L'Iran dopo Obama

Di Nicola Pedde Giovedì 02 Luglio 2009 17:50 Stampa

L’antiamericanismo e, più in generale, l’atteggiamento di chiusura verso l’esterno tipico della Repubblica islamica, hanno radici profonde nella storia del paese. Tuttavia, le generazioni successive a quelle direttamente coinvolte nella rivoluzione, soprattutto nel decennio successivo alla guerra con l’Iraq, sono state portatrici di un profondo mutamento di concezione, mostrando quanto il quadro politico iraniano sia eterogeneo e composito. Su queste basi, si guarda oggi con notevole interesse alle aperture politiche di Obama, che hanno reso la questione del dialogo con gli Stati Uniti uno dei punti principali su cui si giocheranno le elezioni presidenziali iraniane.

Il “fenomeno Obama” ha avuto effetti altamente positivi in larga parte del Medio Oriente, soprattutto laddove più profonde erano le fratture tra l’America e la regione. L’Iran, in modo particolare, ha vissuto – e tuttora vive – la prima fase della nuova presidenza americana con un’euforia che difficilmente il sistema politico può occultare o sminuire. Ciononostante, pesa ancora in modo consistente sulla capacità politica e sociale locale il retaggio della retorica e dello spirito rivoluzionario, che sulla condanna e sulla chiusura all’America hanno costruito uno dei principali cardini ideologici della Repubblica islamica dell’Iran.

È quindi su questo elemento che la società iraniana deve più alacremente lavorare, per rimuovere una barriera culturale intrisa di elementi tipici della tradizione persiana, del pensiero rivoluzionario e, non da ultimo, dei retaggi marxisti che tanta parte ebbero nei fatti del 1978-79.

Per comprendere il complesso sentimento che lega l’Iran agli Stati Uniti attraverso fasi alterne, dalla fine del XIX secolo ad oggi, è necessario quindi soffermarsi brevemente su un tratto essenziale del carattere dei persiani, della loro storia e su come la rivoluzione abbia innescato un meccanismo critico che ha trasformato l’antiamericanismo nel pilastro di stabilità del sistema politico della Repubblica islamica.

Antiamericanismo che oggi è una prerogativa politica e ideologica della prima generazione del potere post rivoluzionario e che, al contrario, viene apertamente denunciato dalla generazione successiva come elemento problematico dell’immobilismo e dell’isolamento del paese, attraverso concezioni e sfaccettature copiose ed eterogenee.

 

La rivoluzione e il dogma religioso

Quando il 4 novembre del 1979 un gruppo di studenti sotto una sigla sino ad allora sconosciuta (Studenti che seguono la linea dell’imam) occupò l’ambasciata USA a Teheran, si innescò la prima grande crisi politica dell’Iran post rivoluzionario e soprattutto si delineò la natura strategica dell’avversione a quello che, da allora, venne chiamato nella retorica di regime il “grande Satana”.

L’antiamericanismo iraniano, tuttavia, affonda le sue radici in una storia ben più antica e articolata, costruita essenzialmente sulla naturale idiosincrasia degli iraniani per le influenze straniere, che ha sempre visto ad esempio i britannici e i russi come gli artefici di ogni problema nazionale. A questi, e in particolare alla Gran Bretagna, si imputa ancor oggi di essere attivamente impegnati nel cospirare contro la libertà e l’indipendenza dell’Iran, con un atteggiamento condiviso spesso paranoicamente ad ogni livello della società iraniana.

La rivoluzione contro lo scià ebbe una fortissima impronta xenofoba, prima ancora che religiosa o più semplicemente politica. Fu, infatti, una rivoluzione essenzialmente diretta contro un tiranno percepito come pedina di interessi stranieri, che soffocavano la naturale aspirazione all’indipendenza economica e politica del paese. E su questo principio si concentrò la gran parte del sistema intellettuale che ideò e attuò la rivoluzione.

