Gli iscritti ai sindacati negli ultimi venti anni: un bilancio in chiaroscuro

Di Paolo Feltrin Lunedì 22 Dicembre 2008 19:58 Stampa

Gli iscritti ai sindacati continuano a crescere. Tuttavia, se analizzata rispetto alle dinamiche chiave del mercato del lavoro, la sindacalizzazione in Italia ricalca l’andamento tendenzialmente depressivo degli altri paesi industrializzati, anche se continua a crescere tra gli immigrati, nei servizi pubblici e privati, tra i pensionati. Si spiega così la strategia di presenza politica e istituzionale del sindacato degli ultimi venti anni. Questa strategia politica dei sindacati conduce però ad alcuni paradossi di difficile soluzione.

Nel corso di un ventennio gli iscritti complessivi alle tre principali confederazioni sindacali sono passati dagli 8.914.391 del 1986 agli 11.719.703 del 2007, con un incremento del 31,5%.1 Come è noto, si tratta di un dato inflazionato dalle iscrizioni dei pensionati, responsabili di un risultato in apparente controtendenza rispetto al declino della sindacalizzazione negli altri paesi industrializzati.2

Inoltre, un’analisi più approfondita mostra una situazione molto sfaccettata: le traiettorie delle adesioni tra occupati e non occupati sono opposte, l’andamento degli iscritti non è costante nel tempo, conosce fortune alterne a seconda dei settori e delle aree geografiche, non è omogeneo tra le diverse organizzazioni sindacali.

Qualificata in questo modo, l’esperienza italiana appare meno eccentrica e ricalca, a suo modo, la dinamica tendenzialmente depressiva della sindacalizzazione in quasi tutti i paesi occidentali, sia nei suoi punti di forza (pubblico impiego, immigrati, non occupati) sia nei suoi punti di difficoltà (settore privato, nuovi rapporti di lavoro). La performance italiana è comparativamente più positiva grazie ad una maggiore tenuta organizzativa, confermata dal permanere anche a fine periodo di tassi di sindacalizzazione superiori al 30%, dalla vivacità dei servizi sindacali, dalla capillarità dell’inse- diamento territoriale, dalla solidità della struttura patrimoniale e degli equilibri finanziari. Seppur con qualche cautela, si può avanzare l’ipotesi che questa diversa tenuta organizzativa possa essere all’origine degli indizi di recupero delle iscrizioni ai sindacati negli anni a noi più vicini.

La netta diminuzione degli iscritti (italiani) nel settore privato rimane tuttavia impressionante: dal 1986 ad oggi sono scomparsi circa un milione di associati nonostante i dipendenti del settore privato siano cresciuti di oltre due milioni (Tabella 1). Il successo relativo del sindacato si spiega solo con la tenuta nel pubblico impiego, la crescita nel commercio, l’iscrizione di oltre 600.000 immigrati e i quasi 6 milioni di pensionati (Grafico 1). Affermare che il sindacato abbia cambiato pelle rischia di non essere un’esagerazione: ma in che senso, e perché?

Grafico 1. Composizione delle iscrizioni sindacali a CGIL-CISL-UIL (valori assoluti, anni 1986-1996-2006).

Tabella 1. Occupazione e iscritti a CGIL, CISL e UIL nei principali settori (valori assoluti e tassi di sindacalizzazione, anni 1986-2007).

Dopo aver dato il quadro delle principali tendenze della sindacalizzazione dell’ultimo ventennio, nell’ultimo paragrafo si cercherà di dare risposta a questi interrogativi.

La struttura e la dinamica della sindacalizzazione

La novità forse più nota nelle dinamiche della sindacalizzazione riguarda il proselitismo tra i pensionati, raddoppiato nel periodo considerato (dai quasi 2.800.000 del 1986 ai circa 5.700.000 nel 2007), che contrasta con la stagnazione delle adesioni tra gli occupati, bloccate intorno a quota 6 milioni. Dopo un ciclo di crescita intensissima, dalla metà degli anni Novanta la sindacalizzazione tra i pensionati rallenta vistosamente, fino a conoscere una battuta di arresto a fine periodo. Inoltre, l’incremento della componente di iscritti pensionati ha mutato significativamente la composizione interna alla membership confederale, dal momento che oggi essi costituiscono circa la metà degli iscritti.

