che un tale esito sia nocivo al bene del pianeta. Primo, un accordo non legalmente vincolante si è già avuto a Rio, nel 1992, e non è stato affatto rispettato. Secondo, si cita un solo dato: il mercato del carbonio mondiale ammonta oggi a circa 2,7 miliardi di tonnellate CO2: di tale volume, solo 61 milioni di tonnellate derivano da programmi volontari. Segno che la carota, da sola, non è sufficiente.

Secondo un’altra corrente di pensiero, il destino della COP è strettamente legato a quello del passaggio del Kerry-Boxer Bill al Senato americano. Se, dopo che la Camera dei rappresentanti ha approvato per soli sette voti il Waxman-Markey Bill sull’introduzione di un sistema cap and trade negli USA, l’omologo provvedimento legislativo passerà – prima di Copenaghen – al Senato americano, allora l’Amministrazione Obama avrà la forza per siglare un accordo legalmente vincolante. I paesi in via di industrializzazione verosimilmente ne sarebbero fuori, ma l’adesione USA sarebbe in ogni caso un grande successo. Se ciò non accadesse, Obama potrebbe voler non ripetere la strategia – ex post errata – dell’Amministrazione Clinton, che siglò il Protocollo di Kyoto ma non ebbe la forza di farlo ratificare in casa. La posizione manifestata congiuntamente dagli USA e dalla Cina al vertice APEC di Singapore – semplice accordo politico a Copenaghen come premessa di un accordo vincolante da realizzare in un secondo momento – mitigata due giorni dopo nell’incontro ufficiale tra le due nazioni a Pechino, fa ritenere che potrebbe essere così e che vi sono elevate probabilità di un’ennesima posticipazione. Siamo dunque di fronte ad un potenziale rinvio della questione al 2010: gli aut aut verrebbero consegnati alla COP 16. Si prospetta dunque un potenziale rinvio della questione al 2010. Se questo è il costo da pagare per avere un accordo più saldo, ben venga il ritardo: nella pentola, l’acqua può bollire ancora un po’ prima che la rana sia lessata.1




[1] Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rappresentano necessariamente quelle dell’azienda nella quale lavora.