È utile ricordare, ad esempio, come il sentimento rivoluzionario venne influenzato dal concetto di “westoxication”, o intossicazione da Occidente (gharbzadegi in persiano), termine coniato dal filosofo Ahmad Fardid ma reso celebre dallo scrittore Jalal Ahmed. L’Occidente come portatore di valori negativi e come attore egemonico sulla cultura, sulla politica e sull’economia nazionale divenne quindi un elemento fondante di ogni movimento rivoluzionario o semplicemente antagonista al ruolo dello scià, che veniva in tal modo svuotato di una personalità propria e di un proprio ruolo, per essere invece trasformato in una mera pedina locale del disegno egemonico delle grandi logge massoniche e degli interessi ebraici a livello mondiale.

Una concezione quasi ingenua e infantile del sistema politico iraniano degli anni Settanta, che ebbe tuttavia una capacità di diffusione e di radicamento eccezionali, soprattutto nelle aree rurali o nelle grandi e recenti periferie urbane che avevano accolto in gran numero coloro i quali progressivamente lasciavano le campagne dopo il fallimento della riforma agraria dello scià.

Ciò che impedisce ancor oggi un’analisi approfondita e sistematica della rivoluzione iraniana è tuttavia il dogma di religiosità che le venne attribuito dopo la vittoria del febbraio del 1979. Dogma accettato passivamente soprattutto in Occidente.

Sarebbe invece opportuno, a trent’anni dagli eventi che portarono nel 1979 alla caduta dello scià, tornare a indagare con maggiore precisione le dinamiche della rivoluzione, soprattutto per comprendere meglio la natura e la logica dell’attuale sistema politico della Repubblica islamica dell’Iran.

In tal senso, quindi, appare di fondamentale importanza analizzare nuovamente le dinamiche che generarono il sentimento rivoluzionario, considerando quanta parte ebbero in tali eventi sia i movimenti nazionalisti sia – e soprattutto – quelli della sinistra storica iraniana, tra cui certamente devono essere ricordati il Partito comunista (Tudeh), i Fedayan del popolo e i Mujaheddin del popolo. Su questi ultimi in particolare è necessario puntualizzare come l’originale movimento islamico-marxista, che ebbe un ruolo di grande importanza sia nell’organizzazione che nella gestione della rivoluzione, sia cosa ben diversa dall’attuale omonimo movimento, ormai più una setta che non una forza politica.

Si trattò quindi di una rivoluzione largamente condivisa ad ogni livello sociale, dove tuttavia l’elemento religioso costituì solo una parte dell’insieme, e un ruolo rilevante ebbero al contempo un gran numero di forze laiche e secolari. È utile e opportuno ricordare come anche in ambito religioso, poi, solo una componente del clero partecipò e condivise le ragioni della rivoluzione – il cosiddetto “clero combattente” – rifacendosi al pensiero dell’ayatollah Navab Safavi, condannato a morte nel 1956 per la sua avversione alla monarchia.

Non deve essere trascurato inoltre il contesto storico in cui si manifestò l’evento, nel pieno della guerra fredda e nel bel mezzo di una crisi economica di enormi proporzioni che aveva scatenato anche in Europa e negli USA una concatenazione di eventi particolarmente critici, non ultimi l’incremento dei prezzi petroliferi successivamente ai fatti del 1973, il definitivo fallimento del nazionalismo arabo e il progressivo raffreddamento delle relazioni tra Egitto e URSS, dal quale sarebbe scaturita l’ultima e più problematica fase della guerra fredda.

La rivoluzione iraniana si completò quindi con una vittoria tattica delle forze antagoniste alla monarchia, senza tuttavia risolvere in modo chiaro il problema di chi potesse pubblicamente vantare la paternità dell’evento.

