L'Italia e l'economia politica di John Maynard Keynes

Di Marco Missaglia Lunedì 22 Dicembre 2008 19:06 Stampa
L’Italia sta attraversando una crisi che è al tempo stesso strutturale e ciclico-finanziaria. L’unica via d’uscita dalla più pericolosa delle due – quella strutturale – è u ritorno agli insegnamenti più validi del keynesismo: non soldi pubblici per incentivi a settori in declino, non soldi pubblici per sanare debiti privati, ma una politica di spesa per l’innovazione, la ricerca e la formazione del capitale umano.

Le crisi di tipo keynesiano

La crisi economica in corso ha indotto diversi attori della scena politico-sociale a ripescare alcune idee di sapore keynesiano. C’è chi lo ha fatto in modo interessato e chi in modo più autentico; fatto sta che si moltiplicano le richieste di un qualche intervento pubblico, vuoi a sostegno delle banche, vuoi delle imprese, vuoi a sostegno del consumo di beni specifici, vuoi per rilanciare i redditi delle famiglie e i consumi in generale. D’altra parte, molti governi hanno già assunto decisioni in tal senso, prevalentemente a sostegno del settore finanziario. In alcuni casi, pensiamo in particolare alle scelte dell’esecutivo francese, l’intervento pubblico sembra spingersi molto al di là della sfera puramente finanziaria dell’economia. In una simile babele di richieste e decisioni, può essere di una qualche utilità cercare di fare chiarezza sull’essenza dell’economia politica keynesiana. Non tanto per distribuire patenti di autentico keynesismo quanto, piuttosto, per districarsi in mezzo a quella babele e cercare di distinguere le buone politiche dalle cattive. Il tipo di crisi che il nostro paese sta attraversando è di tipo keynesiano? Diciamo subito che ci sono sostanzialmente due tipi di crisi che possono ragionevolmente definirsi keynesiane; le possiamo chiamare “equilibrio di sotto-occupazione puro” e “crisi da tesoreggiamento”. Nel primo caso, l’economia spende tutto il reddito che effettivamente produce e distribuisce (non c’è tesoreggiamento), ma meno del reddito che potenzialmente potreb- be produrre; nel secondo caso, invece, l’economia spende meno del reddito effettivamente prodotto e distribuito, il che significa che vi sono alcuni attori sociali che stanno trattenendo parte del potere d’acquisto di cui dispongono. In entrambi i casi, e sia pure per ragioni diverse, c’è un problema di domanda insufficiente a garantire la piena occupazione e un utilizzo più o meno completo della capacità produttiva esistente. Che in Italia vi sia in questo periodo domanda insufficiente a garantire il pieno utilizzo della capacità produttiva è del tutto evidente (crollo dei consumi, ricorso crescente alla cassa integrazione e allentamento dell’ossessione inflazionistica della BCE costituiscono segnali inequivocabili in tal senso); possiamo anche ipotizzare che non vi sia tesoreggiamento (che sarebbe il caso keynesiano per eccellenza, ma si vuole qui mostrare che anche quando non c’è tesoreggiamento l’analisi di Keynes ha molto da insegnarci). L’economia italiana è intrappolata in un equilibrio di sotto-occupazione. Altra caratteristica rilevante dell’economia italiana è il suo elevato grado di indebitamento pubblico, aspetto di grande importanza sul quale ci soffermeremo nella parte finale dell’articolo. Che fare? Un semplicissimo esempio numerico aiuterà il lettore a cogliere gli insegnamenti autentici e davvero straordinari di Keynes, così come a liberarsi da certa, pericolosa saggezza convenzionale.

