L'Unione europea e la crisi di democrazia. Un aiuto dai partiti?

Di Luciano Bardi e Simona Iacopetti Venerdì 08 Maggio 2009 17:47 Stampa

Le prossime elezioni europee si svolgeranno in un momento delicato per l’Unione, che si trova a fronteggiare le sfide dell’allargamento, la necessità di individuare soluzioni per garantire un funzionamento più snello ed efficiente delle proprie istituzioni e per avvicinare alle stesse il demos europeo, riducendo quel deficit di democrazia che finora ha accompagnato le vicende europee. Anche alla luce degli ultimi sviluppi, una strada percorribile sulla via della democratizzazione potrebbe essere rappresentata da un rafforzamento degli europartiti.

 

 

Partiti nazionali, deficit democratico ed europartiti

L’esistenza di un deficit democratico in seno all’Unione europea è da lungo tempo oggetto di discussione accademica e di dibattito politico a livello europeo e nazionale. Le inadeguatezze della democrazia europea sono state ancor più criticate recentemente a causa delle difficoltà dell’Unione europea nel rispondere con prontezza ed efficacia alla crisi economica e finanziaria che sta attanagliando il mondo occidentale. In particolare, nel contesto generale di una grande frammentazione e complessità politica e istituzionale, sono state sottolineate dai critici come anomalie la mancanza di un governo sufficientemente forte da poter interloquire efficacemente con la Banca centrale europea e la disponibilità di fondi europei tali da fornire a imprese e banche gli incentivi necessari per il superamento della crisi e per la ripresa.

Le presenti contingenze, come detto, non fanno però che sottolineare la gravità del deficit di democrazia denunciato almeno fin dalle prime elezioni del Parlamento europeo. All’enorme sforzo di mobilitazione dei cittadini europei prodotto in occasione delle elezioni non ha infatti corrisposto un sufficiente rafforzamento del Parlamento eletto e delle altre istituzioni europee. I trattati che si sono succeduti a partire dall’Atto unico europeo del 1987 hanno aumentato i poteri legislativi del Parlamento, ma non hanno prodotto esiti altrettanto importanti ai fini di una parlamentarizzazione del sistema politico dell’Unione europea.

Da più parti è stata riposta fiducia e speranza nel ruolo che nel percorso di democratizzazione potrebbero svolgere i partiti europei. Ai partiti politici, fin dal fondamentale libro di Ernst Haas1 e poi nel più volte rinnovato articolo 191 dei Trattati, si è chiesto soprattutto di fornire un collegamento tra i cittadini europei e le istituzioni dell’Unione. Questo in analogia con quanto avviene nei sistemi democratici degli Stati membri. Allo stato attuale il principale canale di collegamento tra la società civile e le istituzioni politiche europee è ancora costituito dai partiti nazionali, mentre le loro federazioni transnazionali (che dovrebbero rappresentare il nucleo centrale di veri e propri europartiti) si caratterizzano per una debolezza spiegabile in larga parte con la mancanza di una “domanda di Europa” dal basso. È certamente vero che i cittadini sentono le istituzioni comunitarie lontane e non di rado hanno una percezione soltanto vaga dell’esistenza e del ruolo degli europartiti, ma è anche vero che poco si è fatto per ridurre tale distanza. Ancor più rilevante e negativo appare infatti l’atteggiamento che viene assunto dai partiti nazionali, che degli europartiti sono le componenti di base, nei confronti dell’Europa, particolarmente in occasione delle elezioni europee. Queste sono da essi troppo spesso considerate un test interno, che richiede campagne elettorali concentrate quasi esclusivamente su temi di rilevanza nazionale. Il ricorso alle cosiddette “candidature bandiera” nelle liste per le elezioni europee costituisce poi un elemento quasi imbarazzante se valutato nell’ottica dell’europeizzazione e del processo di democratizzazione europea. Particolarmente preoccupante appare nelle campagne e nei manifesti dei partiti, infarciti di espressioni retoriche e scontate di vago europeismo, la mancanza di una visione concreta e innovativa dell’Europa. Le uniche eccezioni sono costituite dalle posizioni, in questo caso precise e alternative, dei partiti euroscettici. Ne risulta che i partiti nazionali, invece di contribuire ad un rafforzamento delle proprie strutture europee, ne ritardano lo sviluppo impedendo al tempo stesso un miglioramento della democrazia europea. Si assiste così al paradosso di un vero e proprio boicottaggio degli europartiti da parte dei partiti nazionali.

