Il socialismo europeo e la globalizzazione. Le radici della crisi

Di Giuseppe Vacca Giovedì 10 Dicembre 2009 17:23 Stampa

Il contributo intende fornire un’analisi di lungo periodo del comportamento delle socialdemocrazie europee di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione a partire dagli anni Settanta del secolo passato. Il saggio indaga nel contempo le cause della crisi di consenso in cui le socialdemocrazie attualmente versano avanzando l’ipotesi che derivino da un deficit di iniziativa nella guida dell’unificazione politica dell’Europa.

La fine del sistema di Bretton Woods. Origini della “globalizzazione asimmetrica”

Per impostare il rapporto fra il socialismo europeo e la globalizzazione è opportuno chiarire preliminarmente due questioni. La prima è, per così dire, terminologica: chi scrive non crede si possano analizzare i comportamenti del socialismo europeo di fronte alla globalizzazione se prima non se ne determina storicamente il concetto. La seconda è strettamente intrecciata alla prima e riguarda la periodizzazione: di che periodo della storia mondiale si intende parlare? Sia l’esigenza di dare una definizione storica (non semplicemente economica) della globalizzazione, sia quella di indicarne la periodizzazione corrispondente escludono che l’analisi possa cominciare, come spesso accade, dal 1989 e consigliano di scegliere come punto di partenza la fine del sistema di Bretton Woods.

Nei termini più generali, la globalizzazione designa il processo di unificazione dell’economia mondiale e dovrebbe essere indicata, appunto, come “globalizzazione dell’economia mondiale”. Ma in questa accezione generalissima il concetto abbraccia un processo storico più che secolare che, sebbene interrotto o deviato nel trentennio 1915-45 – i tre decenni della deflagrazione del contrasto fra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica, sfociato nelle due guerre mondiali – tuttavia continuò a segnare il corso della storia mondiale. In altre parole, globalizzazione dell’economia mondiale è un concetto che storicamente designa un processo secolare in qualche modo inarrestabile, che ha inizio con l’unificazione vera e propria del mercato mondiale a fine Ottocento e, da allora, tende a realizzare la vocazione principale del modo di produzione capitalistico: il suo tendere “per natura” ad includere progressivamente nei rapporti di produzione che lo caratterizzano tutti i popoli e tutte le risorse materiali e intellettuali della terra.

È evidente che tale definizione non è la più opportuna in questa sede e che occorre specificare ulteriormente il concetto. Sebbene il termine globalizzazione sia ormai di uso corrente e venga impiegato per evocare i fenomeni più diversi, forse si può convenire che, quando si dice globalizzazione, ci si riferisce ad un processo che, cominciato agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, è caratterizzato dalla progressiva liberalizzazione della circolazione dei capitali, delle persone e delle merci ad una scala mai conosciuta prima, fino a divenire un fenomeno che da un ventennio ingloba davvero tutta l’economia mondiale, stringendola in vincoli di interdipendenza inusitati. Ma, se si vuole analizzare storicamente il fenomeno, è indispensabile comprenderne l’origine e individuarne gli attori. Solo con il passaggio a questa più precisa determinazione del processo ha senso il tema che ci si è proposti di analizzare. In altre parole, si scioglie l’asimmetria logica fra un concetto puramente economico qual è quello di globalizzazione genericamente intesa, e un attore squisitamente politico qual è il socialismo europeo, e si può provare a determinare con quali sfide quest’ultimo ha dovuto confrontarsi nel periodo considerato e quali risposte sia riuscito a dare.

Dei tre fattori economici della globalizzazione prima ricordati, il primo a conoscere una piena liberalizzazione fu il capitale finanziario. Com’è noto, il sistema di Bretton Woods era incentrato sulla convertibilità del dollaro e un regime di cambi fissi che configuravano una doppia regolazione: da un lato, una regolazione di mercato dell’economia mondiale, vigilata da istituzioni economiche sovranazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) e, dall’altro, una regolazione politica delle economie nazionali, affidata agli Stati. Grazie alla duplicità del dollaro – moneta nazionale e al tempo stesso unica moneta di riserva internazionale − le istituzioni economiche sovranazionali erano dominate dagli Stati Uniti. Ma il sistema di Bretton Woods rendeva compatibili gli interessi americani con la crescita delle principali economie capitalistiche alleate e concorrenti: quella europea, ruotante intorno al marco, e quella dell’Asia orientale, ruotante intorno allo yen. Quindi l’economia mondiale conobbe circa tre decenni di crescita ininterrotta, di cui i partner degli Stati Uniti si poterono giovare in modo prodigioso e inusuale.

