L'Europa nel contesto dell'economia mondiale

Di Ferdinando Targetti Giovedì 02 Luglio 2009 18:07 Stampa

La crisi economica in corso trova l’Unione europea in una condizione di debolezza persino maggiore di quella degli Stati Uniti, dove la crisi è nata. Se gli Stati membri dell’UE insisteranno nel perseguire politiche anticrisi autonome il rischio di una marginalizzazione dell’Europa non potrà che aumentare. Al contrario, l’adozione di politiche economiche comuni, l’istituzione di un Tesoro europeo a fianco della Banca centrale e l’emissione di eurobond potrebbero rendere più efficaci le politiche di stimolo e di risanamento condotte a livello europeo.

Nell’attuale situazione di crisi l’Europa corre tre rischi: che il mercato unico si incrini, se gli Stati membri inizieranno ad adottare politiche industriali autonome; che si abbassi il saggio di crescita potenziale dell’Europa, se i paesi europei non avranno attuato durature e consistenti politiche di sostegno della domanda aggregata; che la moneta unica si disgreghi a fronte dell’insolvenza di uno o più membri dell’area euro. Tutti e tre questi rischi possono essere mitigati se si adotteranno misure radicali di riforma delle istituzioni economiche comunitarie.

Le politiche economiche dell’Europa si basano su due pilastri: la stabilità monetaria (il prevalente, se non l’unico, obiettivo della Banca centrale europea) e il rafforzamento del mercato interno (mercato unico, tutela della concorrenza, mobilità dei fattori, regolazione pubblica). Il terzo pilastro, la politica di sviluppo economico basato sull’Agenda di Lisbona, non dispone né di istituzioni, né di incentivi adeguati per colmare il gap di dinamica della produttività con gli Stati Uniti. Inoltre l’Europa non dispone né di strumenti anticiclici, né anticrisi. La crisi ha aggravato la situazione di debolezza relativa dell’Europa.

Sebbene la crisi sia partita dagli Stati Uniti e le cause siano prevalentemente americane, gli USA si trovano in condizioni decisamente migliori dell’Europa. Si prevede che nel 2009 il PIL americano scenderà circa del 3%, quello dell’Europa del 4%, quello dell’Italia del 5%, quello della Germania del 6%. La produzione industriale in Europa è diminuita del 18%, un terzo di più che negli Stati Uniti, e la disoccupazione nel comparto dei contratti flessibili in Europa si è impennata, non così oltreoceano. Le banche europee hanno cominciato più tardi di quelle americane a far emergere le perdite di bilancio e probabilmente mostreranno perdite maggiori: il Fondo monetario internazionale stima che le banche europee (incluse quelle del Regno Unito) subiranno perdite per 1.200 miliardi contro 1.050 di quelle americane, ma le prime hanno accertato perdite solo per 260 miliardi, contro 510 negli USA. La ragione per la quale gli Stati Uniti sono in condizioni migliori dell’Europa sta nel fatto che essi possono attuare politiche industriali, politiche di stimolo fiscale e di risanamento finanziario più efficaci perché dispongono di uno Stato e di un Tesoro federali.

Oggi la politica anticongiunturale del bilancio pubblico (stimolo fiscale) nei paesi europei è contenuta, malgrado la crisi colpisca pesantemente molti europei membri dell’Unione. Nell’attuale stato di crisi non è possibile che ogni paese attui una manovra di stimolo indipendentemente dagli altri. Infatti il paese che stimola più degli altri aumenta il proprio debito pubblico e lo spread dei propri titoli sul Bund tedesco, mentre dei benefici, in termini di domanda effettiva, si appropriano i partner commerciali (si ricordi che la maggior parte dell’interscambio commerciale dei paesi europei è intraeuropeo). Questo è vero per tutti i paesi e per l’Italia, già gravata da un pesante debito pubblico, più che per gli altri. È quindi necessaria un’azione collettiva e il puro coordinamento delle politiche economiche è insufficiente. La riforma principale dovrebbe riguardare la costituzione di un Tesoro dell’Unione, progetto a cui si potrebbe giungere per gradi.1

