La crisi della socialdemocrazia

Di Giuseppe Bedeschi Giovedì 08 Ottobre 2009 17:55 Stampa

Alla fine dell’Ottocento Eduard Bernstein espresse una du­ra critica al marxismo e individuò alcuni tratti dello sviluppo capitalistico che ne avrebbero impedito il crollo predetto da Karl Marx. La socialdemocrazia, secondo Bernstein, avrebbe dovuto riadattare la sua strategia, per aiutare la classe ope­raia a migliorare la propria condizione economica, sociale e culturale. Nel corso del Novecento la socialdemocrazia eu­ropea ha ottenuto importanti risultati. Ma le ultime elezioni europee hanno evidenziato come essa versi in un profondo stato di crisi, dovuto ai radicali mutamenti avvenuti in seno alle società europee e nella classe operaia in particolare.

La funzione storica fondamentale del socialismo riformista

È difficile sottovalutare il ruolo che il socialismo democratico e riformista ha avuto nella storia europea del Novecento, sia sotto il profilo del pensiero politico, sia sotto il profilo dell’azione sociale e dei suoi concreti risultati (si pensi alla costruzione di quel welfare State che costituisce un motivo di vanto della civiltà europea).

Ci si vorrebbe soffermare brevemente, anzitutto, sui grandi motivi ispiratori del socialismo democratico e riformista, per mostrare come sia del tutto priva di fondamento la tesi, che ha avuto così largo corso nella nostra cultura, secondo la quale quel socialismo era irrimediabilmente compromesso da una massiccia dose di utopismo e di ingenuità, da un velleitarismo donchisciottesco, da una visione puramente evoluzionistica delle condizioni sociali, una visione che escludeva il conflitto, la lotta come momento risolutivo. Il socialismo marxista rivoluzionario, al contrario, sarebbe stato caratterizzato, secondo quella tesi, da un’ispirazione e da concetti profondamente realistici, che aderivano strettamente ai processi storici e che combattevano efficacemente il capitalismo chiamando la classe operaia a lotte aspre e incisive, concatenate fra loro in modo tale da giungere, prima o poi, all’abbattimento del sistema.

Basta dare uno sguardo al pensiero politico di Eduard Bernstein e alla sua dura critica del marxismo (una critica che diventerà poi la bestia nera di tutti i marxisti rivoluzionari, in primis dei marxistileninisti), per capire da che parte stava il realismo politico. Nel suo celebre libro “I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia” (pubblicato nel 1899), Bernstein non salvava nulla della concezione marxista: né l’analisi socioeconomica del capitalismo, né il programma politico. Egli rifiutava in primo luogo la previsione formulata nel “Manifesto del Partito comunista” e in altri scritti di Marx, secondo cui la società capitalistica altamente sviluppata avrebbe determinato la scomparsa delle classi intermedie e si sarebbe divisa in due soli campi nemici: uno (relativamente ristretto) di capitalisti, e uno, largamente maggioritario, di proletari. «L’acutizzazione dei rapporti sociali – diceva Bernstein – non si è compiuta nel modo raffigurato nel ‘Manifesto’. Nascondersi questo non solo è inutile, ma è una vera e propria follia. Il numero dei possidenti non è diminuito, bensì aumentato. L’enorme aumento della ricchezza sociale non è accompagnato dalla progressiva diminuzione numerica dei magnati del capitale, ma da un aumento numerico di capitalisti di ogni grado. Gli strati intermedi mutano il loro carattere ma non scompaiono dalla scala sociale». Lo sviluppo storico successivo avrebbe largamente confermato questa acutissima diagnosi.

I tratti dello sviluppo capitalistico sui quali Bernstein più insisteva erano essenzialmente tre. In primo luogo, la grandissima estensione della forma della società per azioni, che permetteva un vasto frazionamento (dal punto di vista della proprietà) di capitali già concentrati e la creazione di un numero crescente di azionisti piccoli e medi. In secondo luogo, il fatto che in tutta una serie di branche industriali, la grande azienda non assorbiva le piccole e medie aziende (le quali mostravano anzi una indubbia vitalità), bensì si sviluppava convivendo con esse, sicché era illusorio attendersi la loro scomparsa o la loro riduzione a un residuo insignificante. In terzo luogo, un notevole sviluppo delle classi intermedie, reso possibile dal grande aumento della produttività del lavoro e dal sempre crescente sovraprodotto creato dagli operai dell’industria. Da tutto ciò Bernstein ricavava la seguente conclusione: «Se la società fosse costituita o si fosse sviluppata secondo le ipotesi tradizionali della dottrina socialista [marxista], il crollo economico sarebbe soltanto una questione di breve periodo. Ma, come vediamo, non ècosì. Ben lungi dall’essersi semplificata rispetto a quella precedente, la struttura della società si è in larga misura graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi, sia per quanto concerne le attività professionali». Di qui la ferma opposizione di Bernstein all’idea che il crollo della società borghese fosse imminente, e che la socialdemocrazia dovesse far dipendere la propria tattica dalla prospettiva di una tale catastrofe sociale.