Un esempio stilizzato

Si consideri una economia in cui vi siano 10 abitanti/lavoratori (ai fini della nostra analisi si può, per pura semplicità, ipotizzare che la popolazione attiva coincida con quella totale). L’economia fittizia che stiamo considerando è chiusa agli scambi con l’estero, ipotesi evidentemente non realistica, il cui senso verrà integralmente chiarito nella nota 2. Si producano due beni, il bene 1 e il bene 2, la cui specifica natura merceologica non ha per il momento alcuna importanza. Per ora è più agevole pensare che si tratti di beni di consumo. La domanda pro capite di bene 1 sia pari a 10 unità, la domanda pro capite di bene 2 sia pari a 5 unità. Ne segue che la domanda complessiva espressa dai 10 abitanti è pari a 100 unità di bene 1 e 50 unità di bene 2. Quanto lavoro occorre per produrre tali quantità e soddisfare così la domanda espressa dai consumatori? Naturalmente ciò dipende dalla tecnica produttiva in essere. Immaginiamo, ancora una volta per pura semplicità, che si tratti di una tecnica assai semplice, che utilizza soltanto lavoro facendo a meno dei macchinari e di altre forme di capitale. Diciamo allora che in base alla tecnica in essere si devono utilizzare 0,05 lavoratori (ovvero un ventesimo del tempo di lavoro di una persona) per produrre una unità di bene 1 e 0,04 lavoratori per produrre una unità di bene 2. Fatti i conti, servono 0,05x100+0,04x50=7 lavoratori per soddisfare integralmente le domande dei consumatori. Dato che l’offerta complessiva di lavoro è pari 10, il tasso di disoccupazione di questa economia fittizia è pari al 30%.

Che dire dei prezzi? Per stabilirne il livello occorre necessariamente fissare il salario: supponiamo che a ciascun lavoratore si riconosca un salario pari a 2. Dal momento che in questa economia fittizia il prezzo di vendita di ciascuna merce deve servire alla remunerazione del solo fattore lavoro, possiamo affermare che il prezzo di una data merce sarà pari al salario moltiplicato per la quantità di lavoro necessaria a produrne una unità. Nel caso della merce 1, il prezzo sarà pari a 2x0,05=0,1; il prezzo della merce 2 sarà invece pari a 2x0,04=0,08. La spesa pro capite in questa economia sarà perciò pari a 0,1x10+0,08x5=1,4. La spesa complessiva sarà pari alla spesa pro capite moltiplicata per il numero di abitanti/consumatori, 1,4x10=14. Vale la pena di notare che anche il PIL (il valore della produzione realizzata) è pari a 14 (0,1x100+0,08x50). Non solo, anche i redditi (in questo caso esclusivamente salari) distribuiti sono pari a 14 (un salario pari a 2 per ciascuno dei 7 lavoratori). Spesa complessiva (keynesianamente dovremmo dire domanda effettiva), valore della produzione e redditi distribuiti coincidono e sono tutti pari a 14. La spesa complessiva può raggiungere il suo valore in infiniti possibili modi: a scopi puramente illustrativi supporremo che ciascuno dei 7 occupati, pur ricevendo un salario pari a 2, spenda soltanto 1,4 e depositi il proprio risparmio (0,6) in qualche banca. Il risparmio complessivo (0,6x7=4,2) viene poi prestato ai 3 disoccupati (credito al consumo), i quali perciò sono in grado di spendere, pure loro, 1,4 (ovvero 4,2/3).

È chiaro che in questa economia c’è un potenziale produttivo inespresso, una capacità produttiva inutilizzata. Infatti, se anche i 3 disoccupati po- tessero lavorare e ricevessero il salario corrente pari a 2, il reddito complessivo dell’economia sarebbe pari a 20. Diremo che 20 è il reddito potenziale (o di piena occupazione) dell’economia, mentre 14 rappresenta il reddito effettivo. Il problema di politica economica è immediato: come si può riportare il reddito effettivo al livello di quello potenziale, o comunque ridurre la distanza fra i due?

Stimolare i consumi o ridurre i salari? Aiutare le famiglie o sostenere le imprese?