Quando si passa a considerare il sottoinsieme degli occupati, il quadro assume tinte molto meno rosee: nel primo periodo l’andamento è sostanzialmente neutro, nel secondo in netto calo, per poi riprendere a crescere dal 1999. Tuttavia, l’andamento positivo dell’ultimo periodo non è tale da compensare le perdite precedenti, tant’è che il saldo complessivo è di segno negativo (oltre 180.000 unità in meno).

Gli andamenti degli iscritti tra gli occupati sono influenzati in primo luogo dai fenomeni di lungo periodo che hanno caratterizzato il mercato del lavoro: crisi, ristrutturazioni, declino di alcuni settori, delocalizzazioni ecc. Tipici sono i casi dell’agroindustria e del tessile-chimica-energia, che presentano cali costanti in tutto il periodo considerato: nel primo settore, tra il 1986 e il 2007, i sindacati confederali perdono circa 265.000 iscritti, nel secondo oltre 250.000 (si vedano a tale proposito la Tabella 1 e i Grafici 2 e 3). Metalmeccanica, comunicazioni e trasporti sono anch’essi in calo, anche se meno accentuato: il saldo complessivo, negativo, risulta pari a circa -100.000 iscritti per i meccanici, -76.000 per le comunicazioni, -105.000 per i trasporti. Il settore costruzioni ha invece un saldo finale positivo di 121.000 unità in più rispetto al 1986; la pubblica amministrazione rimane sostanzialmente invariata, mentre nell’istruzione si osserva un saldo positivo di circa 110.000 unità. Da ultimo va os-

Grafico 2. Iscritti a CGIL, CISL e UIL nei principali settori (valori assoluti, anni 1986-2007).

Grafico 3. Iscritti a CGIL, CISL e UIL nei principali settori (anni 1986-2007, con 1986=100).

servato che il commercio e il credito crescono in tutti gli anni analizzati: il primo chiude il periodo 1986-2007 con un saldo positivo di circa 300.000 unità, quasi raddoppiando gli iscritti iniziali; il secondo cresce di 56.000. I servizi pubblici e privati sono diventati dunque strategici per la sindacalizzazione. Assieme al risultato positivo del settore legno-costruzioni (oltre 100.000 iscritti in più), quasi compensano le profonde emorragie che hanno drasticamente ridimensionato i comparti manifatturieri tradizionali (circa 700.000 iscritti in meno).

Si può concludere che il sindacalismo italiano ha evitato il declino drammatico delle iscrizioni sperimentato in altre esperienze sindacali internazionali, anche se ciò è avvenuto al prezzo di una perdita di presa nei settori più tipici dell’azione sindacale, vale a dire quelli manifatturieri.

Il peso crescente degli immigrati

Una delle componenti più significative che hanno contribuito alla crescita degli iscritti è rappresentata dai lavoratori stranieri.3 Per il nostro paese la sindacalizzazione dei lavoratori immigrati costituisce una novità assoluta: di fatto inesistenti all’inizio del periodo analizzato, oggi incidono per oltre il 6% sul complesso delle iscrizioni ai sindacati confederali (vedi Tabella 1). Nel 2007 il numero complessivo di stranieri iscritti ai tre principali sindacati ha superato le 700.000 unità e rappresenta il 12% degli iscritti occupati e il 17,5% degli iscritti nel settore privato.4 Gli iscritti immigrati crescono con ritmi molto sostenuti, più elevati rispetto a quelli dei lavoratori locali, in alcuni casi superandoli anche in valore assoluto.

