L'intervento dello Stato nell'economia

Di Silvano Andriani Lunedì 22 Dicembre 2008 19:34 Stampa

L’esperienza italiana di intervento pubblico nell’economia è stata significativa, e le imprese pubbliche hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo italiano nei primi anni del secondo dopoguerra. Un rinnovato intervento statale nell’economia sembra rendersi oggi necessario alla luce delle potenziali ricadute sull’economia reale della crisi finanziaria in atto. Affrontare questa sfida in una dimensione esclusivamente nazionale non avrebbe senso, e anche in materia di aiuti pubblici alle imprese l’Italia dovrebbe operare conformandosi alle linee guida elaborate a livello europeo. Un ripensamento del rapporto fra Stato e mercato non si limiterebbe quindi solo ad un allargamento della presenza pubblica alle imprese, ma della riappropriazione da parte dello Stato di una reale capacità di programmazione strategica in ambito economico.

Può essere interessante notare che la forma particolare assunta dall’intervento pubblico in Italia derivò da una crisi finanziaria e bancaria simile a quella attuale: la crisi del 1929, che dette origine alla grande depressione degli anni Trenta. Alcune banche di investimento che avevano fortemente sostenuto il processo di industrializzazione del triangolo industriale immobilizzando gran parte dei risparmi della clientela in partecipazioni di controllo di molte imprese, soprattutto siderurgiche, meccaniche e chimiche, si trovarono sull’orlo del fallimento a causa della crisi. Lo Stato garantì i risparmiatori, prese il controllo delle banche e, di conseguenza, anche il controllo di molte importanti imprese industriali. Da questa vicenda nacque poi l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Subito si affermò che il controllo statale sarebbe stato transitorio e che, successivamente, quelle imprese sarebbero state rimesse sul mercato. Se questo non avvenne fu certo per l’interesse che il governo fascista aveva a mantenere il controllo di imprese molto importanti per l’industria bellica, ma, soprattutto, perché il capitalismo privato non era in grado di assumere il controllo di quelle imprese. Questo ci introduce al discorso sulla particolarità del modello di intervento pubblico italiano, particolarità che fu teorizzata in corso d’opera dal gruppo di professional e intellettuali che inventò quel modello, che aveva come leader Alberto Beneduce, un socialista di scuola nittiana, e che comprendeva anche il giovane Pasquale Saraceno, che fu poi teorico e stratega del sistema delle partecipazioni statali e promotore di altre forme di intervento pubblico.

L’argomento classico con il quale si sosteneva allora in Europa la nascita di imprese pubbliche da parte non solo dei socialdemocratici, ma anche dei liberaldemocratici, era che le attività caratterizzate da una condizione di monopolio naturale o quasi andavano rese pubbliche attraverso la nazionalizzazione. Questa fu la motivazione con la quale fu sostenuta e ottenuta anche in Italia la nazionalizzazione dell’industria elettrica negli anni Sessanta. La nascita dell’IRI ebbe caratteristiche diverse in quanto causata da una crisi bancaria e coinvolse imprese che non erano in condizione di monopolio naturale. La motivazione con la quale fu poi sostenuta la sopravvivenza dell’IRI faceva riferimento alla inadeguatezza del capitalismo italiano rispetto alle esigenze di sviluppo del paese e alla necessità che lo Stato vi contribuisse generando una capacità imprenditoriale e manageriale aggiuntiva.

Indubbiamente le imprese pubbliche concorsero potentemente allo sviluppo italiano per i primi decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale, e questo consentì all’Italia di conseguire posizioni di tutto rispetto in settori industriali di grande importanza. Tale ruolo si rafforzò con la nascita dell’ENI. Le imprese pubbliche, anche per merito delle loro scuole di formazione manageriale, generarono una leva di manager altamente qualificati, e si può dire che, almeno per alcuni decenni, esse rappresentarono quanto di più vicino all’impresa manageriale si sia avuto in un paese dove il controllo delle grandi imprese private era totalmente in mano alle famiglie. Anche la forma giuridica assunta – quella, appunto, delle imprese a partecipazione statale, cioè società per azioni controllate da un ente pubblico con funzioni di holding – era decisamente più flessibile e suscettibile di consentire politiche di sviluppo, attraverso la mobilità delle risorse di cui il sistema disponeva, rispetto alle imprese nazionalizzate costrette ad operare all’interno di una specifica attività.

