La Germania che verrà

Di Silvio Fagiolo Giovedì 10 Dicembre 2009 17:16 Stampa

La Germania si apre a una fase di governo segnata dalla collaborazione tra cristianodemocratici e liberali, che avrà come primo compito quello di temperare il rapporto tra sfe­ra pubblica ed economia. A sinistra, intanto, il partito Die Linke raccoglie un numero sempre maggiore di consensi, ma la prospettiva di un fronte comune con i socialdemo­cratici resta lontana. In questi nuovi equilibri, nel rapporto con le istituzioni europee, con la Russia e con gli Stati Uni­ti di Obama, la Germania si gioca il volto che assumerà nel  l’immediato futuro.

Il tracollo del partito che fu di Willy Brandt alle ultime elezioni tedesche sancisce la fine del “secolo socialdemocratico”. Anch’esso, dunque, un secolo breve? E quale volto va assumendo – in questa crisi della globalizzazione, della sua forza aspra e inclemente – la Germania, che aveva legato il proprio destino ad un potere economico sempre precario, perché così proteso sul resto del mondo, alle speranze dell’Europa, oggi più incerte che mai, ad un rigoroso sistema di garanzie di libertà che la minaccia del terrorismo rende vulnerabile?

La Germania si identifica sempre più con Angela Merkel, che ha condotto una campagna elettorale molto presidenziale. Volto rassicurante il suo, esempio di equilibrio, di riservatezza e di modestia dietro un carattere forte. Una biografia tutta particolare, una educazione in bilico tra le istituzioni religiose nel privato e comuniste nel pubblico. Angela Merkel torna a governare una coalizione di cristianodemocratici e liberali meno inclusiva ma con una maggiore capacità decisionale della precedente, in una Germania la cui massima aspirazione resta la definitiva consacrazione della propria “normalità”.

Della normalità ritrovata è emblematico il restauro dell’isola dei musei, nel cuore di Berlino. La capitale tedesca, epicentro di un continente senza steccati ideologici, economici e militari, anticipa la geopolitica del XXI secolo. Il ritorno del potere sulle rive della Sprea non si accompagna, infatti, agli inevitabili atavici interrogativi sui tedeschi. Certo, la più vasta ricostruzione urbanistica, dopo quelle dell’Europa del dopoguerra, è anche la più carica di significati. La mano riparatrice degli architetti ha chiuso definitivamente il conto con un duplice passato totalitario. La capitale restaurata non ha riassunto l’aspetto imperiale e minaccioso della Berlino degli Hohenzollern. L’anima della città è diversa. In passato, la Germania aveva rovesciato sugli altri i suoi micidiali dissidi interni, tra nostalgie romantiche della razza e un’organizzazione futuristica delle masse. Oggi invece la città ricostruita lontano dal Reno promette un domani rassicurante ispirato a quiete e saggezza. Ma anche la Germania deve misurarsi con la disillusione di una presunta fine della storia ipotizzata dalla caduta del Muro. Allorché era stato possibile dare nuove certezze e nuovi orizzonti al commercio e al credito, aprire o ridisegnare le frontiere, migliorare le condizioni e gli scambi intellettuali, sperando in un nuovo umanesimo.

La coalizione al governo, nel contributo della nuova componente, quella dei liberali, dovrebbe impedire che dalla crisi esca definitivamente codificata una invadenza pubblica in economia, attraverso una exit strategy che invece faccia leva sulle riduzioni fiscali appena annunciate. La nuova compagine di centrodestra, per un terzo costituita da donne, con un vice cancelliere che non nasconde la propria omosessualità e un ministro della Sanità che è alle origini un profugo vietnamita, sembra proprio il simbolo di quella diversità, multiculturalità, tolleranza al cuore del pensiero di Immanuel Kant, un filosofo intagliato in un legno diverso dal sognatore ginevrino dell’Arcadia, ispiratore di tanta sinistra europea. All’orizzonte non si intravedono le brutali discontinuità cui pure la storia tedesca ci aveva abituato. Si assisterà piuttosto al proseguimento del silenzioso cammino della ragione, dallo Stato al contratto, dalle posizioni assegnate alle posizioni acquisite, dalla collettività alla società. La politica non si pone sul piano inclinato di antagonismi inconciliabili, la competizione è fra alternative interamente contrattuali.