Un settore dove la presenza immigrata è tradizionalmente cospicua e in crescita costante nel tempo, vale a dire l’edilizia, trova riscontro anche nelle iscrizioni al sindacato: nel 2004 gli stranieri aderenti alla FILLEA-CGIL erano 39.336 (il 15% degli iscritti alla categoria), mentre alla FILCA-CISL erano 34.461 (il 14% degli iscritti alla categoria). Gli altri principali settori di occupazione immigrata sono il lavoro di cura (ad esempio, nel 2007 erano iscritti alla CISL 56.822 lavoratori immigrati di questo settore) e il lavoro agricolo (45.286 iscritti alla FAI-CISL, pari al 22,5% della categoria).

Misure di sindacalizzazione e di influenza sindacale

Il tasso di sindacalizzazione fornisce una prima importante misura della forza sindacale. Tra i lavoratori occupati alle dipendenze i tassi di sindacalizzazione sono in calo, passando dal 38,8% del 1986 al 31,6% del 2006.5 La ragione prima della depressione dei tassi di sindacalizzazione è la mancata corrispondenza tra dinamiche dell’occupazione e dinamiche delle iscrizioni: nella prima metà degli anni Novanta il calo degli iscritti è stato più che proporzionale rispetto alla perdita di posti di lavoro. Quando, a partire dal 1996, il numero dei lavoratori dipendenti inverte la tendenza e torna a crescere, l’aumento degli iscritti ai sindacati risulta meno che proporzionale rispetto a quello dell’occupazione. Esiste dunque una difficoltà nella sindacalizzazione che non dipende dalla natura dei rapporti di lavoro, ma riguarda il mancato presidio della constituency più tipica del sindacato: i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato (in particolare nelle attività manifatturiere).

Per quanto riguarda la componente immigrata, la costruzione dei tassi specifici di sindacalizzazione risulta molto complicata. Si può tuttavia stimare come molto elevato il livello di sindacalizzazione tra gli immigrati: prendendo in esame il 2006, quando gli occupati stranieri secondo la rilevazione delle forze lavoro dell’ISTAT risultavano 1.348.000 circa, il tasso di sindacalizzazione si aggirerebbe intorno al 47%,6 circa il 15% in più rispetto alla sindacalizzazione media italiana. Il deficit della nuova sindacalizzazione nel rincorrere le trasformazioni del mercato del lavoro riguarda tutti i settori, ad eccezione dell’istruzione, del credito e delle costruzioni, dove le iscrizioni ai sindacati sopravanzano gli aumenti dell’occupazione, dando luogo ad una crescita netta dei tassi di sindacalizzazione. Nel commercio, tuttavia, nonostante la crescita fortissima degli iscritti, il tasso di sindacalizzazione permane stazionario, su livelli molto bassi, pari a circa il 12%.7 I settori dove si registrano cali più intensi del tasso di sindacalizzazione sono invece l’agroindustriale, i trasporti e il metalmeccanico. Per quanto riguarda infine i pensionati, i tassi di sindacalizzazione, dopo una prima fase di crescita, a partire dal 2004 hanno iniziato a ridimensionarsi e la sindacalizzazione fatica a tenere un passo proporzionale con l’invecchiamento della popolazione.

Ma come valutare, nel complesso, i quasi 12.000.000 di iscritti a CGIL, CISL e UIL? Nelle discussioni sul tesseramento, a partire da un dibattito per la verità un po’ criptico dei primi anni Settanta, si pone un dilemma – che potremmo tradurre con parole attuali – tra “estensività” (numero) e “intensività” (qualità) del proselitismo. Infatti gli iscritti non pesano tutti allo stesso modo, esiste un problema di “qualità” del tesseramento,8 in parte da ricondurre al tipo di iscritto (attivo, non attivo ecc.), in parte legato alla strategicità del settore (il “potere vulnerante” di Sartori),9 in parte connesso alla concentrazione aziendale e settoriale degli iscritti (densità associativa). Non è questa la sede per approfondire una problematica poco frequentata anche dagli studiosi del settore, tuttavia si può provare a distinguere, sulla falsariga delle osservazioni svolte da Carrieri e da Regini,10 tra “forza” e “influenza” dei sindacati: la prima, la forza sindacale, riguarda il potere di contrattare le condizioni di lavoro e viene registrata dai tassi di sindacalizzazione specifici (di settore, di area, di azienda); la seconda, l’influenza sindacale, si riferisce al potere di condizionare l’agenda di politica economica dei governi. Misurare l’influenza sindacale è operazione ancora più impervia perché è alimentata da numerosi fattori: il tesseramento, i servizi sindacali, le elezioni dei rappresentanti di base (RSU), i repertori di azione collettiva (scioperi, manifestazioni, raccolta firme ecc.), i referendum sindacali, le iniziati-