La nascita di un settore di imprese pubbliche dotate di capacità di espansione in un sistema economico ancora abbastanza protetto creava inoltre un problema di bilanciamento del potere con le grandi imprese private. Vi era poi un altro aspetto di quel bilanciamento: la Democrazia Cristiana (e il suo personale politico), insediata saldamente al potere dopo la vittoria elettorale del 1948, tendeva ad allargare il suo controllo sull’economia, sulla quale il mondo cattolico aveva avuto sino ad allora scarsa presa, e doveva fare i conti con un personale professionalizzato già presente di estrazione liberale o socialista, comunque prevalentemente “laico”.

Il caso di Mediobanca è emblematico di tale equilibrio. Essa fu deputata ad essere il terreno di incontro e di mediazione fra il sistema delle imprese pubbliche e le grandi famiglie del capitalismo italiano. Arbitro di tale mediazioni fu, finché tale ruolo durò, Enrico Cuccia, che proveniva anch’egli dal gruppo di manager “laici” guidati da Beneduce che aveva dato origine al sistema delle partecipazioni statali. Tutto il settore bancario, che la legge del 1936 aveva posto in larga misura sotto il controllo pubblico, fu caratterizzato da un equilibrio di potere tra la componente cattolica e quella laica: il sistema delle casse di risparmio, delle banche popolari e di credito cooperativo fu largamente controllato dalla componente cattolica, mentre Banca d’Italia rimase a lungo diretta da uomini di formazione laica, che rimasero ben presenti anche nella direzione delle grandi banche. La convinzione diffusa fra tutte le forze politiche che compito della presenza pubblica fosse quello di supplire alle carenze del capitalismo italiano portò inevitabilmente l’intervento pubblico a gravitare sul principale problema strutturale dell’Italia: lo squilibrio Nord/Sud. Negli anni Cinquanta, accanto agli Enti di riforma agraria, nacque la Cassa per il Mezzogiorno.

È probabile che i teorici di quella iniziativa, Giorgio Ceriani Sebregondi e Pasquale Saraceno, avessero come riferimento alcune interessanti esperienze di programmazione realizzate negli Stati Uniti negli anni di Roosevelt. L’esperienza italiana fu, tuttavia, segnata sin dall’inizio da una torsione centralistica. La Tennessee Valley Autority e le altre agenzie collocate in altre valli avevano una dimensione strettamente territoriale, essendo deputate ad immettere capacità imprenditoriali e organizzative in un determinato territorio allo scopo di stimolare la generazione di una imprenditorialità locale. La Cassa del Mezzogiorno, invece, ebbe subito una struttura centralizzata e, benché i suoi teorici avessero definito la straordinarietà di quell’intervento in relazione alla necessità di introdurre dall’esterno capacità imprenditoriali e organizzative, essa degradò rapidamente nella semplice nozione di aggiunta di mezzi finanziari. La Cassa diventò un centro di promozione di opere pubbliche sostitutivo in gran parte delle funzioni degli enti locali.

In ogni caso, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, il dibattito e l’iniziativa di politica economica si concentrarono sulla “questione meridionale”. Le elaborazioni politiche furono di grande interesse e riguardarono anche il ruolo del sistema delle imprese pubbliche, e culminarono nel primo e ultimo tentativo di programmazione concertata fatto in Italia dai primi governi di centrosinistra all’inizio degli anni Sessanta.

Sulle cause dell’insuccesso di quella esperienza si è scritto molto. Al di là dell’evidente decalage che esisteva tra le ambizioni riformiste di quella iniziativa e una maggioranza di governo nella quale forte era il peso dell’elettorato di destra presente nella DC, vale la pena mettere in evidenza una realtà, che fu analizzata da intellettuali come Giorgio Ruffolo e Giuliano Amato e che ancora esiste: la mancanza di capacità di elaborazione strategica negli apparati dello Stato. Le idee scaturivano al livello politico, ma mancava nella struttura dello Stato la capacità di organizzarle e attuarle. Tale situazione si ripresentò nell’occasione dei tentativi della “programmazione per progetti” e della “programmazione settoriale” fatti negli anni Settanta. Quel tanto di capacità di elaborazione strategica che esisteva era fuori degli apparati dello Stato, in Mediobanca o nel sistema delle partecipazioni statali che finivano per decidere l’effettiva politica industriale del governo. Niente a che vedere con il ruolo che in Francia svolgeva il ministero dell’Industria o in Giappone il MITI.