Questo sul piano socioeconomico. Ma anche sul piano politico le novità individuate da Bernstein, rispetto allo schema marxista, non erano meno importanti. Egli le riassumeva in questo modo: «Dal punto di vista politico noi vediamo che i privilegi della borghesia capitalistica, in tutti i paesi progrediti, cedono gradualmente il passo a istituzioni democratiche. Sotto l’influenza di queste e sotto la spinta dell’agitazione sempre più vigorosa del movimento operaio si è prodotta una reazione sociale contro le tendenze sfruttatrici del capitale (…). La legislazione di fabbrica, la democratizzazione delle amministrazioni comunali e l’estensione delle loro competenze, la liberazione dei sindacati e delle cooperative da tutte le pastoie legali, la consultazione permanente delle organizzazioni operaie da parte delle pubbliche autorità negli appalti dei lavori – tutto ciò caratterizza l’attuale livello dello sviluppo».

Del resto, tale progresso si era verificato, e non a caso, proprio nel paese capitalistico più sviluppato, l’Inghilterra: qui i sindacati avevano acquistato importanza ben prima che altrove, e negli ultimi trent’anni dell’Ottocento tale paese si era trasformato, da quello Stato oligarchico che esso era originariamente, in uno Stato democratico. «A chi non bada alle etichette ma al contenuto – diceva Bernstein – basterà passare in rassegna la legislazione inglese a partire dalla riforma elettorale del 1867, che concesse il diritto di voto ai lavoratori urbani, per constatare quale importante progresso si è fatto in direzione del socialismo, se non proprio nel socialismo ». La creazione della scuola elementare pubblica e il costante aumento della frequenza scolastica; la progressiva riduzione delle imposte indirette e l’aumento costante di quelle dirette; il riconoscimento del diritto di esproprio in campo agrario; l’estensione della legislazione di fabbrica a partire dal 1870: tutte queste misure, «dovute non esclusivamente ma certo sostanzialmente alla democrazia [politica] », avevano cambiato la situazione delle classi lavoratrici inglesi. Ma si trattava di un processo, rilevava Bernstein, non limitato all’Inghilterra, e che incominciava ad estendersi anche ad altri paesi (Francia, Svizzera, Stati scandinavi).

Inutile dunque, per Bernstein, continuare a elucubrare sul crollo generale del capitalismo. L’unico, vero compito dei socialisti era quello di organizzare la classe operaia in difesa dei propri interessi e di educarla alla democrazia politica. La democrazia, infatti, avrebbe permesso di lottare per ottenere tutte le riforme idonee ad elevare la classe operaia e per darle, a tutti i livelli della società, quella posizione centrale che essa meritava per il ruolo decisivo che essa svolgeva nel sistema produttivo.

Ancora oggi non si possono non ammirare la concretezza e la preveggenza politica di Bernstein. Egli ha dato al socialismo democratico e riformista un’ispirazione e un indirizzo robustamente realistici, che avrebbero avuto un’enorme importanza in futuro: non baloccarsi con i sogni utopistici di una distruzione violenta della società borghese, poiché il ricorso alla violenza avrebbe soltanto isolato la classe operaia e le avrebbe impedito un ruolo costruttivo nella società; dedicarsi giorno per giorno all’organizzazione dei lavoratori nella fabbrica, nella città, nella regione, nello Stato; perseguire riforme sociali e politiche sempre più incisive, al fine di elevare la condizione economica, morale e culturale della classe operaia, sino a farla diventare protagonista della vita nazionale. Tutto ciò si poteva e si doveva fare con la democrazia politica, cioè con la democrazia liberale, che era il terreno ideale per un’incisiva lotta politica e al tempo stesso lo strumento fondamentale che permetteva alla classe operaia di acquisire un’adeguata preparazione culturale e politica. Di qui la celebre affermazione di Bernstein, che per lui «il movimento era tutto, e l’obiettivo finale del socialismo era nulla»: un’affermazione che non poteva esprimere meglio la ferma ripulsa di qualunque utopismo e la stretta aderenza alle lotte sociali e politiche della classe operaia da condursi giorno per giorno, per conseguire conquiste sempre più alte. Tali conquiste erano il vero scopo del movimento socialista, il terreno concreto, ovvero l’unico terreno della sua lotta e dei suoi sforzi, mentre «l’obiettivo finale del socialismo» (un sogno di rigenerazione totale) diventava qual - cosa di inessenziale. Era una concezione, quella di Bernstein, destinata a influenzare profondamente i movimenti socialisti democratici del futuro.