La dimensione religiosa che aveva caratterizzato l’intera ultima fase del processo rivoluzionario, soprattutto attraverso il ruolo del carismatico ayatollah Khomeini, veniva apertamente contestata dalle forze nazionaliste e dall’insieme dei movimenti della sinistra iraniana, che sino a quel momento avevano convissuto con essa sotto un’unica bandiera nell’interesse rivoluzionario.

I tentativi di normalizzazione post rivoluzionaria delle relazioni con gli Stati Uniti, auspicati soprattutto dalle forze nazionaliste e da quelle democratiche del primo ministro provvisorio Mehdi Bazargan, venivano invece progressivamente visti dalla componente clericale come il principale ostacolo alla proclamazione della Repubblica islamica e per tale ragione avversati apertamente.

Fu questo il contesto nell’ambito del quale una componente del “clero combattente” trasformò l’episodio dell’occupazione dell’ambasciata americana – che era peraltro già stata interessata da eventi simili nelle settimane precedenti, tutti risoltisi nell’arco di poche ore – in un evento epocale, senza precedenti, e soprattutto di mobilitazione permanente.

Il paese chiuse in tal modo le porte verso l’esterno, agevolando quel meccanismo che portò alla resa dei conti tra le forze radicali e religiose e quelle antagoniste. In breve tempo, complice anche lo scoppio della guerra con l’Iraq, venne eliminata dal quadro politico iraniano ogni componente avversa alla Repubblica islamica, cristallizzando per quasi un decennio il sistema politico e istituzionale iraniano.

L’antiamericanismo divenne quindi il collante ideologico della Repubblica islamica, soprattutto della sua prima generazione. Non già un reale elemento di rischio per la solidità e la compattezza del sistema che era sorto dalle ceneri della monarchia, bensì un insieme di elementi culturali squisitamente locali e largamente imperniati sulla tradizionale fobia iraniana per il mondo esterno, per i complotti degli occidentali e per l’avversione al mondo arabo. Una miscela di elementi, quindi, riconducibile più alla tradizione della componente rurale ascesa massicciamente al potere con la rivoluzione che non a un reale mutamento strategico del contesto in cui l’Iran post rivoluzionario andava a inserirsi.

E l’antiamericanismo ha retto sino al giorno d’oggi servendo egregiamente il suo ruolo di coagulante politico e di pilastro della tradizione rivoluzionaria, sebbene in modo sempre meno convincente e assumendo progressivamente un connotato generazionale ben preciso e identificabile.

 

L’America dei Basij, dei Pasdaran e delle nuove generazioni

Tra la gioventù iraniana odierna e la prima generazione del sistema politico c’è un elemento politico e sociale di grandi dimensioni e straordinaria importanza: i Pasdaran.

I Guardiani della rivoluzione sono sorti come milizia popolare disaggregata dalle ceneri dei Komiteh, che tanta parte ebbero nell’assicurare la vittoria alla componente religiosa delle forze rivoluzionarie. Hanno da sempre costituito l’anima e la spina dorsale del sistema difensivo della Repubblica islamica, per la quale si sono immolati in otto anni di guerra contro l’Iraq pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane, sofferenze e sacrifici.

Sono stati giustamente ricompensati al termine della guerra con una vera e propria collocazione istituzionale ed economica all’interno dello Stato, mantenendo sia la fisionomia militare originale che una nuova, più ampia e articolata caratterizzazione politica.

Le forze armate tradizionali, l’Artesh, non vennero sciolte dopo la rivoluzione. Si temeva che potessero divenire una forza antagonista alla Repubblica islamica ed erano inoltre utili per sostenere l’immane sforzo bellico contro l’Iraq, costituendo all’epoca le uniche risorse qualificate da spendere in campo militare. La gran parte delle operazioni di terra, quelle più cruente e sanguinose, venne tuttavia volutamente assorbita dalle forze dei Pasdaran e deiBasij, una sorta di milizia di mobilitazione popolare in larga misura composta da coloro che per età o stato di servizio sono fuori dalle tradizionali classi di leva dei Pasdaran e dell’Artesh.