Tutte le forze politiche concordarono su alcuni punti: che il problema principale dell’Italia fosse lo squilibrio Nord/Sud e che esso andasse superato; che la strada per conseguire tale obiettivo fosse l’industrializzazione del Mezzogiorno; che il ruolo dell’intervento pubblico fosse decisivo. Esse, tuttavia, si dividevano nettamente sul modello di industrializzazione da seguire. La maggioranza al governo propendeva prevalentemente per un modello di sviluppo squilibrato, che puntava sull’impatto dell’intervento di grandi imprese dall’esterno dell’area per rompere, nelle diverse realtà, le situazioni di sottosviluppo, e assegnava alle imprese pubbliche un ruolo fondamentale e diretto. L’opposizione e parte della maggioranza propendevano per uno sviluppo di tipo equilibrato, sull’esempio di quanto stava accadendo in Emilia e Toscana, nel quale l’intervento pubblico doveva soprattutto operare per fare crescere l’imprenditoria locale. Prevalse il primo approccio, e non tanto per la forza degli argomenti teorici quanto per la pressione delle imprese a partecipazione statale che vedevano da esso esaltato il proprio ruolo. L’attuazione di quella strategia avvenne soprattutto attraverso un sistema di incentivazione assolutamente straordinario, la “programmazione contrattata”, per cui il governo contrattava gli interventi con le imprese e concedeva contributi massicci. In effetti, la quantità di risorse impiegate fu enorme, a testimonianza della reale volontà di risolvere il problema meridionale, e gli interventi si concentrarono per quattro quinti circa nella costruzione di impianti siderurgici e petrolchimici effettuati in gran parte dalle imprese pubbliche.

Quella strategia, difettosa in sé per la sua scarsa capacità di stimolare la crescita dell’imprenditoria locale e di connettere lo sviluppo industriale alla modernizzazione dell’agricoltura, fu ferita a morte dall’esplosione del prezzo del petrolio e del costo dell’energia che si verificò negli anni Settanta. La politica di industrializzazione del Mezzogiorno collassò e da allora non si è più ripresa. Gli anni Ottanta hanno conosciuto un processo di regressione e anche di degenerazione dell’intervento pubblico. I tentativi di riformare la Cassa del Mezzogiorno per riportarla al compito per il quale era stata creata e che non aveva mai svolto, rompendo il blocco di potere che si era formato intorno al finanziamento ininterrotto di opere pubbliche, fallirono. Le imprese a partecipazione statale, prive ormai di una chiara missione nazionale, dovettero fare i conti con le conseguenze pesantissime del fallimento della strategia di industrializzazione seguita; furono con maggiore frequenza, per motivi elettorali, orientate dal potere politico ad acquistare imprese private in crisi; videro ridotta la loro autonomia imprenditoriale da un intervento politico che diventava sempre più pervasivo. In tali condizioni esse non erano in grado di adattarsi al processo di internazionalizzazione reso necessario dall’accelerazione del processo di globalizzazione provocato dall’avvento al potere di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margaret Thatcher in Gran Bretagna.

Il paradosso, che in qualche modo preludeva al collasso della prima Repubblica, fu che mentre le imprese pubbliche perdevano motivazioni e degeneravano, aumentava la volontà dei governi di interferire nelle loro scelte. L’esercizio del potere di nomina fu portato per la prima volta in quegli anni sin dentro il perimetro di Mediobanca, che Cuccia era riuscito fino ad allora a proteggere, rompendo un equilibrio di potere che durava da decenni. Vale la pena di ricordare che proprio in quegli anni, grazie alle politiche seguite dai governi, le grandi imprese private rifiorivano. I media cantavano le gesta dei grandi capitani di industria – De Benedetti, Gardini, Schimberni, Romiti – in realtà trasformatisi in uomini di finanza, e delle loro scalate.

Le grandi imprese italiane seguirono la strada opposta a quella seguita in tutti gli altri paesi avanzati che puntava sulla concentrazione nel core business e sull’internazionalizzazione. Si dettero ad espandersi in tutti i campi all’interno del paese e posero così le premesse della propria crisi. Negli anni Novanta si è verificato il ridimensionamento delle grandi imprese. Enti di gestione delle imprese pubbliche come IRI, EFIM (Ente Partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere), EGAM (Ente Gestione Attività Minerarie) sono scomparsi, ma la loro scomparsa e le privatizzazioni, effettuate soprattutto dai governi di centrosinistra, non hanno portato ad un aumento degli spazi coperti dalle grandi imprese private. Anzi, alcune di esse sono scomparse; nel complesso si sono ridimensionate e il risultato è stato che l’Italia è uscita da alcuni settori molto importanti come la chimica di qualità e l’elettronica.