Il nuovo governo tedesco punta sulla crescita dell’impresa. Ma la crescita non avverrà a scapito della coesione sociale, non sarà avviata senza la garanzia di una rete di protezione per i più deboli e minacciati. Certo, si annunciano un nuovo approccio alle tematiche ambientali, attraverso la modernizzazione ecologica, un nuovo equilibrio tra rischio e sicurezza, investimenti sociali nel campo dell’educazione e dei progetti infrastrutturali, un equilibrio diverso tra sicurezza e libertà che non privilegi impropriamente la prima. Flessibilità significa regole meno rigide nel mercato del lavoro, evitando tuttavia che il cosiddetto capitalismo renano rimanga vittima di un economismo senza freni.

A sinistra della socialdemocrazia cresce un partito, Die Linke, la cui voce emotiva e rivendicativa raccoglie anche l’eredità della Germania dell’Est, una delle tante risposte negative della storia tedesca alla domanda di democrazia. I regimi totalitari poggiano sulla costante mobilitazione di tutti, i regimi autoritari sull’arretramento dei soggetti nel loro mondo privato. La DDR, nella sua fase finale, era forse più autoritaria che totalitaria. Ora gli abitanti di quel troncone della Germania hanno appreso che se la democrazia rende liberi, non necessariamente rende ricchi. Per chi crede nel contrario basterà la prima recessione per veder affiorare il dubbio. È questo il riscontro più insidioso che si trovano ad affrontare le democrazie post comuniste. Questo fu, a suo tempo, uno degli elementi di autodistruzione della Repubblica di Weimar. L’opposizione tedesca a sinistra della socialdemocrazia è attesa ad una prova di responsabilità che la crescita dei consensi come il suo incipiente radicamento ad ovest non potranno che accelerare. Ciò potrebbe anche far approdare ad una alleanza di tutta la sinistra, soprattutto se si dissiperanno rancori e risentimenti personali ancora profondi. Per ora, a rendere impossibile una confluenza, resta soprattutto l’alterità del partito Die Linke sui temi della politica estera, dal ritiro dall’Afghanistan all’uscita dalla NATO. Condividere tale politica significherebbe andare a ritroso nel cammino della Germania verso l’Occidente, secondo la felice formula dello storico August Winkler. Un approdo riconducibile ad Adenauer e Kohl, i due numi ispiratori della Merkel, che alla vigilia del voto aveva compiuto una visita carica di simboli nella casa- museo del primo cancelliere della Repubblica federale. Una scelta, quella del cammino verso l’Occidente, i cui due momenti salienti erano stati il rifiuto opposto da Adenauer alla nota di Stalin del marzo 1952, che offriva la riunificazione in cambio della neutralità, e il mantenimento della Germania unificata nella NATO ad opera di Kohl, a costo di porre a rischio lo stesso traguardo della riunificazione. Il più antico partito operaio, che giusto cinquant’anni fa aveva offerto a Bad Godesberg l’impianto teorico del socialismo europeo, saprà respingere anche questa volta la tentazione di una deriva radicale per rialzare il proprio vessillo sugli spalti di una ridotta minoritaria. In caso contrario, sarà un tramonto definitivo senza speranze di nuove aurore.