In tal modo, in forza dell’immane tributo di sangue pagato, i Pasdaran si guadagnarono a tutti gli effetti il loro ruolo nella società, divenendo, anche grazie alla mistica di una narrazione bellica fortemente intrisa di elementi religiosi, un baluardo della moralità e della purezza nella difesa dell’Iran e del suo credo religioso.

Furono quindi i Pasdaran per primi a sposare in modo assoluto e convinto il dogma della necessità di chiudere ovunque e comunque all’America, vista come ragione di tutti i problemi del paese e di tutti i tentativi di rovesciarne il sistema di potere. E di certo l’Amministrazione Reagan non fece che confermare la bontà di tale assioma per gli iraniani, che videro quindi per quasi vent’anni gli Stati Uniti come un sistema politico ostile.

Quando la “generazione del fronte“ iniziò tuttavia ad uscire dall’Iran, ad entrare in contatto con l’Occidente, a studiare nelle università europee e americane, allargando le fila di quell’enorme esercito che sono gli iraniani all’estero, si iniziò a delineare un profondo mutamento nella concezione del dogma antiamericano. La prima, vera, esperienza di partecipazione politica di questa generazione si manifestò nel decennio successivo alla fine della guerra con l’Iraq, nella transizione tra la presidenza di Ashemi Rafsanjani e quella di Mohammad Khatami. Larghissima fu non solo la partecipazione dei Pasdaran al voto in favore di Khatami, ma anche alla pratica gestione delle attività del movimento, in cui confluirono figure storiche della rivoluzione e di quel complesso universo politico, economico e sociale dei Guardiani della rivoluzione.

Per la prima volta apparve con chiarezza come il sistema politico iraniano non fosse poi così monolitico, dimostrando appieno quante eterogenee componenti ne rappresentino l’anima, tra radicalismo, fondamentalismo e riformismo.

Non un fronte antagonista alla Repubblica islamica, ovviamente, bensì una diversa concezione dello Stato, della sua politica estera, economica e delle libertà che la società sempre più insistentemente andava domandando.

E il riformismo fece del dialogo e dell’apertura allo storico nemico uno dei principali elementi della propria politica estera, dimostrando quanto maturi potessero essere i tempi per un dialogo e per un mutuo rispetto.

Il riformismo fallì per tante ragioni, non ultima la capacità di coesione delle forze conservatrici che per la prima volta misero da parte la loro tradizionale bellicosità per concentrarsi in direzione degli obiettivi elettorali amministrativi, parlamentari e presidenziali del triennio 2003-05.

A far tramontare definitivamente la parabola riformista fu poi anche l’incomprensibile discorso sullo stato dell’Unione del 2002, dove il presidente Bush inserì nel fantomatico “asse del male” anche un Iran che, nonostante le molte resistenze ancora presenti al suo interno, stava ampiamente collaborando con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo seguita ai tragici fatti dell’11 settembre 2001. Una porta in faccia che permise alle forze conservatrici, e soprattutto alle non certo inconsistenti sacche di antiamericanismo ancora presenti nella Repubblica islamica, di ribadire quanto inutile, pericolosa e destabilizzante fosse ogni indulgenza nei confronti del nemico di sempre.

 

Il fenomeno Obama

Poche elezioni presidenziali hanno catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale come quella di Obama. Dall’Europa all’Asia, dal Medio Oriente all’Africa, Obama ha incarnato il sogno del dopo Bush, il miraggio di una nuova frontiera della politica americana e soprattutto l’inizio della fine di quella spirale di violenza che, innescata dall’ 11 settembre, sembrava essere destinata a non finire mai.

E non ha fatto certamente eccezione l’Iran, dove l’attenzione verso l’America è sempre stata al più alto livello, soprattutto per capire quanto concreta fosse ancora l’ipotesi di una escalation militare contro il proprio programma nucleare.