I critici del progetto di dotare l’Europa di politiche anticicliche sono in realtà critici tout court delle politiche di stimolo fiscale. Essi sostengono che la politica di stimolo preferibile non sia quella fiscale, ma quella monetaria, più facilmente modificabile quando il ciclo si inverte. Ma oggi la politica di puro aumento dell’offerta di moneta non sta funzionando perché il sistema, a causa della sfiducia relativa tra le banche, si trova in una situazione di trappola della liquidità; né è efficace la politica monetaria basata sulla riduzione dei tassi di interesse ufficiali, avendo questi quasi raggiunto lo 0%. L’unico metodo efficace è quello che vede la Banca centrale europea acquistare titoli di Stato emessi a fronte di nuovo disavanzo pubblico. Se fossero emessi titoli di debito pubblico europei la BCE potrebbe finanziarne in parte l’emissione (come fa la Fed) e in parte accettarli come collaterali per il rifinanziamento bancario. In questo momento sui mercati internazionali i titoli più sicuri sono quelli pubblici emessi da paesi con finanze pubbliche solide; quindi i mercati sarebbero molto ben disposti ad assorbire eurobond, titoli espressi in euro e garantiti dall’Unione europea. I critici allo stimolo fiscale sostengono anche che l’Europa abbia già stabilizzatori automatici e quindi non necessiti di stimoli aggiuntivi. È questa una tesi parzialmente sostenibile durante i cicli normali, non però nel corso di una crisi che può sfociare in stagnazione: quanto più imprese e famiglie sono riluttanti a spendere (domanda endogena) tanto più il gap deve essere riempito da una componente esogena come il disavanzo pubblico. Si dice inoltre che i deficit alla lunga sono inflazionistici, in realtà oggi il rischio che si sta correndo è piuttosto quello della deflazione da prezzi: i prezzi ufficiali al consumo nei principali mercati sono più bassi di sei mesi fa. Un’altra posizione critica è quella secondo cui un aumento del debito non determina uno stimolo a causa dell’“effetto Ricardo”: il consumatore, cioè, non spende il maggior reddito disponibile di oggi perché teme le maggiori imposte di domani. Ma questo può eventualmente valere per una politica basata sulla riduzione delle imposte, non per quella basata sull’aumento della spesa.

La critica principale riguarda il debito pubblico. Un aumento del deficit oggi accresce il debito pubblico domani. È proprio per evitare questa trappola che l’Unione europea, con il Trattato di Maas - tricht, si è data il vincolo per il quale la crescita del deficit di ogni paese non può essere superiore al 3% del PIL. Anche questa regola aveva una sua validità quando il ciclo era di boom and bust intorno ad un dato trend, ma ciò non vale in una situazione in cui stabilmente la propensione all’investimento è inferiore alla propensione al risparmio del reddito potenziale. Se il gap di domanda non è riempito dalla spesa pubblica, si avrà una perdita perpetua di prodotto potenziale e, alla lunga, anche il reddito potenziale si abbasserà. Il Regno Unito ha sconfitto Napoleone portando il rapporto fra debito pubblico e PIL al 200% e ha sopraffatto Hitler portandolo al 150%. Poi entrambi i coefficienti sono scesi a livelli molto minori e più sostenibili per effetto della crescita del reddito. Questo è il punto: il deficit di oggi deve avere effetti di stimolo alla domanda e di modifica della struttura di offerta e cioè di aumento del trend di crescita. Se quello sforzo si è potuto compiere per produrre strumenti bellici, lo si può compiere per produrre una trasformazione dell’economia europea in senso ecologicamente compatibile e con un maggior contenuto di conoscenza. In tal caso l’Agenda di Lisbona avrebbe le gambe per camminare.