Tuttavia, questo equilibrio cominciò a incrinarsi nella seconda metà degli anni Sessanta. Lo sviluppo del fordismo aveva favorito anche in America la crescita di un welfare sempre meno sostenibile per il “complesso militare industriale”, a cui gli investimenti pubblici erano prioritariamente destinati per finanziare il ruolo di “gendarme mondiale” svolto dagli Stati Uniti. D’altro canto, il peso della guerra del Vietnam favoriva i partner dell’economia americana, la Repubblica Federale Tedesca e il Giappone, che, non avendo spese militari rilevanti, ne insidiavano il primato persino nella produttività del sistema industriale. Inoltre, due decenni di sviluppo economico mondiale avevano favorito la crescita dei grandi gruppi multinazionali, sostenuti prevalentemente dalla potenza militare americana; e questo aveva grandemente accresciuto il ruolo del capitale finanziario, originando la necessità di creare maggiori opportunità di investimenti all’estero. L’insieme di questi fenomeni spingeva l’establishment americano a cercare nuove soluzioni per recuperare il vantaggio competitivo perduto.

Le vie esplorate furono sostanzialmente tre: mutamento del paradigma tecnologico, apertura di nuovi mercati, denuncia unilaterale della convertibilità del dollaro e del regime di cambi fissi. Il microchip era una invenzione dell’industria bellica americana risalente agli anni della seconda guerra mondiale. Verso la fine degli anni Sessanta gli Stati Uniti decisero di immetterlo massicciamente nella produzione industriale. Cambiare il paradigma tecnologico, programmando il passaggio all’economia dell’informazione, aveva diversi vantaggi: innanzitutto, avviava un mutamento della composizione demografica che, con lo sviluppo dell’industrialismo meccanico e del fordismo, vedeva progressivamente accrescersi il peso del lavoro salariato consentendo ai lavoratori dipendenti di conquistare un sistema di welfare State anche negli Stati Uniti (la Great Society della presidenza Johnson). Quindi il passaggio all’“ economia dell’informazione” favorì la “frantumazione” del lavoro e la crisi del blocco newdealista, verificatasi pochi anni dopo. Inoltre, lo sviluppo dell’economia dell’informazione spostava la competizione con la Germania e il Giappone sulla frontiera delle “nuove tecnologie” e creava l’aspettativa di un efficace recupero di competitività. Tutto ciò spingeva alla ricerca di nuovi mercati che favorissero e orientassero gli investimenti delle multinazionali all’estero. Anche per allentare il vincolo della competizione europea e giapponese, l’amministrazione Nixon, ispirata da Henry Kissinger, procedette al riconoscimento della Cina popolare e ad un riorientamento strategico degli interessi americani verso l’area del Pacifico, creando nuove opportunità per la delocalizzazione della finanza e dell’industria statunitensi nel Sud-Est asiatico. La dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro e la fine del regime di cambi fissi furono il coronamento delle scelte suddette: in sostanza si privatizzavano le decisioni sul flusso mondiale dei capitali (industriale e finanziario, sempre più intrecciati) per favorire e accelerare la realizzazione degli obiettivi strategici precedentemente citati. D’altro canto, grazie alla supremazia economica e militare degli Stati Uniti, il dollaro restava l’unica moneta di riserva globale. Ma nel nuovo contesto mondiale il suo “signoraggio” si esercitava per colpire e non per favorire le economie concorrenti. Se dunque si volesse fornire una definizione storica del processo che così si era avviato, piuttosto che parlare genericamente di “globalizzazione”, forse sarebbe più opportuno adottare la nozione di “conflitto economico mondiale”, proposta da Riccardo Parboni fin dai primi anni Ottanta. Infatti, dopo la fine del sistema di Bretton Woods, il signoraggio del dollaro cominciò ad esplicarsi attraverso la manovra unilaterale del tasso di cambio che, con svalutazioni o apprezzamenti sapientemente alternati, cercò di favorire il recupero di competitività dell’economia americana nei confronti di quelle tedesca e giapponese.

