Una nuova epoca energetica nella politica americana

Di John D. Podesta Giovedì 10 Dicembre 2009 17:25 Stampa

Se nell’ultimo decennio i rappresentanti politici della UE di ogni schieramento sembrano aver raggiunto un sostanzia­le accordo in materia climatica, un simile consenso non è stato ancora raggiunto negli USA. L’Ammistrazione Oba­ma, tuttavia, rappresenta una nuova opportunità per gli Stati Uniti di diventare una forza attiva negli sforzi globali per la salvaguardia del pianeta, soprattutto in vista del pros simo summit di Copenaghen.

Nuove evidenze scientifiche indicano che la comunità internazionale deve agire in fretta e in maniera decisiva se il mondo vuole scongiurare un catastrofico cambiamento climatico. In maggio, il Joint Program on the Science and Policy of Global Change (Programma congiunto sulla scienza e la politica del cambiamento globale) del Massachusetts Institute of Technology ha rilevato che le conseguenze del protrarsi dell’attuale traiettoria delle emissioni globali sono due volte più gravi di quanto i modelli climatici indicavano soltanto sei anni fa. Secondo il rapporto del 2007 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico), livelli di temperatura inferiori a quelli previsti dal MIT porteranno con ogni probabilità a una diminuzione della disponibilità idrica, all’intensificarsi dei fenomeni climatici estremi, a un peggioramento dei livelli di malnutrizione e a una maggiore diffusione delle malattie a livello globale. Se le emissioni mondiali continueranno ad aumentare alla stessa velocità e i livelli di temperatura raggiungeranno le previsioni del MIT, le conseguenze preconizzate dall’IPCC assumeranno dimensioni davvero catastrofiche che riguarderanno in particolare una netta diminuzione delle capacità alimentari mondiali e profondi cambiamenti negli ecosistemi globali.

Tenue motivo di speranza di fronte a tali scoperte drammatiche è il fatto che un’immediata azione politica potrebbe contenere l’aumento della temperatura entro i 2 °C: questo, secondo gli esperti, potrebbe scongiurare le peggiori conseguenze del cambiamento climatico. La parola chiave, però, è “immediato”. La traiettoria delle emissioni mondiali, sia in passato sia nel breve termine, ha già garantito l’innalzamento di 2 °C delle temperature globali entro la fine del secolo. Qualche mese fa, al summit G8 tenutosi a L’Aquila, i leader delle maggiori economie mondiali si sono impegnati a contenere il riscaldamento entro l’obiettivo dei 2 °C: ciò richiederà di abbattere del 50% le emissioni globali entro il 2050 e di compiere al summit UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) di Copenaghen reali progressi per costruire una cornice vincolante che permetta di raggiungere questi livelli entro la fine del 2009.

L’Unione europea è partita bene. Negli ultimi dieci anni, i rappresentanti dell’intero arco politico hanno raggiunto un ampio consenso sulla necessità di un’azione della UE per impedire la catastrofe climatica. I progressisti hanno spinto le loro controparti conservatrici ad accettare le evidenze scientifiche e le conseguenze del cambiamento climatico; entrambi gli schieramenti concordano poi sul fatto che il cambiamento climatico richieda una risposta coraggiosa, hanno visioni assai simili circa le modalità che tale risposta dovrebbe avere e sostengono un’intensa partecipazione ai negoziati internazionali. Questo consenso ha permesso all’Europa di istituire il maggior programma mondiale di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra, di compiere significativi passi avanti in ambito tecnologico e nella realizzazione di infrastrutture energetiche “pulite”, nonché di trarre vantaggio dalle notevoli opportunità per l’occupazione nel settore dell’energia pulita. La UE è stata anche una delle forze trainanti nei negoziati internazionali e ha proposto drastiche riduzioni delle emissioni nell’ambito di un accordo sul clima.