Questa riforma istituzionale non avrebbe quindi solo effetti anticiclici, ma potrebbe essere la via attraverso la quale l’Europa viene a modificare la sua posizione nel quadro dell’economia globale. Oggi l’economia degli Stati europei dipende grandemente dalle esportazioni dei singoli Stati direttamente e indirettamente verso la Germania, la quale è il maggiore esportatore sul mercato mondiale, la cui crescita dipende dal modello di debito americano. Se il modello americano deve cambiare, anche il modello europeo deve cambiare attestandosi o su un trend di crescita minore o, alternativa preferibile, su una struttura produttiva diversa, meno incentrata sull’export tedesco e maggiormente basata sulla crescita di produttività di tutta l’area. La Germania è il più grande esportatore mondiale e presenta un grande avanzo estero verso il resto del mondo e soprattutto verso l’Unione europea.2 Se la sua ripresa dovesse essere basata sullo stesso modello di allocazione delle risorse del passato essa sarebbe di modesto ausilio alla ripresa europea, perché l’attivo commerciale legato alla ripresa ciclica tedesca significherebbe una perdita di domanda e di reddito nei paesi partner. Il discorso sarebbe invece opposto se la ripresa tedesca si fondasse su un forte stimolo della domanda interna.

Uno dei rischi che l’Europa (e anche gli Stati Uniti) si trova di fronte è che la crisi possa perdurare per molti anni, come è accaduto al Giappone. Si sa che il decennio di ristagno giapponese degli anni Novanta era da ricondurre alla mancata “pulizia” in tempi brevi del sistema bancario e alla sfiducia sulla solidità del sistema creditizio che ne conseguì. Questo rischio ora lo corre l’Europa (e anche gli Stati Uniti, ma in Europa le imprese dipendono dal sistema bancario più che negli Stati Uniti) con l’aggravante che, a differenza del Giappone, ci si trova in un momento in cui il mondo ristagna e non si può puntare sulle esportazioni. In Europa troppe banche sono troppo grandi rispetto al paese di appartenenza e troppo internazionali per poter essere salvate dai contribuenti nazionali. Questo non vale solo per l’Irlanda, ma anche per il paese più grande, la Germania, considerando che la Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht (BaFin, l’Autorità federale di regolazione finanziaria) ha stimato in 853 miliardi di euro, un terzo del PIL della Germania, le attività tossiche detenute in portafoglio dalle banche tedesche (500 dei quali dalle Landesbanke). Su questo terreno le banche italiane si trovano in una situazione migliore di quelle tedesche. Anche in questo caso gli Stati Uniti però si sono mossi meglio. Il piano Geitner, anche se molto criticato, ha richiesto uno stress test che, anche se a suo volta biasimato perché troppo accondiscendente verso le banche, è stato tuttavia messo in atto. In Europa non si è intrapresa una strada più virtuosa: semplicemente, ogni paese ha preferito andare per proprio conto, rendendo più concreto il “rischio Giappone”. Soprattutto in Germania il governo ritarda ad intraprendere misure di accertamento delle perdite e di pulizia degli asset tossici.3

Un Tesoro europeo darebbe credibilità alla possibilità di salvataggi del sistema bancario attraverso robuste ricapitalizzazioni. Negli anni Novanta la Svezia nazionalizzò temporaneamente alcune banche in crisi per poi rivenderle dopo qualche anno di risanamento, con profitto per il contribuente e per l’economia nel suo complesso; si tratta di un’esperienza che potrebbe essere attuata a livello europeo. Analogo il discorso che potrebbe essere fatto per il sostegno ai nuovi e più vulnerabili membri dell’Unione europea da un Tesoro europeo. Si prevede che quest’anno la produzione industriale diminuirà del 10% nei paesi baltici e del 5% in Ungheria e Romania. La crisi industriale e bancaria dei paesi dell’Est si ripercuoterà sui paesi dell’Europa occidentale, non solo attraverso il canale dell’economia reale, ma anche attraverso il canale bancario: si pensi agli investimenti nelle banche dell’Europa orientale compiute da banche occidentali, soprattutto austriache e tedesche.

La costituzione del Tesoro europeo potrebbe avvenire per stadi. Da subito si potrebbero usare istituzioni come la Banca europea per gli investimenti e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo per emettere eurobond e per indirizzare gli investimenti finanziati con tali emissioni. In un secondo momento potrebbe essere istituito un organismo che integri queste due funzioni e che potrebbe, oltre che emettere titoli di debito, imporre prelievi comuni (carbon tax) e coordinare, se non proprio armonizzare, i prelievi nazionali per impedire forme di social dumping che minano la caratteristica europea di “economia sociale di mercato”, come autorevolmente sostenuto a più riprese anche da Mario Monti.