 

Sullo scacchiere del Vecchio continente

Per inserire l’Europa in questo contesto occorre fare un passo indietro e tornare agli anni Set tanta. La fine del sistema di Bretton Woods creò seri problemi alle economie europee. La svalutazione del dollaro scatenò una crescita inaspettata del prezzo del petrolio: essendo rimasto il dollaro l’unica moneta di riserva, tale situazione indusse le oligarchie dei paesi produttori a tesaurizzare la massa dei dollari così accumulati (i “petrodollari”) e a investirli in buoni del Tesoro americani, finanziando l’indebitamento estero degli Stati Uniti. Per converso, l’aumento del prezzo del petrolio colpiva le economie europee – economie di trasformazione dipendenti soprattutto dal greggio – e ne fiaccava la produttività. Si creava così un fenomeno economico-finanziario nuovo, la stagflation – un mix di stagnazione e inflazione internazionale – che fece esplodere l’inflazione in tutta Europa mentre l’enorme massa di petrodollari fluttuanti sul mercato mondiale esaltava il ruolo del capitale finanziario e della speculazione.

Grazie alla dimensione del loro mercato interno e all’autonomia energetica, gli Stati Uniti si potevano ritenere al riparo dalla stagflation: attraverso il signoraggio del dollaro, gli USA finanziavano gli investimenti nelle nuove tecnologie, accelerando la creazione di un’economia dell’informazione con cui i vecchi partner, a breve, non avrebbero potuto competere. Nel contempo questo consentiva loro di ammodernare e potenziare l’industria bellica. Quella che fu chiamata “la sfida americana” colpì il processo d’integrazione europea e creò un’asimmetria inedita fra gli Stati Uniti e la Comunità economica europea (CEE), tanto che, proprio nel 1973 – l’anno della fine dei cambi fissi – gli europei stessi cercarono di correre ai ripari progettando la creazione di una moneta unica (l’euro, che dopo un percorso a tappe, sarebbe diventata la moneta dell’Unione europea solo a partire dal 1° gennaio 2002), che difendesse i paesi che vi avessero aderito dall’unilateralismo del dollaro. Ma il livello d’integrazione delle economie europee non era ancora tale da sostenere la creazione di una moneta unica, e soprattutto non consentiva ai loro governi di resistere alle pressioni americane volte ad impedirlo. Nonostante queste difficoltà, per porre rimedio alla stagflation gli europei riuscirono a creare, nel 1979, un Sistema monetario comune (SME) che, gravitando intorno al marco, faceva da scudo alle singole economie, favorendone l’integrazione. Nel decennio successivo gli Stati Uniti passarono ad una politica di forte apprezzamento del dollaro per at trarre investimenti dalle altre economie avanzate, a sostegno della modernizzazione post industriale della loro economia, rendendo in qualche misura ancora più acuta l’asimmetria fra gli USA e la CEE. Diveniva sempre più chiaro che l’integrazione europea non poteva procedere solo sul terreno economico; era, infatti, indispensabile puntare a un altro traguardo ambizioso: la creazione di una unione politica. Per questa via si giunse così all’approvazione dell’Atto unico (1986), con il quale quell’obiettivo veniva chiaramente formulato. Quando, nel 1989, la divisione fra l’Europa occidentale e orientale venne meno, l’Unione europea fu in grado di varare il suo più ambizioso progetto di unificazione economica e politica, attraverso il Trattato di Maastricht (1991). Il cuore del trattato era costituito dalla creazione dell’euro, della BCE (Banca centrale europea), dall’obiettivo della realizzazione di una unione politica e dall’impegno all’“allargamento” progressivo degli Stati membri per favorire il processo di riconversione dei paesi socialisti all’economia di mercato, al fine di consentirne l’ingresso graduale nell’Unione europea.

Con la fine del bipolarismo e il prevalere della regolazione di mercato dell’economia mondiale, l’integrazione europea ha assunto i connotati di esperienza esemplare di regionalizzazione economica e di modello per altri processi d’integrazione sovrannazionale che maturavano da tempo, come quello dei paesi del Cono Sur.