A differenza dell’Unione, gli Stati Uniti devono ancora raggiungere un consenso politico che superi la divisione progressisti/conservatori sul cambiamento climatico. L’ultima volta che è stata approvata una legislazione di vasta portata in materia ambientale (il Clean Air Act del 1990, che imponeva limiti agli inquinanti industriali e puntava a ridurre le piogge acide), questa ha goduto di un ampio sostegno bipartisan ed è stata promulgata dal presidente repubblicano George H. W. Bush. Da allora, tuttavia, tra la destra e la sinistra si sono sviluppate profonde divergenze non solo sul modo in cui il governo dovrebbe affrontare il problema delle emissioni di biossido di carbonio, ma addirittura sull’esistenza stessa del rischio del cambiamento climatico. Mentre la UE compiva notevoli passi in avanti verso la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e investiva in energia pulita, gli Stati Uniti, guidati dal presidente George W. Bush, non hanno intrapreso alcuna iniziativa per diminuire le proprie emissioni interne, né hanno partecipato in modo significativo ai negoziati climatici internazionali. Oggi, gli sforzi dei conservatori contro le politiche ambientali dei democratici superano di gran lunga il disaccordo sulle misure da adottare; l’unico obiettivo di molti rappresentanti conservatori di spicco sembra infatti quello di svilire e sviare l’agenda politica del presidente.

Fortunatamente, l’Amministrazione e i leader progressisti al Congresso, entrati in carica a seguito della grande vittoria elettorale del 2008, stanno avendo ragione dell’ostruzionismo conservatore teso a bloccare il programma che il presidente Obama è stato incaricato di attuare dagli elettori. Gli ampi margini di vittoria dei progressisti hanno segnalato un chiaro rifiuto delle politiche conservatrici messe in atto sotto la presidenza di George W. Bush, preannunciando una nuova epoca energetica nella politica americana. Con i democratici alla Casa Bianca, un accresciuto potere, in seno al Congresso, dei sostenitori di una politica decisa in materia di clima e grazie al sostegno di un’opinione pubblica americana desiderosa di progresso, gli Stati Uniti hanno nuovi strumenti per diventare un attore centrale nella lotta globale per il miglioramento del clima.

Subito dopo essere entrato in carica, il presidente Obama ha messo in atto una serie di nuove iniziative in materia di energia, che, insieme a sanità, istruzione e riforma fiscale, costituiva una delle quattro pietre angolari del suo programma elettorale. Meno di un mese dopo l’insediamento alla Casa Bianca, il presidente ha ratificato l’American Recovery and Reinvestment Act, definito dal “New York Times” «la più importante legge in materia energetica nella storia [americana]». Il pacchetto di incentivi da 787 miliardi di dollari comprendeva oltre 70 miliardi di finanziamenti e 20 miliardi di garanzie ai prestiti e incentivi fiscali per progetti nelle energie pulite, un investimento pari a 800 dollari per famiglia americana. Inoltre, il presidente si è cir condato di funzionari esperti e di consiglieri determinati a intraprendere azioni forti sul cambiamento climatico. Tra questi figurano il fisico premio Nobel Stephen Chu, con l’incarico di ministro dell’Energia; John Holdren, docente ad Harvard, in veste di consigliere scientifico del presidente; l’ex capo dell’Environmental Protection Agency (EPA, Agenzia per la protezione dell’ambiente), Carol Browner, come assistente presidenziale per l’energia e il cambiamento climatico; e, infine, Lisa Jackson, funzionario pubblico per l’ambiente di lunga data, alla guida dell’EPA.

A partire da gennaio e nell’arco di pochi mesi, l’esecutivo ha attuato importanti iniziative in materia di energia e ambiente che segnano progressi maggiori di quelli compiuti negli otto anni precedenti. A due settimane dall’insediamento, il presidente Obama ha chiesto al dipartimento dell’Energia di stabilire rigide regole di efficacia per un’ampia gamma di apparecchiature, che permetteranno un risparmio di 500 miliardi di dollari in costi energetici e dell’equivalente di due anni di emissioni di carbonio degli USA nei prossimi tre decenni. L’Amministrazione ha successivamente annullato una direttiva EPA risalente all’epoca Bush, che proibiva di tener conto delle emissioni di biossido di carbonio nelle autorizzazioni di nuovi impianti energetici e ha cancellato concessioni di perforazioni petrolifere su circa 60.000 ettari di terreno sotto tutela ambientale. In marzo, il presidente ha dato indicazione all’EPA e al dipartimento dei Trasporti di individuare nuovi severi standard di efficienza per il combustibile automobilistico e le emissioni dei tubi di scappamento, con un sostegno senza precedenti da parte sia dei dirigenti delle aziende automobilistiche sia dei difensori della causa ambientale. Questi nuovi obiettivi nazionali di efficienza dei combustibili comporteranno un risparmio di quasi due miliardi di barili di petrolio e una diminuzione delle emissioni di gas a effetto serra pari a 170 milioni di auto circolanti in meno.