Diverso dovrebbe essere anche l’approccio europeo alla politica industriale. Abbandonato il metodo comunitario, oggi prevale il modello che Giuliano Amato definisce di «coordinamento intergovernativo»:4 sarebbe invece opportuno tornare al passato. In campo energetico bisognerebbe, oltre che costruire una reale rete unificata per la distribuzione del gas, perseguire la creazione di campioni europei. Un ritorno al passato gioverebbe anche alla gestione della capacità in eccesso: alla fine degli anni Settanta il piano Davignon riuscì ad evitare una guerra dell’acciaio tra produttori europei; oggi si dovrebbe pensare ad un piano europeo per l’automobile, per gestire gli esuberi e per uniformare la politica degli incentivi. Quanto accade è invece diverso: in campo energetico la Germania si muove autonomamente cercando alleanze con la Russia, mentre sul terreno della politica industriale i governi di vari paesi (Germania, Francia, Italia) stanno introducendo leggi di incentivazione nazionale dell’auto a condizione che i beneficiari non delocalizzino le attività produttive in altri paesi europei. Insistendo su questa strada di free riding ad essere danneggiati saranno l’Europa e i suoi cittadini.

Al progetto di riforma delle istituzioni europee di politica economica si oppongono quelle forze che temono l’allargamento politico dell’UE, che vedono l’Europa solo come un mercato unico e non come un’unica istituzione economico- politica. La Germania, in accordo con la Francia, dovrebbe essere la paladina di questa nuova stagione di europeismo. Essa è il candidato ideale per la sua dimensione, per il suo rigore finanziario, per la sua forza economica e perché dispone di quella serietà nella leadership politica che certo difetta al di qua delle Alpi. La Germania farebbe un errore a chiudersi in un approccio nazionalista, basato su affermazioni quali: i conti tedeschi sono stati messi in ordine, il clup (costo del lavoro per unità di prodotto) è stato abbassato, la struttura produttiva è stata rafforzata, la competitività della Germania è aumentata, a questo punto tocca agli altri paesi europei fare il loro dovere. In realtà la Germania è tanto più forte economicamente quanto più lo sono i paesi che la circondano e verso i quali essa esporta gran parte della sua produzione manifatturiera. Questi paesi possono far fronte alla crisi se l’Europa nel suo complesso adatta le sue istituzioni ad un mondo che cambia. L’Italia non può essere leader economico di questo processo, ma può svolgere, come nel passato, un ruolo di stimolo politico e intellettuale. Il governo attuale è inadatto a perseguire questo obiettivo, né si pone idealmente in questa prospettiva.

L’economia europea infine va collocata nel quadro delle condizioni monetarie internazionali. La Cina sta rapidamente consolidando la sua valuta a livello internazionale e non è lontano il momento in cui affiancherà il dollaro come moneta fondo di valore e mezzo di scambio internazionale, essendo emessa dal maggior creditore internazionale. Il dollaro è destinato a veder ridurre la sua importanza, ma ci vorrà molto tempo prima che perda la supremazia che gli deriva dall’essere la moneta emessa dal paese con il maggior prodotto interno e nel quale si trova il principale centro finanziario al mondo. In questo contesto l’euro potrà evitare di svolgere il ruolo marginale ricoperto dalla sterlina nel secondo dopoguerra, se sarà emesso da un’entità politica molto rafforzata rispetto ad oggi: se, cioè, oltre ad un mercato unico l’Unione europea avrà anche sviluppato un sistema unico di regole societarie, finanziarie e di vigilanza prudenziale. Tale sistema di regole dovrebbe derivare da un negoziato internazionale e questo dovrebbe aver luogo, a maggior ragione, qualora la riforma del sistema monetario internazionale dovesse contemplare la creazione di una moneta di riserva basata su un paniere delle principali valute internazionali: dollaro, renminbi, euro. L’euro avrebbe in questo caso la statura di una moneta sicura, non tanto perché in una certa fase ciclica si rafforzerebbe sul dollaro (in realtà è il dollaro che si indebolisce), ma perché, qualora la BCE fosse affiancata da un Tesoro dell’Unione, verrebbe emesso da un’entità politica dalle caratteristiche assimilabili a quelle di uno Stato.