Tabella 2. Le pratiche 730 operate dai CAF sindacali (valori assoluti e variazioni percentuali, anni 2000-2007).

ve di comunicazione diretta (assemblee), le azioni di comunicazione indiretta (tramite i media). Se, tuttavia, per coerenza con il tema del tesseramento, vogliamo restringere il nostro campo di osservazione ai contatti individuali volontari con le organizzazioni sindacali mediati da regolari dazioni di denaro, dobbiamo prestare attenzione alle sole prime due fattispecie già elencate: tesseramento e servizi. Nel caso italiano, si possono proporre tre indici di influenza sindacale: il “tasso di influenza sindacale ristretto”, che misura il rapporto tra iscritti occupati ed elettori; il “tasso di influenza sindacale normale”, che misura il rapporto tra iscritti totali (occupati, non occupati, pensionati) ed elettori; infine, il “tasso di influenza sindacale allargato”, che tenta di stimare una misura del rapporto tra contatti sindacali personalizzati (iscritti totali più utenti dei servizi) ed elettori. Il tasso di influenza sindacale ristretto si riduce dal 14,1% del 1986 al 12,1% del 2007. Il tasso di influenza sindacale normale, così come qui definito, passa nello stesso periodo dal 20,7% al 23,9%,11 con un aumento di oltre tre punti percentuali (Tabella 3).

Per comprendere meglio la reale influenza del sindacato sulle arene politiche elettorali bisogna tener conto anche della crescita dei servizi, qui esemplificati dalle pratiche di denuncia dei redditi: oltre 6 milioni nel 2007, con una crescita di 1 milione negli ultimi otto anni (Tabella 2). I servizi sindacali, infatti, hanno un effetto non solo nel favorire nuo-

Tabella 3. Alcuni indicatori dell’influenza sindacale (anni 1986-1996-2006).

vi canali di sindacalizzazione, ma anche nel rapporto con la politica.

Se teniamo conto che, di solito, almeno il 40% degli utilizzatori del servizio CAF non è iscritto ad un sindacato confederale, ma in qualche modo, per quanto lasco, ha un contatto consapevole con le sedi sindacali almeno una volta l’anno e consideriamo questa cifra come una stima della cerchia più esterna dell’influenza sindacale, si può costruire un tasso di influenza sindacale allargata, composto dalla somma di iscritti occupati, non occupati e pensionati, più il 40% dei clienti dei CAF sindacali. Il tasso di influenza sindacale allargata, così definito, passa dal 20,7% del 1986 al 29% circa del 2007 (Tabella 3). Come a dire, tenuto conto della presenza di molte altre fattispecie di servizi sindacali, che ogni anno almeno il 30% circa della popolazione adulta italiana ha una qualche relazione individuale, diretta e volontaria con una delle tre principali confederazioni sindacali.

Che il tema sia rilevante lo evidenzia la Tabella 4, dove sono registrati gli orientamenti di voto degli iscritti al sindacato. Come si vede il sindacato ha ancora un qualche potere di orientamento dell’elettorato, seppure declinante, specie a favore dei partiti pro-labor. Ma la tendenza odierna dei partiti, anche quelli di sinistra è di sganciarsi sempre più dal riferimento al mondo del lavoro e alle organizzazioni sindacali. Qui vi è un paradosso: i partiti e/o le coalizioni di sinistra non possono vincere senza quote rilevanti del voto dei lavoratori dipendenti – vale a dire della constituency sindacale – ma, per

Tabella 4. Gli orientamenti di voto secondo il sindacato di iscrizione (elezioni politiche 2008).

vincere, devono necessariamente ricercare anche altri consensi aggiuntivi, che si possono trovare quasi solo in altri segmenti professionali dell’elettorato. Segmenti che si possono intercettare solo se si dimostra di non essere subalterni ai sindacati.