L’atto più coraggioso compiuto dall’Amministrazione in materia di clima è rappresentato dalla decisione dell’EPA dello scorso aprile di classificare le emissioni di biossido di carbonio come minaccia alla salute pubblica, facendo riferimento al “rilevamento di pericolo” da CO2. La normativa sul CO2 conferisce all’Amministrazione il diritto giuridico di limitare le emissioni di biossido di carbonio e di altri gas a effetto serra, per mezzo di un programma regolatore che discende dagli statuti esistenti, senza necessità della collaborazione o dell’approvazione del Congresso. La decisione dell’EPA ha inviato un messaggio agli oppositori della legislazione sul clima: l’alternativa all’approvazione di una legislazione forte non è lo statu quo, bensì un regime di regolazione delle emissioni di CO2 provenienti dagli impianti energetici americani.

L’azione dei progressisti al Congresso riflette l’urgenza da parte dell’Amministrazione di procedere a una riforma globale. In giugno, la Camera dei rappresentanti ha approvato l’American Clean Energy and Security Act (ACES), che prevede, per la prima volta nella storia americana, un tetto per il riscaldamento globale. Il disegno di legge intende anche creare uno standard nazionale per l’energia rinnovabile, rendere obbligatori i requisiti di efficienza per immobili e apparecchiature e istituire un nuovo ente pubblico finanziatore a sostegno degli investimenti del settore privato nella tecnologia a energia pulita. L’ACES ha ottenuto un modesto sostegno bipartisan e rappresenta un punto culminante nei risultati conseguiti al Congresso dai progressisti a partire dall’insediamento del presidente Obama.

Ora, il Senato dovrà approvare la sua versione della riforma in materia di energia e clima prima che un testo di legge finale possa arrivare sulla scrivania del presidente ed essere convertito in legge. In ottobre, i senatori democratici Barbara Boxer e John Kerry hanno presentato un disegno di legge globale su energia e clima, il Clean Energy Jobs and American Power Act, che comprende un forte programma cap-and-trade (scambio di crediti o permessi di emissione di inquinanti). Sebbene la maggior parte dei conservatori si sia opposta al disegno di legge – compresi molti che in passato avevano espresso il proprio appoggio a un programma di questa natura – il senatore repubblicano Lindsey Graham ha pubblicamente rotto con il proprio partito per sostenere il senatore Kerry nella ricerca di un appoggio bipartisan alla legislazione. È probabile che questa partnership poco plausibile assuma un’importanza cruciale per ottenere l’approvazione del disegno di legge al Senato. Finora, molti osservatori giudicavano il percorso verso la necessaria maggioranza qualificata di 60 voti come un risultato improbabile, se non impossibile, ma oggi si sta delineando una strada verso l’approvazione finale.