Il lettore sufficientemente paziente può facilmente verificare, rifacendo gli stessi identici calcoli svolti nella sezione precedente, che se la domanda pro capite di bene 1 fosse pari 12 (invece di 10) e la domanda pro capite di bene 2 fosse pari a 10 (invece di 5), non vi sarebbe più neppure un disoccupato e il reddito effettivo corrisponderebbe a quello potenziale.1 Tutta la capacità produttiva dell’economia verrebbe integralmente utilizzata. Ma come si può giungere a questo esito? La difficoltà sta tutta qui, nel capire il processo attraverso cui avvicinare il reddito effettivo a quello potenziale. L’esecutivo potrebbe pensare di indurre i cittadini/consumatori a spendere di più mandando in onda sulle reti televisive uno spot pubblicitario in cui si vedono i passanti ringraziare calorosamente coloro che escono dal supermercato con ceste strapiene. Evidentemente si tratterebbe di una sciocchezza: se coloro che dispongono di un reddito, gli occupati, decidessero di comprare 12 unità del bene 1 e 10 unità del bene 2, la loro spesa pro capite sarebbe pari a 0,1x12+0,08x10=2. Essi, cioè, spendendo tutto il loro reddito, non risparmierebbero più nulla e non sarebbe più possibile erogare alcun credito al consumo ai disoccupati. La spesa complessiva dell’economia rimarrebbe perciò invariata, 2x7=14 (invece di 1,4x10=14). Il punto che l’esempio dovrebbe aver chiarito è che l’economia sta già spendendo tutto ciò che produce (14), pur non spendendo tutto ciò che potrebbe produrre (20). E, ovviamente, non è possibile chiedere al settore privato, ovvero alle famiglie, di spendere in aggregato una somma eccedente i redditi prodotti: ciò è semplicemente impossibile.2 Come se ne esce? La tentazione fortissima, negli ultimi anni diffusa anche a sinistra, è di imputare la disoccupazione, cioè un disequilibrio sul mercato del lavoro, agli eccessi salariali. L’argomento può essere illustrato con l’aiuto dell’esempio numerico di cui già disponiamo. Se il salario diminuisse, diciamo da 2 a 1,5, le imprese sarebbero incentivate ad utilizzare più lavoratori. Diciamo che nel settore 1 non si domanderebbero più 0,05, ma 0,07 unità di lavoro per la produzione di una unità di merce 1; e che nel settore 2 si domanderebbero non più 0,04, ma 0,06 unità di lavoro per la produzione di una unità di merce 2. Evidentemente ciò implicherebbe anche una caduta della produttività del lavoro (ci vogliono più lavoratori per produrre la medesima quantità di merce).3 A conti fatti, seguendo il procedimento oramai noto che non vale più la pena di ripetere, l’economia riuscirebbe ad impiegare tutto il lavoro disponibile e la domanda effettiva coinciderebbe questa volta sia con il reddito effettivo che con il reddito potenziale (questa volta pari a 15, ovvero al nuovo livello salariale moltiplicato per il numero totale di lavoratori). Si tratta tuttavia di una falsa soluzione, per due ragioni. In primo luogo, se per impiegare tutto il lavoro disponibile l’economia è costretta ad abbassare la produttività media, si tratta di un regresso bello e buono. “Sviluppo”, quale che sia il significato che si attribuisce a questo termine, deve implicare crescita della produttività del lavoro e salari reali più elevati: tutta la storia del capitalismo è lì a dimostrarlo. Secondariamente, la soluzione prospettata è in realtà affetta da un errore logico che caratterizza tutta l’economia neoclassica e che un grande economista italiano, Luigi Pasinetti, ha avuto il merito di dimostrare in modo rigoroso e incontrovertibile. Abbiamo ipotizzato che una riduzione generalizzata del salario portasse tutte le imprese del sistema, quelle operanti nel settore 1 e quelle operanti nel settore 2, a domandare più lavoro. Si tratta tuttavia di una ipotesi insensata. Infatti, mentre dal punto di vista della singola impresa può avere senso pensare che la domanda di lavoro vari inversamente col salario, quando si passa a considerare il sistema economico nel suo insieme ci si scontra immediatamente con un dato inconfutabile: per ciascuna singola impresa il salario pagato dalle altre imprese (il sistema, appunto) costituisce la fonte di domanda per i propri prodotti. Se dunque si dà luogo ad una riduzione generalizzata dei salari è naturale attendersi che le imprese si aspettino una corrispondente diminuzione della domanda per i propri prodotti. Il risultato netto sulla domanda di lavoro è perciò, per lo meno, ambiguo: può anche darsi che per produrre una singola unità di merce le imprese domandino più lavoro, ma simultaneamente si attendono di produrre meno unità di merce. Dunque: se un’economia si trova in equilibrio di sotto-occupazione, né un generico stimolo ai consumi né tanto meno una riduzione generalizzata dei livelli salariali servono a colmare il gap fra reddito effettivo e reddito potenziale. Ammesso (e non concesso) che la seconda ricetta funzioni, il prezzo da pagare è enorme: una tendenziale riduzione della produttività del lavoro, ovvero un passo indietro nel processo di sviluppo economico. Che fare, allora? Può servire una opportuna redistribuzione del reddito a favore delle categorie sociali con una maggiore propensione a spenderlo, ovvero delle categorie sociali più svantaggiate?