Conclusione di questa sezione: il sindacato perde di forza nelle arene delle relazioni industriali, ma aumenta la sua capacità di influenzare le arene politiche istituzionali; tuttavia questa sua presenza è controversa, perché rende difficile ai partiti prolabor vincere le elezioni.

Alcune osservazioni conclusive

Mentre la spiegazione del declino sindacale nei comparti manifatturieri maturi sembra in toto riconducibile alle crisi occupazionali, i fattori che hanno contribuito alla ripresa delle iscrizioni ai sindacati in alcuni settori e alla loro stabilizzazione in altri sono più complessi da individuare. Si pensi ai casi dell’istruzione e del credito, dove la crescita degli iscritti non è in alcun modo riconducibile alle dinamiche del mercato del lavoro.

Come mai gli iscritti ai sindacati smettono di “andare via”,12 ovvero di calare anno dopo anno? Le ipotesi di spiegazione del parziale recupero che ha caratterizzato l’ultimo decennio sono riconducibili a quattro variabili indipendenti.

La prima è la “variabile mercatolavorista”: dopo una fase di calo/stagnazione dell’occupazione durata sino a metà degli anni Novanta, dal 1996 essa torna a crescere, con tassi più sostenuti tra il lavoro dipendente (+17,7%) rispetto alla stagnazione del lavoro indipendente. L’evidenza di un “effetto traino” da parte dei nuovi posti di lavoro sulla dinamica degli iscritti, seppure con una sfasatura temporale di due/tre anni, è ben visibile dai dati. I sindacati non sembrano aver colto a pieno le potenzialità offerte dall’espansione del mercato del lavoro: nel corso dell’ultimo decennio, infatti, le iscrizioni sono cresciute nel complesso del 4,5%, circa quattro volte di meno dell’aumento dei posti di lavoro (+16,2%), con la conseguenza di una diminuzione del tasso di sindacalizzazione che, nonostante l’incremento di tessere in valore assoluto, è passato dal 35,2% del 1996 al 31,7% del 2006. All’interno degli effetti della variabile mercatolavorista va inoltre ricordata la novità assoluta della sin- dacalizzazione dei lavoratori immigrati che, da sola, è in grado di dare conto quasi interamente dell’inversione di tendenza dell’ultimo periodo.

Le dinamiche del mercato del lavoro non spiegano tutto. Si può immaginare l’entrata in gioco di una “variabile organizzativa”, in grado di garantire un presidio, più o meno efficace, delle trasformazioni del mercato del lavoro a livello di settori e territori. Sembra questa la spiegazione più semplice per dare conto dei casi del settore dell’istruzione e del settore del credito, in positivo, e dei casi dei trasporti, meccanici e dell’agroindustria, in negativo.

Le medesime considerazioni possono essere riproposte, mutatis mutandis, a livello territoriale, perché non in tutte le regioni il trend degli iscritti può essere letto esclusivamente come effetto delle dinamiche occupazionali. La variabile organizzativa, infine, potrebbe spiegare le differenze nel livello e nella composizione degli iscritti delle tre organizzazioni (vedi Grafico 4 e Tabella 5).

Un terzo fuoco di attenzione si concentra sul ruolo svolto dalla variabile “servizi sindacali”, in particolare quelli più recenti, come i CAF, legge 413 del 1991, articolo 78. Mentre inizialmente gli iscritti costituivano il bacino principale di riferimento nell’attività dei CAF sindacali, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta una parte via via

Grafico 4. Composizione delle iscrizioni a CGIL, CISL e UIL (valori percentuali, 1986- 1996-2006).

crescente degli utenti dei CAF non è mai stata iscritta a un sindacato. La crescente eterogeneità della clientela che entra nelle sedi sindacali per fruire di un servizio può costituire un’opportunità di contatto, finanche una nuova “porta di ingresso” per aderire ad una organizzazione sindacale. Due segnali in questo senso sono rappresentati dal superamento, avvenuto nel 2001, del numero di dichiarazioni 730 realizzate dai CAF di CGIL e CISL rispetto agli iscritti occupati delle due confederazioni e dalle percentuali superiori al 40% di non iscritti che sono clienti dei CAF.