Affrontare il tema dell’intervento pubblico oggi è molto difficile e non avrebbe senso farlo in una dimensione esclusivamente nazionale. Dalla crisi fi- nanziaria del biennio 2000-02 abbiamo assistito al rilancio da parte degli Stati Uniti di politiche di sostegno della domanda attraverso il bilancio pubblico, e ora, di fronte alla crisi finanziaria più grave dopo quella del 1929, assistiamo ad interventi di salvataggio a tutto campo dei sistemi finanziari. Essi sono necessari, e hanno il pregio di aver realizzato per la prima volta un notevole coordinamento degli interventi dei diversi paesi, ma sono rivolti ad evitare la catastrofe e non il frutto di una nuova visione del rapporto Stato-mercato. Essi, inoltre, sono una plateale violazione della regola che impediva aiuti statali a singole imprese, e rappresentano quindi una palese violazione delle regole della concorrenza. È difficile che tale politica di aiuti resti circoscritta alla finanza, tenuto conto delle condizioni critiche in cui versa l’economia reale e, d’altro canto, il governo americano ha già esteso l’aiuto al settore automobilistico.

L’evoluzione dell’intervento pubblico in ciascun paese dipenderà largamente dalla intensità dell’intreccio fra crisi finanziaria e recessione, dalle risposte che saranno date e dalle forze politiche al governo. Il ruolo di consumatore di ultima istanza svolto dai paesi anglosassoni negli ultimi anni nell’economia mondiale, alimentato dall’effetto-ricchezza prodotto dalla bolla immobiliare, è finito. Paesi come Germania, Cina, Giappone, abituati ad una crescita trainata dalle esportazioni, potranno avere difficoltà a rilanciare in tempi non lunghi la domanda interna per alimentare a loro volta la domanda mondiale. Nei paesi anglosassoni e nell’economia mondiale, indebitamento pubblico e privato ha raggiunto livelli ben superiori a quelli record raggiunti nel 1929, che indussero allora Irvin Ficher a teorizzare la depressione degli anni Trenta con la debt deflation theory, e l’indebitamento pubblico aumenterà ancora in modo rilevante in seguito agli interventi di salvataggio in corso. Ora il rischio non è la recessione, che è una certezza; il rischio è la depressione.

Se un tale scenario si prospettasse, la politica potrebbe trovarsi di fronte a scelte piuttosto drammatiche, ivi compresa quella fra deflazione e inflazione. Nel ridefinire il ruolo dello Stato nell’economia con un’ottica di lungo periodo, obiettivo principale dovrebbe essere quello di ridare ad essa una certa lungimiranza, soprattutto nel definire il rapporto tra generazioni presenti e future nell’uso del- le risorse finanziarie e ambientali. Cosa di cui il mercato è incapace per il fatto che le generazioni future non sono in esso presenti.

La crisi può essere l’occasione, oltre che per rifondare la regolazione dei mercati finanziari dando ad essa una dimensione veramente mondiale, per riformare le grandi istituzioni internazionali anche attraverso una cessione di sovranità. Fondo monetario e Banca mondiale sono largamente depotenziati e scarsamente rappresentativi. Rilanciarli significa non solo renderli rappresentativi della nuova realtà mondiale, ma dotarli anche di un effettivo potere di coordinamento delle politiche economiche dei diversi paesi, compresi gli Stati Uniti, che finora si sono sempre opposti. Inoltre, poiché surplus strutturali derivanti dalla vendita del petrolio comunque permarranno, bisognerebbe dare alle istituzioni internazionali un ruolo nel riciclaggio di tali surplus, anche attraverso operazioni di mercato, per utilizzarli in modo da rendere più equilibrato lo sviluppo dell’economia mondiale. In questa prospettiva potrebbe essere valutata la possibilità di fondere Banca mondiale e Fondo monetario. Infine, i fatti stanno rendendo sempre più evidente la pericolosità di una situazione nella quale una moneta nazionale e la politica monetaria di un singolo paese finiscono col determinare l’andamento dell’economia mondiale. Rilanciare l’idea di una moneta mondiale può essere oggi eccessivo, ma non dovrebbe essere impossibile rilanciare l’idea di una unità di conto, gestita dalle istituzioni internazionali, il cui valore dipenda dall’andamento delle principali monete.