Per avvicinarci al tema centrale di questo scritto, conviene qui ricordare anche un ultimo aspetto del processo europeo: il varo, nel 1995, del partenariato euromediterraneo (definito il “processo di Barcellona”), finalizzato alla creazione, inizialmente prevista entro il 2010, di una zona di libero scambio comprendente l’Unione europea (nel 1995 composta da 15 Stati, a cui si sono aggiunti, nel 2004, Malta e Cipro e altri 8 Stati dell’Europa dell’Est) e tutti i paesi del Maghreb e del Medio Oriente che si affacciano su quel mare. Malgrado un suo iniziale declassamento, cui ha tuttavia fatto seguito, nel 2008, un’ulteriore fase di rilancio − con la creazione dell’Unione per il Mediterraneo nel luglio di quello stesso anno −, il progetto Euromed va segnalato perché mette in evidenza alcuni aspetti della politica mondiale degli anni Novanta, sui quali è bene richiamare l’attenzione. Sia l’implementazione del Trattato di Maastricht, sia il progetto Euromed, furono, infatti, favoriti dalla presidenza Clinton che si caratterizzava per una accorta combinazione di unilateralismo economico e multilateralismo politico. Clinton aveva ereditato da Bush padre una grave crisi economica e una politica estera priva di caratteri definiti. Con una politica di apprezzamento del dollaro, l’allora presidente Clinton rilanciò l’economia americana attirando cospicui investimenti, soprattutto tedeschi, nella new economy. Questo non favorì l’integrazione economica europea, peraltro ostacolata dall’enorme sforzo della Repubblica Federale Tedesca di modernizzare i Länder della ex Repubblica Democratica Tedesca incorporati al momento dell’unificazione. Con una politica di apprezzamento del marco, l’allora cancelliere Helmut Kohl fece pagare in parte ai partner europei i costi dell’unificazione tedesca (1990), imponendo loro politiche economiche severamente deflattive. Tuttavia, a livello politico l’integrazione europea era ben vista dall’Amministrazione Clinton, che quindi favorì una partnership euroatlantica al fine di sviluppare le basi di un multilateratismo incentrato sull’asse Stati Uniti-Unione europea. La promozione americana del processo di pace israelo-palestinese creò successivamente il presupposto di una proiezione mediterranea dell’Unione, che si concretizzò appunto nell’elaborazione del progetto Euromed. Innegabile, agli occhi di tutti gli analisti, il carattere ambizioso della strategia comune per il Mediterraneo, a partire dalla prospettiva che si andava implicitamente delineando di una graduale trasformazione di questa regione, con il progredire della globalizzazione, nell’epicentro del commercio internazionale. Obiettivo, questo, appetibile sia per gli Stati Uniti sia per l’Unione europea, entrambi interessati alla possibilità di risolvere due dei problemi cruciali della politica mondiale: il conflitto israelo-palestinese, con la garanzia della sicurezza di Israele, a cui si prospettava l’associazione all’Unione, e l’integrazione orizzontale delle economie nordafricane, che ne avrebbe favorito il decollo, a sua volta sostenuto dalla stessa UE.

 

Le risposte del socialismo europeo

Le più importanti socialdemocrazie europee risposero alle sfide degli anni Settanta con un significativo mutamento di paradigma. Forze eminente mente nazionali, in quanto avevano trovato nella regolazione politico-statuale la leva della loro affermazione e la fonte del loro più rilevante successo – la promozione del welfare State − le socialdemocrazie si erano mostrate quasi tutte euroscettiche ed erano rimaste ai margini dell’integrazione europea, quando non l’avevano avversata. Dalla fine del sistema di Bretton Woods e dalla percezione che le nuove dinamiche della competizione internazionale avrebbero ridotto drasticamente la relativa autonomia degli Stati nazionali, furono indotte a optare per l’integrazione europea: solo nella dimensione sovranazionale europea poteva, infatti, essere difeso e rielaborato il “compromesso” sociale su cui poggiavano le loro conquiste. La più grande delle socialdemocrazie aveva già maturato una sua politica estera di rilievo: ci si riferisce alla Ostpolitik − la politica adottata dal cancelliere Willy Brandt per la distensione dei rapporti con la Repubblica Democratica Tedesca, attuata a partire dagli anni Settanta − e al “Rapporto Brandt” del 1980. Nel 1975, con un importante carteggio fra il tedesco Brandt, l’austriaco Bruno Kreisky e lo svedese Olof Palme, i rispettivi partiti prendevano atto della impossibilità di proseguire la propria missione limitandosi ai confini nazionali e fondavano l’eurosocialismo. Nello stesso periodo si completava l’opzione europeistica del PCI che però, non volendo o non potendosi inserire nel campo della socialdemocrazia, sviluppava la propria iniziativa internazionale soprattutto in direzione dei paesi “non allineati” e consolidava i legami con la Jugoslavia e la Cina in funzione critica del bipolarismo sovietico. In Francia, François Mitterrand cambiava la storia della sinistra e poneva le premesse del ruolo di guida dell’integrazione europea che avrebbe esercitato da presidente socialista, insieme a Kohl, nel decennio successivo.