È innegabile che finora i partiti nazionali abbiano custodito gelosamente le loro funzioni di rappresentanza, di articolazione e di aggregazione degli interessi, non preoccupandosi di sostenere lo sviluppo e il rafforzamento delle federazioni. Questa circostanza ha portato al diffondersi di perplessità circa il ruolo che gli europartiti potrebbero svolgere nella democratizzazione europea. Questo avviene nonostante i segnali positivi che provengono nello specifico dalla terza componente partitica operante a livello europeo, oltre alle federazioni e ai partiti nazionali: i gruppi parlamentari del Parlamento europeo. Essi, nei trenta’anni passati dalle prime elezioni a suffragio universale del Parlamento, hanno fatto registrare un enorme progresso, dimostrato dalla loro capacità di accogliere al proprio interno senza difficoltà significative quasi duecento partiti nazionali arrivati a Strasburgo in seguito ai successivi allargamenti dell’Unione europea. L’inclusività dei gruppi principali, popolari, socialisti e liberali in primis, ma anche della sinistra e dei verdi, si associa alla scomparsa dei gruppi monopartitici, un tempo costituitisi attorno ai conservatori britannici e ai gaullisti francesi, nonché, per un breve periodo, a Forza Italia. Ambedue rappresentano elementi capaci di favorire un rafforzamento degli europartiti e l’assunzione da parte di questi di un ruolo più determinante nell’eliminazione del deficit democratico dell’Unione europea. Tale impressione è confortata dall’elevata coesione dimostrata dai gruppi stessi in sede di votazione.

Alla crescente e sotto alcuni aspetti apparentemente irreversibile istituzionalizzazione dei gruppi parlamentari europei non corrisponde purtroppo un equivalente rafforzamento dall’organizzazione dei partiti europei nel territorio. Questo rende al momento impossibile un loro radicamento nella società civile, e quindi lo stabilirsi di un rapporto fecondo con i cittadini che porti a visioni più dinamiche dell’Europa. Questo compito dovrebbe in teoria spettare ai partiti nazionali, dato che essi costituiscono la base degli europartiti. Ma i partiti nazionali hanno la possibilità di influenzare direttamente le decisioni europee attraverso i propri rappresentanti in seno al Consiglio dei ministri e, conseguentemente, tendono a dare un’importanza molto relativa alle elezioni europee. Inoltre non hanno interesse a favorire la creazione di quella forte relazione organica tra i gruppi parlamentari europei e le federazioni transnazionali che sarebbe necessario affinché gli europartiti possano stabilire rapporti autonomi con la società.

Per questo, allo stato attuale, i partiti europei non sono in grado di svolgere in maniera adeguata nessuna delle tre funzioni cruciali di collegamento individuate dalla letteratura scientifica:2 agire come veicolo per forme più dirette di partecipazione alla politica da parte dei cittadini; sostenere un ruolo importante nell’articolazione e nell’aggregazione degli interessi; aiutare la strutturazione del voto, che significa anche contribuire alla definizione di una “coscienza europea”.

 

I partiti europei e il loro Statuto

Questa situazione sembra essere in aperto contrasto con i principi alla base dello Statuto degli europartiti entrato in vigore nel 2004 e parzialmente modificato nel dicembre 2007. Lo Statuto ha rappresentato di per sé un momento importante per il loro riconoscimento formale, definendone ruolo e organizzazione anche nelle strutture extraparlamentari (al di fuori quindi del Parlamento europeo) e stabilendo i requisiti necessari per l’ottenimento di finanziamenti comunitari. Con gli emendamenti apportati di recente allo Statuto, i partiti di livello europeo potranno utilizzare i fondi loro erogati per finanziare, tra l’altro, attività riconducibili alla campagna elettorale per le europee e quindi per il conseguimento di fini indicati nel programma elettorale del partito stesso, senza però che questi costituiscano un finanziamento seppur indiretto ai partiti politici nazionali o ai loro candidati. In questo modo sembrerebbe finalmente possibile per gli europartiti affiancare i partiti nazionali, aprendo la strada ad una competizione elettorale che li veda impegnati direttamente sul campo e che verosimilmente potrebbe rappresentare il primo passo verso un graduale superamento dei partiti nazionali a livello europeo.

Gli elementi positivi presenti nello Statuto dei partiti europei costituiscono quindi un primo passo nella riduzione della lontananza dei cittadini dalle istituzioni sopranazionali e quindi nel superamento del deficit democratico. Questo si dovrà però accompagnare all’acquisizione da parte dei decision makers, e quindi dei partiti nazionali, della crescente rilevanza dell’Unione europea nella gestione di politiche di natura continentale e globale. Considerate le nuove opportunità e l’apertura di spazi importanti a livello europeo, i partiti nazionali potrebbero finalmente essere disposti ad abbandonare almeno in parte la prospettiva (quasi) esclusivamente nazionale che finora li ha caratterizzati, per aprirsi ad una visione più ampia, favorendo quindi il radicarsi tra i cittadini di un senso di appartenenza all’Europa, ad oggi ancora troppo debole. Molto dipenderà dagli sviluppi futuri dell’Unione e dalle opportunità offerte dai nuovi trattati, da ultimo il Trattato di Lisbona.

 

Il Trattato di Lisbona: verso una maggiore democratizzazione?

Le innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona trovano fondamento nella volontà di far fronte a tre importanti esigenze divenute pressanti a livello europeo: rendere più efficace il processo decisionale dell’Unione, incentivare la partecipazione democratica rafforzando il ruolo del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali, rendere più coerente l’azione europea nello scenario internazionale. Di questi tre aspetti, quello che maggiormente interessa il deficit democratico è chiaramente il secondo. Appaiono particolarmente rilevanti le novità relative al Parlamento europeo non solo perché è l’unica istituzione europea che goda della legittimità proveniente da un’elezione diretta da parte dai cittadini, ma anche, e soprattutto ai fini di questa analisi, perché è il luogo nel quale si osserva la massima manifestazione degli europartiti, grazie all’istituzionalizzazione dei suoi gruppi parlamentari.