Una quarta variabile influente nell’aumento delle iscrizioni ai sindacati è una “variabile politicowelfarista”. Dalla metà degli anni Novanta si sono alternate al governo coalizioni eterogenee, ma tutte impegnate a ridurre la spesa pubblica e conseguentemente le politiche di welfare (pensioni, sanità, scuola, ammortizzatori sociali, mercato del lavoro ecc.). Ne è derivato un aumento della conflittualità sindacale, specie dopo il 2001. Con il secondo governo Berlusconi si assiste infatti ad un’amplificazione dei conflitti, in particolare di quelli legati a cause esterne al rapporto di lavoro. Nel corso del 2002, ad esempio, si rilevano ben quattro scioperi di questo tipo, che interessano complessivamente 4.553.000 lavoratori, per un totale di 27.921.000 ore lavorative perse: per rintracciare scioperi di questo tipo, paragonabili per dimensioni e durata, è necessario ritornare indietro di oltre un decennio, fino al 1990. L’accresciuta conflittualità politicosindacale non è di per sé causa diretta della crescita di iscritti alle confederazioni sindacali, ma segnala, piuttosto, un clima generale di maggiore preoc-

Tabella 5. Composizione delle iscrizioni a CGIL, CISL e UIL (valori assoluti 1986-2007).

cupazione tra i lavoratori dipendenti per le politiche pubbliche governative, in particolare sui temi del welfare e delle pensioni. Se le osservazioni svolte sono plausibili, l’azione confederale di contrasto alle politiche di riduzione della spesa e il timore di vedere ridotta l’area delle protezioni potrebbero aver agito da facilitatori delle azioni di proselitismo sindacale. Nonostante il declino dei tassi di sindacalizzazione nel ventennio considerato, e nonostante le profonde trasformazioni del milieu sindacale (più terziario, meno manifattura, più immigrati, più pensionati), i sindacati hanno mantenuto un loro ruolo rilevante nell’arena delle relazioni politico- sindacali, perché nel frattempo sono molto cresciuti quelli che abbiamo definito i tassi di influenza allargata (dal 20,7% circa del 1986 al 29% del 2007), grazie all’apporto integrativo offerto dal boom delle iscrizioni tra i pensionati e dall’analogo boom delle pratiche svolte dai servizi sindacali. Il dubbio già sollevato in altre occasioni,13 sulla scorta di analoghe perplessità sulle traiettorie del sindacalismo contemporaneo,14 è se questa strategia difensiva dei sindacati di fronte alle difficoltà degli anni Ottanta e Novanta non mostri alla lunga i suoi limiti, non fosse altro perché lo spostamento del fuoco d’azione sull’arena delle relazioni politico- sindacali lascia pericolosamente scoperto uno degli ancoraggi tradizionali dell’azione sindacale, vale a dire l’attività di rappresentanza, tutela e negoziazione nell’arena delle relazioni industriali, tipica dei settori privati. Un segnale di logoramento di questi “equilibri instabili” nelle strategie di aggiustamento sindacale può rinvenirsi proprio nelle difficoltà di nuova sindacalizzazione nell’industria, anche quando vengono meno – come si è visto – le condizioni negative dal lato del mercato del lavoro. D’altro canto, l’influenza nelle arene politiche appare sempre meno compatibile con le strategie di allargamento dei consensi elettorali dei tradizionali partiti di riferimento dei sindacati. Come uscire da questo doppio circolo vizioso costituisce la sfida contemporanea posta alle classi dirigenti dei sindacati confederali del nostro paese.

[1] Le elaborazioni sono state effettuate sui dati del tesseramento forniti dai dipartimenti organizzativi di CGIL, CISL e UIL, che ringraziamo per la disponibilità e la collaborazione. L’articolo anticipa alcuni primi risultati di una ricerca in corso di svolgimento.