Negli anni Ottanta la “rivoluzione neoconservatrice”, che aveva il suo centro d’irradiazione nella presidenza Reagan, prese il sopravvento anche in Europa. Il conflitto economico mondiale accelerava la crisi fiscale dello Stato. Il mutamento della composizione demografica erodeva le basi della regolazione fordista. Tutto questo generò una crisi del consenso riformista a cui le socialdemocrazie – prima fra tutte l’SPD, il partito socialdemocratico tedesco – reagirono portando più a fondo la ricerca sulla “fine delle economie nazionali” e sui lineamenti di un nuovo welfare, vale a dire il “welfare delle opportunità”, iscritto nel processo di integrazione europea. Malgrado lo spiazzamento provocato dall’unificazione tedesca, a cui l’SPD si oppose in nome di un discorso poco chiaro sui costi sociali dell’operazione, e malgrado l’opposizione di Mitterrand e della Thatcher, l’unificazione della Germania – culla dell’economia sociale di mercato e cuore del modello sociale europeo − e la nuova realtà dell’Europa post 1989 favorirono, contro ogni previsione, la rinascita del consenso riformista.

I coribanti dei media occidentali e folte schiere di nuovi ideologues, conquistati dalla rivoluzione neoconservatrice, inneggiavano alla vittoria finale del capitalismo e del mercato, e cantavano il de profundis del socialismo. Invece, grazie al processo di revisione avviato nel decennio precedente, il socialismo europeo fu in grado di ricostruire un ampio consenso. Nel 1991 veniva fondato il PSE (il Partito del Socialismo Europeo), polo d’attrazione anche per i partiti socialisti che nascevano nei paesi dell’Est dalle ceneri dei partiti comunisti estromessi dal potere. Ma, soprattutto in Europa, cresceva il consenso al Trattato di Maastricht, e la severità delle politiche di convergenza intensificate in tutti i paesi dell’Unione per rispettare i suoi parametri rilanciava le culture socialdemocratiche che prospettavano combinazioni più credibili di competizione economica e coesione sociale. Inoltre, va messa in rilievo la capacità di quei partiti di diffondere la consapevolezza che, dopo Maastricht, sarebbero cambiati i criteri di raggruppamento delle forze politiche a livello nazionale e la discriminante fondamentale fra loro sarebbe stata la posizione circa l’unificazione europea, pro o contro. Nel processo descritto, l’eurosocialismo propugnava un nesso nazionale-internazionale virtuoso e rassicurante. In Italia un percorso analogo caratterizzò l’esperienza dell’Ulivo. Accadde così che, alla scadenza più impegnativa del Trattato di Maastricht, coincidente con la creazione della moneta unica, l’Unione europea giungesse con tredici paesi governati da partiti socialdemocratici o da coalizioni di centrosinistra, dei quindici all’epoca appartenenti alla sua compagine.