È quindi importante stabilire quali elementi concreti offra il Trattato di Lisbona rispetto al potenziamento dei poteri del Parlamento europeo e al modo nel quale i partiti possano esercitare un proprio ruolo: se prevalentemente tramite il canale europeo o, viceversa, attraverso quello nazionale.

Le principali novità riguardano l’estensione considerevole della procedura di codecisione ad una serie di materie fondamentali, quali agricoltura, pesca, trasporti, fondi strutturali e al settore della giustizia e degli affari interni (il terzo pilastro dell’Unione europea). Queste estensioni, qualora il Trattato fosse ratificato, renderebbero la codecisione procedura legislativa ordinaria dell’Unione e porrebbero il Parlamento in una posizione di parità con il Consiglio in quasi tutte le materie di legislazione europea. Ver rebbero inoltre adottati nuovi criteri per la definizione del bilancio che, eliminando la distinzione tra spese obbligatorie e non, conferirebbero anche in questo caso pari dignità a Parlamento e Consiglio.3

Il Trattato di Lisbona, purtroppo, non presenta miglioramenti significativi relativamente ai criteri di formazione della Commissione e dei poteri di controllo del Parlamento sull’esecutivo europeo. Infatti non fa altro che ufficializzare quella che già era una prassi consolidata: il presidente della Commissione viene eletto dal Parlamento su proposta del Consiglio europeo che, all’atto della designazione, deve tenere conto dei risultati delle elezioni europee. L’approvazione da parte del Parlamento della Commissione così nominata avviene ancora, però, sulla base di criteri prevalentemente tecnici e non su quella della condivisione di un programma politico. Quest’ultima norma non appare quindi sufficiente a dare un nuovo risalto agli europartiti e a fornire loro la capacità di esercitare a nome dei cittadini che li eleggono un controllo di tipo politico sulla Commissione esecutiva dell’Unione. Qualche elemento di maggiore novità si ha invece in relazione all’Alto rappresentante per gli Affari esteri (l’attuale Mr PESC), seppur per via indiretta. Questi, infatti, avrà il compito di dirigere un nuovo organo, il Servizio europeo per l’azione esterna, finanziato con fondi provenienti dal bilancio dell’Unione; ciò significa che su di esso gli eurodeputati potranno svolgere un’importante funzione di controllo.

In conclusione, alla luce delle innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona e delle recenti modifiche allo Statuto dei partiti europei sembrerebbe effettivamente aprirsi un corridoio che dovrà essere ampliato in futuro soprattutto attraverso un aumento dei poteri di controllo del Parlamento sulla Commissione e di una vera e propria politicizzazione del rapporto tra le due istituzioni. Solo in tal modo si potrà arrivare ad un accrescimento del ruolo dei partiti a livello europeo. Tale ruolo potrà rafforzarsi inoltre attraverso una “discesa verso la base” delle strutture partitiche europee che dia finalmente visibilità, concretezza e vicinanza ai cittadini rispetto all’attività degli europartiti. In tale prospettiva potrebbe assumere una certa rilevanza anche la possibilità di procedere attraverso l’iniziativa legislativa popolare, introdotta proprio con Lisbona (un milione di cittadini provenienti da un numero significativo di Stati membri potranno invitare la Commissione a presentare proposte su un determinato argomento). Rappresentatività, penetrazione sul territorio, capacità di ricevere le istanze dei cittadini e di aggregarne gli interessi a livello europeo: queste appaiono oggi le sfide fondamentali per i partiti in generale e per gli europartiti in particolare.

Purtroppo le elezioni che si svolgeranno nella prima settimana di giugno avverranno in un contesto non modificato rispetto a quelle del più recente passato. Conseguentemente non ci possiamo aspettare esiti necessariamente più favorevoli al rafforzamento della dimensione partitica europea e quindi anche della democrazia dell’Unione. Ci possiamo solo augurare che la sempre crescente consapevolezza della nuova scala mondiale dei problemi che attanagliano l’Unione europea, ma anche i suoi Stati membri, convinca questi ultimi che le risposte non possano venire attraverso politiche nazionali.

Se questo accadrà, lo ripetiamo ancora una volta, un po’ del deficit democratico dell’Unione verrà eroso. Gli strumenti ci sono e gli spazi cominciano già a delinearsi.

 


 

[1] E. B. Haas, The Uniting of Europe: Political, Social and Economic Forces, 1950-1957, Stanford University Press, Palo Alto 1958.

[2] Tra i numerosissimi altri cfr. A. King, Political Parties in Western Democracies. Some Skeptical Reflections, in “Polity”, 2/1969, pp.
11-141.

[3] Si tenga presente che il nuovo sistema non solo non entrerà in vigore prima del 2014, ma sarà accompagnato da un periodo transitorio che arriverà fino al 2017.