Nonostante l’incerto calendario al Senato, il presidente Obama ha assunto con grande determinazione il ruolo di guida nel cammino verso un trattato internazionale vincolante sul clima. L’Amministrazione Obama ha utilizzato tutti gli strumenti diplomatici, non soltanto il forum UNFCCC, per elaborare una soluzione globale al problema del cambiamento climatico. Gli Stati Uniti hanno dedicato una significativa attenzione all’elaborazione di un accordo tra i principali paesi emettitori di gas a effetto serra per mezzo delle riunioni del G8, G20 e del Major Economies Forum (MEF). Attraverso questi canali, sono già stati compiuti importanti progressi; in occasione degli incontri al MEF, l’estate scorsa, i paesi sviluppati si sono accordati su un abbattimento delle emissioni dell’80% entro il 2050, e le nazioni in via di sviluppo hanno accettato che le proprie emissioni debbano «raggiungere il valore massimo il prima possibile (per ridursi successivamente) ». In occasione dei recenti incontri MEF di Londra, i partecipanti hanno raggiunto un «sostanziale accordo» sul fatto che i paesi in via di sviluppo necessiteranno di «fondi significativamente sempre maggiori» per poter ridurre le emissioni e adattarsi agli effetti del cambiamento climatico. Otto gruppi di lavoro in ambito MEF sono attualmente impegnati in colloqui su un altro tema che, insieme a quello dei fondi, è stato a lungo oggetto di disputa: lo sviluppo e la condivisione di tecnologie pulite. Queste ulteriori opportunità di discussione contribuiranno a raggiungere un miglior accordo internazionale di quanto, altrimenti, sarebbe probabilmente possibile. In particolare, gli Stati Uniti e la Cina, i due principali emettitori mondiali, si sono impegnati in frequenti e importanti incontri per discutere del clima. L’accresciuto impegno americano nei confronti della Cina non è da leggersi in opposizione al processo verso una convenzione quadro, ma piuttosto come una azione complementare. Il primo viaggio diplomatico del segretario di Stato Hillary Clinton è stato proprio in Cina, dove il cambiamento climatico è in cima all’agenda politica; in luglio, Stati Uniti e Cina hanno firmato un Memorandum of Understanding (MOU, Memorandum di intesa), nel corso degli incontri bilaterali del Dialogo economico-strategico, che ha avuto per focus il clima. Il MOU istituisce una piattaforma per la cooperazione tra i due paesi, e contemporaneamente avvia i primi passi verso il superamento di uno dei principali ostacoli all’accordo globale sul cambiamento climatico: la diversa accettazione, da parte dei paesi in via di sviluppo, del fatto che le riduzioni delle loro emissioni debbano essere «misurabili, riferibili e verificabili». La Cina ha anche spinto tali paesi a ritirare le paralizzanti richieste che i paesi sviluppati, e gli Stati Uniti in particolare, riducessero le emissioni del 40% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020. L’insistenza su tale punto stava ponendo indebitamente l’attenzione su obiettivi di medio termine, piuttosto che su un’azione che fosse possibile intraprendere nel breve termine, nel momento in cui i paesi sviluppati avevano già aderito a riduzioni scientificamente valide delle emissioni nel lungo periodo.

Progressi si stanno compiendo anche riguardo al modo in cui la comunità internazionale rende conto delle riduzioni delle emissioni. Attualmente, tali riduzioni sono misurate soltanto in termini di limiti massimi per tutta l’economia; politiche complementari, come le fonti energetiche rinnovabili o gli standard di efficienza, non sono incluse nei calcoli delle riduzioni di emissioni da proiezioni businessas- usual. Proposte ancora in discussione avanzate durante i negoziati UNFCCC, quali il programma australiano o il registry approach della Corea del Sud, consentirebbero una misurazione più accurata delle azioni di ogni paese. Prendendo gli Stati Uniti come esempio dell’impatto che questi provvedimenti aggiuntivi hanno sulla traiettoria delle emissioni, si può osservare come la legislazione approvata dalla Camera dei rappresentanti in giugno porterebbe a ridurre le emissioni al di fuori di un cap-and-trade nel 2020 di ulteriori 16 punti percentuali rispetto ai livelli del 1990. Analogamente, i paesi in via di sviluppo possono dimostrare le loro riduzioni di emissioni dal business-as-usual, che può essere derivato dai programmi nazionali in materia di energia rinnovabile ed efficienza attualmente in atto o in via di elaborazione, senza stabilire tetti rigidi per il momento presente. In base a questo sistema, sia i paesi sviluppati sia quelli in via di sviluppo saranno spinti a perseguire strategie climatiche finalizzate al raggiungimento della massima efficacia.

La cooperazione e gli impegni globali sono le sole vie per raggiungere lo scenario migliore in materia di clima. Sebbene chi considera il cambiamento climatico come la sfida del nostro tempo sperasse che fosse possibile raggiungere a Copenaghen un accordo vincolante, è necessario tener presente che vi sono ancora questioni complesse da risolvere. Alcune tendenze stanno delineandosi molto chiaramente: tra le maggiori economie e i principali emettitori, nessuno vuole apparire come un disfattista; vi è un’enorme pressione per la cooperazione internazionale finalizzata a trovare un terreno comune e stanno emergendo segnali indicativi del fatto che un accordo costruttivo sta per essere raggiunto. La comunità internazionale deve giungere al tavolo delle trattative con una consonanza di vedute senza precedenti per dedicarsi alla sfida climatica. E gli Stati Uniti potrebbero nuovamente giocare il ruolo di leader degli sforzi globali per raggiungere un accordo significativo sul clima a servizio del bene comune globale.