Subito dopo il varo dell’euro e la creazione della Banca centrale europea, tuttavia, lo scenario mutò bruscamente. Il rispetto dei parametri di Maastricht aveva costretto i paesi europei a politiche severamente deflattive e il polmone tedesco, stremato dai costi dell’unificazione, non dava respiro alle loro economie sempre più interdipendenti fra loro ma stagnanti. D’altro canto, i governi riformisti, che avrebbero potuto concertare tra loro politiche di reflazione della domanda, non lo fecero. Il piano di stabilità e crescita, che accompagnava la nascita della moneta unica, fu interpretato alla stessa maniera con cui avrebbe potuto farlo la destra liberista: severità della Commissione europea nell’assicurare stabilità ma nessuna iniziativa seria per rilanciare la crescita. Certamente, l’euro era appena nato e il dollaro era forte. Ma i governi socialdemocratici lasciavano alla sola BCE il governo dell’economia, e la BCE, come qualunque banca centrale, si preoccupava principalmente della stabilità della moneta e di combattere i rischi dell’inflazione, non certo della crescita. Inoltre, il Trattato di Maastricht prevedeva il progressivo allargamento della UE ai paesi dell’Est. La loro integrazione avrebbe imposto severe politiche di convergenza mentre, parallelamente, l’Unione si attendeva un rilancio della crescita già dal loro semplice ingresso, poiché quei paesi si sarebbero sviluppati con ritmo molto più accelerato delle economie europee più mature. Infine, la BCE disponeva di una massa enorme di riserve, conferite dalle banche centrali dei paesi allora aderenti all’euro. Si poteva impiegarle per accelerare la costruzione delle reti europee previste dal “Libro bianco” di Jacques Delors e rilanciare così la crescita, approfondendo l’integrazione infrastrutturale. Ma neppure questo venne fatto. Anzi, i governi socialisti della UE, in attesa che l’euro si radicasse, decisero una rinazionalizzazione delle politiche economiche. Fu un errore fatale, che in dieci anni avrebbe portato alla crisi più grave che il riformismo europeo abbia conosciuto nel dopoguerra.

 

Un nuovo “4 agosto“?

Il decennio successivo dell’integrazione europea può dirsi caratterizzato da una sequela di “occasioni mancate”. La convergenza dei sistemi fiscali e dei sistemi di welfare, indispensabile a disciplinare le asimmetrie fra le economie più forti e le più deboli e a stimolare la crescita quanto meno dell’area euro, non è mai stata posta in agenda. La dipendenza energetica, che riguarda tutti i paesi della UE, è stata affrontata da ciascun membro in ordine sparso. L’allargamento ha finito, soprattutto all’inizio, per volgere la proiezione dell’Unione verso i paesi dell’Est, declassando il “processo di Barcellona” e bloccando la proiezione mediterranea del Vecchio continente. Il riorientamento verso l’“economia della conoscenza”, prospettato nel 2000 a Lisbona con un programma che in dieci anni avrebbe dovuto fare della UE l’economia più competitiva del mondo, è stato lasciato alle decisioni e alle capacità dei singoli governi nazionali. La costruzione delle reti ha proceduto molto a rilento. In conclusione, non sono state costruite le istituzioni di un’economia europea compiutamente integrata, né è stata creata, allora e tutt’oggi, una unità di comando. È avvenuto così che, mentre il decollo dell’euro lanciava una sfida inedita al dollaro, l’Unione non fosse in grado di affiancare gli Stati Uniti come secondo motore dell’economia mondiale. Quando, nel 2000, esplose la bolla speculativa della new economy e negli Usa la crescita si fermò, l’Unione europea non era in grado di supplire all’arresto della “locomotiva” americana. Tutto ciò contribuì in maniera rilevante alla vittoria di George W. Bush. Inoltre, l’ingresso della Cina nel WTO e le sue straordinarie performances rafforzavano il legame fra il dollaro e lo yuan, sfociando in quella che è stata chiamata la “nuova Bretton Woods” asiatica: una stabilizzazione del cambio concertata fra le due monete che ha premesso alla Cina, con uno yuan debole, di invadere con le sue merci a basso costo il mercato americano e tesaurizzare una massa spropositata di dollari che vengono impiegati prevalentemente per sostenere il doppio deficit – commerciale e finanziario – degli Stati Uniti. Nel contempo, le enormi iniezioni di denaro facile praticate dalle Fed hanno esasperato la speculazione, aggravando la crisi di regolazione dell’economia americana, caduta in recessione nel 2007 per l’esplosione della “bolla immobiliare” e il fallimento delle invenzioni finanziarie più irresponsabili fiorite nell’ultimo decennio. In quello scenario l’Unione non ha levato alcuna voce e la minaccia di un euro sempre più forte ha accresciuto le asimmetrie con gli Stati Uniti, rincrudendo l’orientamento anti-europeo della presidenza Bush.