Il presidente Obama, ben consigliato, ha saggiamente preso l’iniziativa nel cercare di disinnescare la trentennale problematica con l’Iran e, con il discorso al popolo e alle autorità della Repubblica islamica trasmesso in video in occasione del capodanno persiano, ha mandato un segnale epocale, sebbene bilanciato e razionale, in direzione dello storico avversario.

Non solo. L’invito a sedere al tavolo dei lavori per la soluzione del problema afgano e la successiva sequela di inviti e appelli per riavviare una linea di contatto ufficiale e continua hanno rappresentato una scossa senza precedenti per la tradizionalmente intorpidita politica estera iraniana.

Obama, peraltro, ha saputo saggiamente accogliere i molteplici inviti lanciati a più livelli dagli intellettuali e dai politici iraniani circa la necessità di agire prima delle elezioni presidenziali del 12 giugno, non solo in modo da inviare un preciso segnale, ma soprattutto per non chiudere preventivamente la porta alle forze conservatrici, vere protagoniste della competizione elettorale.

L’apertura di Obama è stata epocale sotto molti punti di vista. Non solo ha dato, almeno per il momento, la speranza di un cambiamento in quella che Marvin Zonis definiva la «psicotica relazione tra Stati Uniti e Iran»,1 ma ha anche di fatto aperto il vaso di Pandora dell’antiamericanismo in Iran, dimostrando chiaramente come il tema dell’apertura al dialogo sia una carta elettorale di punta di entrambi i candidati delle elezioni presidenziali e, in sostanza, dando un’immagine del paese e della sua società palesemente schierati nel sostenere la necessità di una normalizzazione dei rapporti con l’America.

Questa apertura, tuttavia, incontra ancora ostacoli e manifeste condanne da parte di un nutrito gruppo di esponenti della prima generazione del potere politico e religioso, la guida suprema Khamenei prima di tutti.

La prima generazione del potere, non a caso in larga maggioranza formata da individui che non hanno mai lasciato l’Iran, è ancora intimamente convinta del fatto che ogni spiraglio di apertura agli Stati Uniti costituisca un colpo mortale inferto alla stabilità dei principi rivoluzionari della Repubblica islamica. Al contrario, le generazioni più giovani – e con loro anche una considerevole componente del contesto politico più vicino ai conservatori, tra cui ampie fasce dei Pasdaran – sono invece assolutamente certe della stabilità ideologica e politica della Repubblica islamica e vedono solo benefici nell’alleggerire la pressione determinata da trent’anni di chiusura e quasi altrettanti di embargo.

La grande differenza presente oggi tra personaggi rappresentativi di generazioni diverse anche dello stesso campo politico, come nel caso del presidente Ahmadinejad e della guida suprema Khamenei, entrambi ultraconservatori, è data dal fatto che i primi sono disposti a dialogare con l’America, ma non a cedere sui cardini del nazionalismo e soprattutto del nuovo ruolo regionale acquisito, come nel caso del nucleare. Mentre esattamente il contrario vale per la generazione precedente che, in ossequio alla storica logica del chiudere senza confrontarsi, è invece meno incline all’apertura e al dialogo ma sostanzialmente pronta al negoziato sul nucleare.

Un’alchimia politica, quindi, connotata da equilibri fragilissimi. Dove tuttavia il seme del rinnovamento sembra essere copiosamente germogliato e in attesa di una appropriata collocazione sia a livello locale sia nell’ambito del delicato quadro regionale, dove l’Iran ha progressivamente acquisito – in modo insperato per gli stessi iraniani – un ruolo primario e ormai difficile da trascurare.2


[1] M. Zonis, Majestic Failure: the Fall of the Shah, University of Chicago Press, Chicago 1991.

[2] Questo articolo è stato redatto prima delle elezioni iraniane del 12 giugno 2009. In esso non è quindi presente alcun riferimento a quanto accaduto successivamente a questa data.