[2] Per una disamina delle tendenze della sindacalizzazione in campo internazionale si vedano: P. Feltrin, La sindacalizzazione in Italia (1986-2004). Tendenze e dinamiche di lungo periodo, Edizioni Lavoro, Roma 2005; J. Visser, Union membership statistics in 24 countries, in “Monhtly Labor Review”, gennaio 2006, pp. 38-49.

[3] In generale, le informazioni sugli iscritti immigrati sono di fonte sindacale diretta, ad eccezione di alcuni dati desunti da Caritas, Immigrazione. Dossier statistico, Nuova Antarem, Roma 2001 e 2002.

[4] Nell’ipotesi semplificata, qui proposta a fini analitici, che gli iscritti immigrati debbano essere considerati come appartenenti al solo settore privato.

[5] I tassi di sindacalizzazione sui dipendenti sono calcolati in base ai dati occupazionali forniti dai Conti economici territoriali dell’ISTAT; i tassi possono cambiare se si utilizzano altre basi, come ad esempio i dati sulle forze di lavoro. A prescindere dalla base, i tassi di sindacalizzazione calcolati sul totale dei dipendenti restituiscono un’immagine sottodimensionata rispetto alla reale portata della presenza sindacale nei bacini di riferimento. Come è noto, infatti, in Italia l’azione sindacale è esigibile nelle imprese con oltre 15 dipendenti, ma inizia a diventare significativa in quelle con oltre 50 dipendenti. Il calcolo dei tassi di sindacalizzazione “reali” andrebbe dunque effettuato su un sottoinsieme di aziende di medie e grandi dimensioni e sui relativi dipendenti, con l’effetto immediato di innalzare il risultato qui presentato essendo la struttura del sistema italiano delle imprese notoriamente sbilanciata su aziende di piccole dimensioni.

[6] Il tasso si abbassa se prendiamo in considerazione lo stock di occupati stranieri iscritti all’INPS e all’INAIL, più elevato rispetto a quello rilevato dall’ISTAT.

[7] Qui più che altrove si dovrebbe tener conto della composizione degli occupati secondo la dimensione d’impresa.

[8] Se ne trova ancora qualche eco in G. Romagnoli (a cura di), La sindacalizzazione tra ideologia e pratica. Il caso italiano 1950-1977, Edizioni Lavoro, Roma 1980.

[9] G. Sartori, Il potere del lavoro nella società post-pacificata, in G. Urbani (a cura di), Sindacati e politica nella società post-industriale, Il Mulino, Bologna 1976, pp. 77-127.

[10] M. Carrieri, Il sindacato in bilico. Ricette contro il declino, Donzelli, Roma 2003; Carrieri, Una nuova aggregazione del lavoro, in G. Baglioni, D. Paparella, (a cura di), Il futuro del sindacato. Complessità e innovazione, Edizioni Lavoro, Roma, 2007, pp. 143-156; M. Regini, I sindacati europei fra logica dell’influenza e logica della rappresentanza, in “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 4/2003, pp. 75-83.

[11] Gli elettori 1986 e 2007 coincidono qui con la popolazione con 18 anni e più rilevata dall’ISTAT nei rispettivi anni.

[12] P. Lange, L. Scruggs, Where have all the members gone? La sindacalizzazione nell’era della globalizzazione, in “Stato e Mercato”, 55/1999, pp. 39-78.

[13] Si veda da ultimo P. Feltrin, Il sindacato tra arene politiche e arene delle relazioni industriali: equilibri instabili o sabbie mobili, in “Quaderni di Rassegna sindacale”, 4/2006, pp. 35-83.

[14] Si vedano in particolare: W. Streeck, J. Visser, An Evolutionary Dynamic of Union Organization, Max Planck Institute for the Study of Societies, Discussion Paper 98/4, Colonia 1998; J. Visser, Unions and Unionism, in J. T. Addison, C. Schnabel (a cura di), International Handbook of Trade Unions, Edward Elgar Publishing, Cheltenham 2003, pp. 366-413.