Può sembrare velleitario pretendere di realizzare ora quello che non si è riuscito a realizzare in tanti anni, ma proprio le fasi di crisi possono consentire l’accelerazione delle riforme. E poi l’alternativa sarebbe probabilmente una spirale di comportamenti protezionistici che metterebbe a dura prova anche la tenuta dell’Unione europea. A livello europeo bisognerebbe rimettere in discussione il Patto di stabilità e non solo per le ragioni che sono state più volte inutilmente evocate: ad esempio, non conteggiare le spese destinate ad investimenti e alla realizzazione degli obiettivi di Lisbona. Ora si tratterebbe di prendere atto che l’assunzione del livello di indebitamento pubblico come unico parametro per stabilire il contributo che ciascun paese dà alla stabilità dell’economia reale è riduttivo, e che occorre considerare insieme ad esso l’indebitamento privato e il tasso di risparmio; in altri termini, l’esistenza o meno di una tendenza strutturale ad indebitarsi sull’estero. Si tratterebbe inoltre di orientare allo sviluppo la politica macroeconomica dell’Unione, che finora è stata quasi esclusivamente orientata al controllo dell’inflazione. Obiettivo della politica monetaria e di bilancio dovrebbe essere il conseguimento di un tasso nominale di crescita pari al tasso di crescita potenziale più il tasso di inflazione che in quella fase si ritiene accettabile. Un tale obiettivo potrà essere realizzato modificando il modello distributivo: la riduzione delle disuguaglianze non solo comporta una maggiore giustizia sociale, ma può generare una crescita della domanda interna più adeguata alle esigenze di sviluppo e, nel lungo periodo, aumentare la mobilità sociale, dando a più persone la possibilità di realizzare le proprie capacità. Altra strada potrebbe essere la realizzazione di una strategia di investimenti pubblici in infrastrutture, coordinata a livello europeo, e in parte realizzata direttamente dall’Unione anche con emissione di propri titoli di debito.

In Italia, Berlusconi ha già annunciato il ritorno degli aiuti pubblici alle imprese e, tenuto conto della tradizione, c’è il rischio che le decisioni vere per regolare i rapporti all’interno del capitalismo italiano vengano prese in sedi diverse da quelle pubbliche e che si assista ad una versione peggiorata del ruolo di Mediobanca. È necessario allora che i criteri di tali aiuti vengano definiti a livello europeo, in modo da evitare una rincorsa di aiuti competitivi che alimenterebbe spinte protezioniste. E che in Italia le decisioni avvengano in modo trasparente e nelle sedi pubbliche appropriate.

Considerando le cose con un’ottica di più lungo periodo, anche in Italia bisognerebbe attuare le direttrici di sviluppo delineate per L’Europa. Una revisione del modello distributivo è più che dovuta, tenendo conto che siamo fra i paesi avanzati con i più alti livelli di disuguaglianza, e questo implica la riforma dei grandi meccanismi che determinano la distribuzione del reddito: sistema contrattuale, sistema fiscale, sistema previdenziale. Anche la strategia di investimenti pubblici in infrastrutture hard e soft è per l’Italia particolarmente importante, dato il deficit che abbiamo in questo campo, specie nel Mezzogiorno. Qui il pro- blema sarà quello di creare delle norme e una capacità regolamentante e organizzativa degli enti pubblici che consentano la mobilitazione massima di risorse private per la realizzazione di infrastrutture secondo gli obiettivi fissati.

Infine, bisognerebbe tornare a parlare di politica industriale e, soprattutto, bisognerebbe finalmente dotare lo Stato di una effettiva capacità di programmazione strategica, creando magari una nuova struttura, un’agenzia ad hoc dotata di personale altamente professionalizzato. Non si tratta di allargare la presenza dello Stato nelle imprese, ma di acquisire la capacità di prevedere gli sviluppi dell’economia mondiale e di individuare i campi nei quali il paese può affermarsi, e concentrare in essi gli interventi, dalla ricerca alle altre forme di incentivi. Si tratta di favorire la nascita di entità finanziarie private o pubblico/private deputate a fare emergere e sviluppare le risorse imprenditoriali presenti, specie nel Mezzogiorno.

Definire un nuovo rapporto pubblico/privato nel campo del welfare, mobilitare risorse finanziarie private nel campo delle infrastrutture, attrezzarsi a prendere rischi per fare nascere imprese e inventare nuovi modelli di finanziamento significa realizzare un riorientamento del sistema finanziario. E lo Stato dovrà mettersi in grado di dialogare con esso e di definire regole che lo inducano ad operare a stretto contatto con l’economia reale nella consapevolezza che, come la crisi in atto torna a dimostrare, in ultima analisi, il rendimento del capitale finanziario dipende dalle performance dell’economia reale.