Ma le “occasioni mancate” non hanno riguardato solo l’economia; non meno gravi sono quelle che hanno interessato la politica. In primo luogo l’allargamento: si è proceduto verso la UE a 27 senza risolvere prima i problemi di governance che l’allargamento poneva. Ma, ancora più grave, alla creazione dell’euro non è seguita la costruzione delle istituzioni della politica estera e della difesa comune. I due problemi sono stati toccati timidamente solo a seguito della guerra del Kosovo, ma finora i risultati sono stati poca cosa. Strano modo di concepire la costruzione della sovranazionalità (sia pure di una Unione di Stati): è una evidenza storica che, dopo la moneta, viene la spada. Invece no: timorosa e divisa nell’affrontare il problema della propria autonomia politica e militare, dopo la creazione dell’euro l’Unione ha imboccato la strada del Trattato costituzionale, il cui cammino accidentato ha avuto come unico sbocco il Trattato di Lisbona del 2007, che ha ridimensionato le ambizioni del precedente testo. È difficile non pensare che tale via sia stata intrapresa per nascondere la debolezza politica manifestata in tema di sicurezza e difesa comune. Infatti, non è concepibile che si possa giungere al compimento della cittadinanza europea senza aver prima creato le fondamenta dell’unione politica. Verosimilmente, si è trattato di una scelta poco convinta, fatta per prendere tempo e agire sul terreno dei diritti, in modo da coprire le difficoltà esistenti nell’ambito della forza. Appare evidente che non c’è stata vera convinzione sul percorso intrapreso: come si fa a siglare un trattato costituzionale fra 27 governi e affidarne la sorte alla ratifica di referendum popolari fissati dall’uno o dall’altro paese in una data a sua scelta? Non è necessaria una intelligenza superiore per capire che in tal modo i cittadini chiamati ad esprimersi sulla Costituzione hanno usato il loro voto per giudicare la politica nazionale dei loro governanti, ignorando di fatto le ragioni fondative alla base del progetto di Costituzione. Così infatti è stato: prima in Francia e in Olanda sul Trattato di Roma, poi in Irlanda sul Trattato di Lisbona (il cui processo di ratifica si è concluso solo nell’ottobre 2009). In questa sede, tali esempi meritano di essere citati solo a riprova delle evidenti divisioni e della mancanza di visione comune delle élite europee dopo la creazione dell’euro, cui è seguita una crescita stentata che ha incrinato a diverse riprese il consenso europeistico e riaperto la strada alle destre euroscettiche. Ma, soprattutto, l’Europa ha mostrato un atteggiamento di debolezza di fronte all’aggressività della presidenza americana di George W. Bush − aggressività decisamente smussatasi dopo l’insediamento di Barack Obama nel gennaio 2009, come sottolineato simbolicamente dall’attribuzione del Nobel per la Pace nel 2009 – consentendo all’ex presidente americano di creare profonde divisioni tra i paesi europei attraverso il conflitto in Iraq (marzo 2003), imponendo in tal modo una battuta d’arresto alla costruzione politica dell’Unione. Non è questa la sede per analizzare la condotta della presidenza americana durante i mandati del periodo 2000-08, ma non è esagerato affermare che uno dei bersagli dell’unilateralismo esasperato della politica americana degli scorsi anni sia stata l’integrazione europea.

È opportuno soffermarsi brevemente, invece, sulla “dottrina Bush” (la teoria della guerra preventiva accompagnata al disconoscimento delle istituzioni sovranazionali). La linea della sua presidenza non si può considerare un esempio della tradizionale oscillazione fra unilateralismo e multilateralismo della politica estera degli Stati Unti. La “dottrina Bush” si è fondata, infatti, su una percezione dell’interesse nazionale in termini di “sicurezza totale”, che ha ricordato molto da vicino le concezioni prevalenti negli Stati totalitari degli anni Trenta del XX secolo. Qui non interessa esaminare le proiezioni e il seguito che tale dottrina ha avuto sullo scacchiere mondiale; ci si sofferma su tale questione per osservare che, in prospettiva storica, la “dottrina Bush” può essere letta solo come il segno di un aggravamento della crisi d’egemonia degli Stati Uniti e non come la dimostrazione di una loro presunta incomparabile potenza. Non era impossibile percepire per tempo questo punto d’approdo della destra americana; bastava aver seguito la traiettoria della “rivoluzione neoconservatrice” fin dagli anni Ottanta e, in modo ancora più evidente, i tentativi dei neoconservatori, già nei primi anni Novanta, di risuscitare l’immagine del nemico in termini di “scontro di civiltà”. Anche per questo la costruzione dell’Europa politica non doveva essere trattata sciattamente: dinanzi agli sviluppi sempre più impetuosi del multipolarismo, alla sequela degli shock da globalizzazione che si succedevano da un decennio (le crisi finanziarie delle cosiddette Tigri asiatiche, della Russia, del Messico e infine degli stessi Stati Uniti) e alla crisi sempre più evidente delle istituzioni economiche e politiche globali, ricostruire il centro di un nuovo sistema egemonico mondiale era (ed è) una priorità ineludibile. A questo fine, è una responsabilità preminente dell’Europa spingere l’integrazione fino al punto di rendere credibile una partnership euroatlantica come nuovo centro dell’economia e della politica mondiale.