Si può dunque dire che, quando, nel 1959, al Congresso di Bad Godesberg, il partito socialdemocratico tedesco si liberò degli ultimi residui della scolastica marxista, essa confermò la piena validità della concezione espressa sessant’anni prima da Bernstein. Liquidando l’istanza originaria della collettivizzazione (lo strumento miracoloso dei marxisti rivoluzionari) e ponendo al suo posto l’esigenza del controllo pubblico dell’economia; dichiarando che il problema non era la soppressione della proprietà privata, ché anzi essa doveva essere garantita e promossa, ma che si trattava piuttosto di assicurare le condizioni per una libera competizione economica fra settore pubblico e settore privato, per una gestione sempre più efficiente dell’economia, tale da permettere un tenore di vita sempre più elevato delle classi lavoratrici, la socialdemocrazia tedesca assunse posizioni che Bernstein non avrebbe avuto difficoltà a sottoscrivere.

Ma il socialismo democratico e riformista dette le sue prove migliori in Gran Bretagna, dove il Labour Party, conseguita nel 1945 la maggioranza nel Parlamento, attuò una vasta politica di welfare State, combattendo efficacemente gli effetti della disoccupazione, degli incidenti sul lavoro, delle malattie, e assicurando a tutti i lavoratori una vecchiaia dignitosa. Lo spirito riformista del Labour si espresse in modo ancora più incisivo nella sua seconda esperienza di governo, negli anni 1964-70, e poi ancora nel 1974-76. Abbandonando la politica delle nazionalizzazioni (delle ferrovie e dei trasporti, del carbone e dell’acciaio) attuata nei primi anni del secondo dopoguerra, i laburisti, dopo aver sconfitto la sinistra interna di Bevan e Foot, sotto la guida di Harold Wilson si ispirarono sempre più alla concezione (espressa nel 1956 da Anthony Crosland, in un noto saggio, “The Future of Socialism”) secondo la quale il fondamento del socialismo era più sociale che economico, in quanto era rivolto a conseguire una più equa distribuzione delle ricchezze e un più razionale sistema educativo per ridurre le differenze di classe e la povertà, piuttosto che a interferire sul diritto di proprietà dei mezzi di produzione o ad esasperare la lotta di classe.1

Un’età post socialdemocratica

La politica dei partiti socialisti democratici e riformisti ha conseguito risultati di grande importanza (in primo luogo, come abbiamo detto, la realizzazione del welfare State) in diversi paesi d’Europa. Di qui il largo seguito che tali partiti hanno avuto. Ma nelle ultime elezioni europee essi hanno registrato un arretramento e una sconfitta molto gravi in quasi tutti i paesi del Vecchio continente. Non si è trattato, in verità, di un fulmine a ciel sereno, bensì, piuttosto, della conferma di un ciclo iniziato da parecchio tempo. Ha ricordato Marc Lazar che mentre nel 1997 tredici dei quindici Stati che componevano l’Unione europea erano governati dalla sinistra, nel 2008, in un’Unione composta di ventisette membri, la sinistra era al potere in appena otto paesi (Gran Bretagna, Spagna, Portogallo, Lituania, Bulgaria, Ungheria, Slovenia, Cipro).2 All’interno del Parlamento europeo il gruppo socialista ha perso la maggioranza relativa a partire dal 1999. Inoltre i partiti socialisti/ socialdemocratici continuano a perdere iscritti: emblematico il caso della SPD tedesca, che tra il 1976 e il 2007 ha perso il 47% dei suoi effettivi, passando da 1.022.000 a 545.120 iscritti. Ci si trova dunque di fronte a una crisi storica, epocale, della socialdemocrazia. Per quale motivo? Perché il socialismo democratico e riformista ha sempre avuto come proprio punto di riferimento fondamentale il proletariato delle fabbriche e delle officine, il quale costituiva una classe numerosissima e sostanzialmente omogenea in tutti i paesi industriali avanzati; ma negli ultimi venti o trent’anni c’è stata una riduzione progressiva del peso della grande fabbrica nel sistema produttivo complessivo, e quindi una drastica diminuzione del numero degli operai nei paesi economicamente più sviluppati, mentre si è enormemente dilatato il settore terziario, cioè il settore dei servizi. Basti pensare che negli attuali sistemi economici avanzati solo un quinto del prodotto totale proviene dall’industria, mentre quasi tutto il resto è “produzione invisibile”, sempre più effettuata e fruita istantaneamente con supporti elettronici.3