Quale sarà il volto esterno della Germania futura, rispetto ai punti di riferimento di ieri? Una sentenza della Corte costituzionale ha prodotto inquietudine per i limiti posti ad una ulteriore evoluzione del processo di integrazione europea. Inquietudine magari eccessiva, che forse la politica si incaricherà di dissipare, se proprio dalla Germania, ad opera del nuovo ministro degli Esteri, Guido Westerwelle – che si vuole discepolo di Hans-Dietrich Genscher – verrà un impulso innovativo per la ripresa del cammino europeo. Ne sarebbe un primo segno, se confermato, la rinuncia di Berlino a perseguire un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Allora la stasi di questi anni, entrato in vigore il Trattato di Lisbona, potrebbe rivelarsi una ridotta dalla quale organizzare una sortita offensiva volta a recuperare il potere politico europeo. Per ora la terra promessa dell’Europa politica è simile a quella che Mosè morente indicò dall’alto del Monte Nebo a Giosuè e al suo popolo. Un personaggio espressione dell’europeismo tradizionale, Wolfgang Schauble, guida oggi il ministero delle Finanze. La Germania, seppure si manifesti più che in passato custode gelosa della propria sfera di sovranità e nonostante sia stata invitata alla prudenza dalla Corte costituzionale nel trasferimento di poteri ad organismi comunitari giudicati non ancora in possesso di una piena legittimità democratica, intende dunque salvaguardare i vincoli europei sulla finanza pubblica. Anche questo è un segnale dell’idea di Europa che essa si accinge a riproporre.

La Germania della Merkel ha poi una sensibilità nuova per i paesi collocati tra i propri confini e la Russia. L’instabilità di quell’area riporterebbe la storia indietro, ad un’epoca di molto precedente la caduta del Muro. Si tornerebbe all’Europa dalla quale, perduto il proprio centro con la scomparsa dei grandi imperi, erano emerse indipendenze nazionali dirompenti. Anche se il 1989 non ha avuto il valore emblematico e inaugurale attribuito in Germania al 1945, quella data aveva assunto, per i paesi dell’Europa di mezzo divisi da Jalta, il senso della fine delle tenebre, del nuovo inizio. Si deve all’Unione europea se i sistemi totalitari usciti dalla guerra fredda sono potuti transitare verso la democrazia senza lunghe espiazioni o rese dei conti. Per i paesi dell’Europa che avevano gravitato nel campo sovietico, l’approdo all’Unione europea ha costituito in un certo senso la fine della storia, di una storia nella quale il tedesco era stato a lungo la lingua veicolare nei rapporti internazionali e la componente ebraica la più inquieta e cosmopolita. La più grande patria europea vorrebbe sostituire i nazionalismi esasperati, i risentimenti reciproci, le rivendicazioni territoriali. Angela Merkel si pone alla guida di questa seconda grande riconciliazione, dopo quella franco-tedesca cui avevano presieduto i suoi modelli e mentori. Lo ha dimostrato da ultimo con lo splendido discorso pronunciato a Varsavia per i settant’anni dall’inizio della seconda guerra mondiale. Solo Angela Merkel sa cogliere una differenza. I paesi fondatori dell’Unione non si consideravano vittime di altri ma solo di se stessi. I nuovi venuti nell’Unione europea si sentono esenti da ogni colpa per la loro rinuncia forzata al mercato e alla democrazia, per essersi trovati sul versante sbagliato della storia, il che si traduce talvolta in un rivendicazionismo aggressivo che va corretto e non esasperato.

Se la Merkel è particolarmente attenta all’Europa di mezzo, non meno desiderosa si mostrerà di continuare ad offrire il proprio sostegno alla modernizzazione della Russia, secondo un disegno che risale molto indietro nel tempo al solo altro cancel - liere – Otto von Bismarck – che, come la “ragazza venuta dall’Est”, sapeva parlare russo. Il disegno è reso più agevole dalla nuova politica di Washington, la rinuncia alle difese missilistiche, il disarmo nucleare. Non sappiamo se sul versante russo il presidente Medvedev, al quale alcuni attribuiscono la ricerca di una linea alternativa rispetto al linguaggio neosovietico di Putin, pervaso da acri umori di rivincita, saprà a sua volta creare condizioni migliori. O se invece andranno deluse tutte le attese di una maggior libertà e democrazia in favore di una corsa verso il modello cinese. Ma Medvedev potrebbe rivelarsi uno zarevic non necessariamente disposto a restare docile strumento della volontà altrui e capace di rendere invece più agevole un rapporto privilegiato tra Russia e Germania. In fondo, il compito di rappresentare l’autorità dello Stato, garantirne la sovranità, la ricchezza, la continuità è sempre spettato a chi siede al Cremlino.