Nel contesto attuale il G7+1 non ha più senso. Che senso ha una camera di regia internazionale in cui è presente l’Italia o la Francia e assente la Cina? Sarebbe meglio smettere di riunire il G8, mentre il G20 è troppo numeroso (anche se a Londra ha dato buona prova di sé). Fintanto che l’Europa si presenterà a questi tavoli divisa in una serie di paesi, tenuti uniti solo da un mercato unico e da una moneta unica, il G2 appare la formazione più sensata. Una cabina di regia a otto avrebbe senso se fosse composta da Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Giappone, Russia, India (che potrà svolgere un ruolo importante nella crescita dell’economia mondo), Brasile (in un mondo con un modello di crescita ecologicamente compatibile non può essere escluso il paese con le maggiori capacità di trattenere CO2) e Sudafrica, in rappresentanza del continente che ancora deve e può godere della crescita stimolata dalla globalizzazione.

Tra il XIV e il XVI secolo quella italiana era l’economia più avanzata del mondo occidentale: in Lombardia e in Toscana avevano sede le banche più evolute del mondo; a Bologna sorgeva la prima università europea, eccellente nel diritto; in Toscana era stata inventata la partita doppia; gli artigiani e gli artisti più bravi al mondo si trovavano in Italia; l’agricoltura nelle abazie era stata arricchita da geniali sistemi di irrigazione; Venezia, Pisa e Genova disponevano di un’eccellente tecnica di costruzione delle navi. Poi, con la scoperta dell’America, in un secolo il mondo cambiò i suoi equilibri e l’Italia iniziò un lento declino durato tre secoli. La globalizzazione, iniziata negli anni Ottanta del XX secolo e l’ingresso dell’Asia tra i grandi produttori mondiali rischiano di far fare all’Europa la stessa fine che fece l’Italia alla fine del Rinascimento. Ma la storia non si ripete sempre uguale e chi scrive non crede ad un rigido determinismo storico. Gli europei possono ancora essere artefici del loro destino a condizione di abbandonare paure ed egoismi nazionalistici e di cogliere l’occasione costituita dalla crisi per far fare un salto in avanti politico ed economico all’Unione.


[1] Questa tesi è stata più volte espressa da chi scrive. R. Tamborini, F. Targetti, Il patto instabile, in “il Mulino”, 1/2004; Targetti, Politica economica europea: riforme necessarie per contrastare la crisi finanziaria e la recessione, in “nelMerito.com”, 12 novembre 2008. L’idea di un bilancio comune è stata avanzata autorevolmente da vari anni da C. Wyplosz, Fiscal Policy: Rules or Institutions?, in Stabiliseringspolitik i valutaunionen, Statens offentliga utredningar, Stoccolma 16 aprile 2002; Wyplosz, Fiscal Policy: Institutions Versus Rules, in “National Institute Economic Review”, 191/2005. L’emissione di eurobond da parte della Banca centrale europea è stata anche avanzata da A. Majocchi, Il finanziamento di un piano di sviluppo dell’economia europea con emissione di union bonds, in “nel- Merito.com”, 9 maggio 2008 e da S. Micossi, Le politiche economiche dell’Unione Europea dopo la crisi finanziaria: è tempo di cambiare, in “Italianieuropei”, 2/2009.

[2] M. De Cecco, Germania, hub industriale dell’Unione, in “La Repubblica. Affari e Finanza”, 19 gennaio 2009.

[3] W. Münchau, Germany needs more than an accounting trick, in “Financial Times”, 17 maggio 2009.

[4] G. Amato, Cari leader europei, basta gelosie nazionali, in “Il Sole 24 Ore”, 3 maggio 2009.