Nel decennio della presidenza di G. W. Bush il condizionamento americano sul processo di unificazione europea si è fatto molto pesante. Per contro, il deficit d’iniziativa europea ha accresciuto la vocazione da “apprendista stregone” dell’ex presidente americano: il multipolarismo è esploso, mentre l’Occidente non è sembrato all’altezza delle sfide prospettate da un mondo sempre più policentrico e interdipendente, come dimostrato dalla situazione monetaria, che ha visto il dollaro indebolirsi in modo crescente. L’euro è già la seconda moneta di riserva internazionale, ma la UE non ha al momento una forza politica spendibile su scala globale. Non è difficile prevedere l’ascesa di nuove monete di riserva fra “regionali” e globali, in un contesto, oltretutto, in cui la deregulation della finanza mondiale ha mostrato in modo drammatico come la globalizzazione asimmetrica su cui si era fondata l’economia degli ultimi trent’anni sia giunta al capolinea. Non solo è prevedibile, ma anche auspicabile che si arrivi in un tempo ragionevole ad una regolazione monetaria dell’economia mondiale fondata su un paniere di più monete e concertata fra le maggiori potenze dell’economia globale. Ma non si vede ancora in che misura l’Unione sarà in grado di giocare un ruolo significativo in questa partita.

Per concludere, a fronte degli scenari sommariamente descritti, l’iniziativa politica nell’Unione europea sembra passare sempre più nelle mani del PPE (Partito Popolare Europeo), che appare intenzionato a rilanciarne l’unificazione cercando una base realistica di convergenza fra gli interessi europei e quelli americani. Per contro, il socialismo europeo manifesta uno straordinario deficit di proposta ed è in una grave crisi di consenso, come dimostrato dal calo delle preferenze espresse dagli elettori nelle consultazioni europee del 2009, in cui il PSE ha subito un netto ridimensionamento, accompagnato dalla crescita contestuale del PPE. Diversamente da quanto il PPE ha fatto già da dieci anni, il PSE non sembra ancora pronto a proiettarsi oltre i suoi vecchi confini. A chi scrive, sembra fondata l’ipotesi che non si tratti di una crisi del consenso riformistico simile a quelle che la socialdemocrazia europea ha subito in modo intermittente dopo la seconda guerra mondiale. Le sue attuali difficoltà paiono generate dall’esaurimento della visione europea che aveva consentito i successi degli anni Novanta. A sua volta questo retroagisce sulla sclerosi dei suoi programmi e delle sue leadership nazionali. Si può dire che, così come l’ascesa socialdemocratica degli anni Novanta era stata originata dal nesso virtuoso fra riformismo nazionale ed eurosocialismo, il suo declino successivo derivi in buona sostanza dal non aver saputo rigenerare tale nesso, abbandonando, dopo l’euro, l’iniziativa precedentemente sviluppata nella costruzione dell’Unione. Se così fosse, il punto di caduta del socialismo europeo consisterebbe nella scelta fatta dalle socialdemocrazie al governo, subito dopo la creazione della moneta unica, di rinazionalizzare le politiche. In tal modo esse sono tornate ad essere formazioni politiche irrimediabilmente condizionate dall’orizzonte delimitato dai confini dei singoli Stati, e come tali poco idonee a elaborare il nesso nazionale-internazionale in chiave d’egemonia, adeguandosi al mutare delle situazioni e dei rapporti di forza mondiali.