Ma, da ultimo, la misura di tutte le cose restano pur sempre gli Stati Uniti. Nessun altro paese europeo aveva sentito come la Germania la propria distanza dall’America di Bush. Non poteva essere altrimenti con un alleato che aveva trattato con sufficienza le manifestazioni di solidarietà in nome dell’articolo 5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza Atlantica, preferito il dispiegamento della forza, per di più svincolata dai troppi lacci delle convenzioni internazionali, secondo le esperienze americane più antiche e più brutali della guerra di frontiera e di quella di secessione. Erano tornate le parole di Theodore Roosevelt, incarnazione delle virtù guerriere: «Se non manteniamo le virtù barbare non ci servirà a nulla acquisire quelle civili». Obama ha rovesciato questo approccio, con gran beneficio per la Germania. Il presidente americano aveva già scelto Berlino, prima del voto, come luogo dal quale far pervenire il suo primo messaggio all’Europa. Ha poi ancora privilegiato la Germania visitando Dresda, simbolo della follia autodistruttiva degli europei. Del resto è stato uno scrittore di Chicago, Kurt Vonnegut, a raccontare meglio di ogni altro quell’orrore. Dresda, quindi, come immagine delle vittime innocenti di ogni guerra e come specchio delle parole di Lincoln, secondo il quale «la gloria militare è un serpente che affascina per distruggere». La pietà investe anche le vittime tedesche del grande conflitto, nonostante le colpe della sua politica, manifestazione pure questa del ritorno alla normalità della Germania. Ma Obama ha visitato anche Buchenwald, il lager appena fuori dalla Weimar di Goethe, emblema della fiducia nell’ordine cosmico, del tenace rifiuto del caos. La Germania è stata, dopo il discorso del Cairo, il luogo nel quale riaffermare la solenne garanzia nei confronti dello Stato di Israele e condannare ancora una volta coloro che negano la realtà dell’Olocausto. Un tema particolarmente caro al cancelliere Merkel, che la aveva indotta a criticare lo stesso pontefice tedesco, non senza reazioni risentite nei cristianodemocratici bavaresi.

Nell’ambito della NATO, venuta meno l’architettura globale della guerra fredda, gli interessi degli alleati tendono a divaricarsi in favore di relazioni più fluide e meno estese, in vista di obiettivi specifici e territorialmente definiti. Vedremo come questo si tradurrà nel nuovo concetto strategico, in corso di elaborazione. La Germania rimane un partner leale in una alleanza pur pensata per far pesare una minaccia apocalittica ai propri confini e non per l’uso di forze limitate per fini e conflitti distanti. Nonostante una forte corrente pacifista, Berlino ha invia-to le proprie truppe in Afghanistan. Al governo, i socialdemocratici si erano opposti alle pressioni dell’opinione pubblica per un disimpegno programmato. All’opposizione, invece, potrebbero spingere per accelerare i tempi del ritiro. La Germania, che già aveva guidato l’atteggiamento critico verso l’estensione della NATO ad Ucraina e Georgia, sarà ancor più decisa a promuovere un rafforzamento della sovranità dei paesi confinanti con la Russia attraverso un avvicinamento alla cittadinanza europea piuttosto che alla loro protezione militare da parte di Washington. Infine, la dissuasione nucleare non è più in Europa una filosofia pensata per due forze uguali che si astengono dall’estrema violenza. L’obiettivo di Obama di abolire le armi nucleari trova una eco particolare in Germania, dove stazionano ancora armi di questo tipo che il nuovo governo vuole eliminare. Anche in questo la Germania si mostra pronta a cogliere il diverso ciclo politico che si è aperto dall’altro lato dell’Atlantico.