È evidente che una rivoluzione socioeconomica e tecnologica di tale portata ha avuto conseguenze molto serie sulla consistenza dei partiti socialisti e socialdemocratici, i quali, in passato, si sono sempre richiamati al proletariato come classe fondamentale della società (il che non escludeva naturalmente, anzi includeva, una politica di alleanze del proletariato con strati e ceti piccolo borghesi: ma il proletariato costituiva la chiave di volta di tale blocco sociale più vasto). Da Eduard Bernstein a Harold Wilson questo richiamo alla classe operaia e ai suoi alleati, nonché ai sindacati, è sempre stato un punto fermo. Ed è sempre stato un punto fermo anche per i socialisti democratici italiani. In un saggio di due eminenti socialisti riformisti italiani, Gino Giugni e Luciano Cafagna, apparso nel 1976, si leggeva: «Il ruolo centrale della classe operaia nel sistema politico-sociale è segnato da un lato dalla consolidata forza della stessa nella sua espressione sindacale (che è ormai un dato strutturale del sistema […]); dall’altro dalla crescente partecipazione al potere da parte dei partiti di classe».4

Ora, quello che è venuto meno è proprio «il ruolo centrale della classe operaia nel sistema politico- sociale», con conseguenze molto gravi per i partiti socialisti e socialdemocratici, che a quel ruolo si richiamavano e ne facevano il loro punto di riferimento fondamentale.

Ma è evidente che il problema non è solo quantitativo (la drastica diminuzione del numero degli operai e l’enorme dilatazione del terziario), ma è anche qualitativo. Quel che resta della classe operaia oggi ha ben poco a che fare, sotto il profilo professionale e sociale, con la classe operaia di un tempo. La classe operaia di oggi svolge il proprio lavoro in officine e laboratori in cui i processi produttivi sono in gran parte automatizzati, robotizzati, informatizzati. Dunque le condizioni di lavoro degli operai sono radicalmente mutate, ed è mutata la loro professionalità e la loro mentalità. Al tempo stesso è cambiato il loro stile di vita, che non si distingue più (nei consumi, nel modo di fruire del tempo libero ecc.) dallo stile di vita dei ceti piccolo borghesi. E si sono modificati i loro punti di riferimento politici, che non sono più “classisti” come un tempo. I giornali hanno dato notizia nei giorni scorsi che il leader dei metalmeccanici tedeschi della IG Metall, Berthold Huber, ha dichiarato che alle prossime elezioni del 27 settembre la sua organizzazione non darà un’indicazione di voto. «Lo so – ha detto Huber – che i rapporti tra la SPD e il sindacato sono stati storicamente molto forti, ma ora siamo nel XXI secolo. L’era in cui i sindacati potevano dire ‘vota per questo o per quello’ è finita. La gente ragiona con la propria testa. Quindi non ci sono più raccomandazioni e pietre di paragone elettorali».5 Il linguaggio è duro, ma ha il pregio della chiarezza: il nesso strettissimo, esistente un tempo, fra partito socialista e sindacato si è dissolto.

Non è necessario aggiungere altri elementi per spiegare la crisi gravissima, storica, della socialdemocrazia. Una crisi destinata verosimilmente ad aggravarsi, quanto più i partiti socialisti dovranno cercare consensi in tutti gli strati e in tutti i ceti sociali, sicché dovranno sempre più disfarsi della loro ideologia e della loro cultura, imperniate su una classe che, sia sotto il profilo quantitativo sia sotto il profilo qualitativo, è radicalmente diversa da quella di un tempo. Quella che è venuta meno, insomma, è la tradizionale “identità” socialista-socialdemocratica. Il che non significa, beninteso, che i partiti di sinistra debbano rinunciare alle conquiste fondamentali realizzate storicamente dai partiti socialisti (il welfare State, in primo luogo) e a quegli ideali di solidarietà sociale senza i quali la sinistra non merita questo nome. Significa, però, che la sinistra deve innovare profondamente la propria cultura e aprirsi a quelle istanze liberali (sia nell’economia sia nella politica) che sono oggi espresse da vasti strati sociali. Un’operazione difficile, sia a livello culturale sia nella sua realizzazione politica.


[1] Si veda in proposito il saggio di M. Degl’Innocenti, Socialismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. VIII, Roma 1998, pp. 63-80.

[2] M. Lazar, La sinistra in Europa tra speranze e paure, in “il Mulino”, 1/2009, pp. 78-87.

[3] Si veda, a questo proposito, l’articolo di M. Deaglio, Per uscire indenni, in “La Stampa”, 24 luglio 2009.

[4] G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi per un dibattito, in “MondOperaio”, 7-8/1976.

[5] Si veda D. Taino, Il sindacato volta le spalle alla SPD, in “Corriere della Sera”, 1 agosto 2009.