La redistribuzione del reddito

Torniamo al nostro esempio, e continuiamo a supporre che la domanda effettiva sia pari a 14. Ipotizziamo però che a questo valore si arrivi in modo diverso da quello precedentemente illustrato. Immaginiamo che al 50% dei lavoratori impiegati nel settore 1 si riconosca un salario pari a 2,5 e al restante 50% dei lavoratori si riconosca un salario pari a 1,5. Lo stesso accada nel settore 2. In media, perciò, il salario continua ad essere pari a 2 in entrambi i settori . Ne segue che i prezzi calcolati in precedenza continuano a valere. Nell’economia vi sono ora 3,5 lavoratori che percepiscono un salario pari a 2,5 (i “ricchi”); 3,5 lavoratori che percepiscono un salario pari a 1,5 (la “classe media”) e, infine, 3 disoccupati (“i poveri” o potenzialmente tali). Come dicevamo, la domanda effettiva continua ad essere pari a 14, ma, ipotizziamo, ci si arriva diversamente: a) ciascun ricco compra 10 unità del bene 1 e 5 unità del bene 2. Per farlo, spende, come nel caso precedente, 1,4. Il suo risparmio è ora pari a 2,5-1,4=1,1. Il risparmio complessivo dei ricchi sarà allora pari a 1,1x3,5=3,85. Ciascun ricco spende il 56% del proprio reddito (1,4/2,5); b) ciascun esponente della classe media compra 10 unità del bene 1 e 5 unità del bene 2. Rifacendo i me- desimi conti del punto precedente, si scopre che il risparmio complessivo della classe media è ora pari a 0,35 e che ciascun suo esponente spende poco più del 93% del proprio reddito (1,4/1,5); c) infine, i 3 disoccupati, esattamente come nel caso precedente, ricevono in prestito il risparmio accumulato dalle altre categorie (3,85+0,35=4,2) e lo spendono interamente nell’acquisto di beni di consumo. Essi spendono cioè il 100% del loro reddito disponibile. Sin qui abbiamo detto l’ovvio: che all’aumentare del reddito personale si riduce la frazione del reddito stesso destinata alla spesa. Che succederebbe, allora, se il governo facesse pagare ai ricchi una imposta pari a 0,25 (il 10% del loro reddito) e la trasferisse agli esponenti della classe media? Il reddito netto di ciascun ricco sarebbe ora pari a 2,5-0,25=2,25 e quello degli esponenti della classe media pari a 1,5+0,25=1,75. Le distanze si sono ravvicinate, ma i ricchi restano sempre saldamente i più ricchi. Perciò possiamo continuare ad ipotizzare, molto ragionevolmente, che il primo gruppo tenda a spendere una frazione del proprio reddito netto inferiore al secondo. Mantenendo per pura semplicità gli stessi numeri di prima, i ricchi spenderanno ora il 56% di 7,875 (ovvero di 2,25x3,5), cioè 4,41; gli esponenti della classe media spenderanno ora il 93% di 6,125 (ovvero di 1,75x3,5), cioè 5,71; infine, i 3 disoccupati spenderanno i risparmi delle altre categorie sociali, ovvero, fatti i conti, spenderanno 3,874. È immediato verificare che la domanda effettiva dell’economia sarebbe ancora pari a 14 (4,41+5,716+3,874). Nel nostro caso neppure una redistribuzione del reddito in senso egualitario servirebbe a ridurre il gap tra reddito effettivo e reddito potenziale. Ancora una volta: quando l’economia già spende tutto il reddito prodotto, non serve – dal punto di vista dello stimolo macroeconomico generale – concentrarlo nelle mani di chi ha una più elevata propensione a consumare. Ciò non significa naturalmente che un simile processo redistributivo non sia desiderabile per altri e altrettanto importanti scopi. In particolare, tante volte ci dimentichiamo che se nei sistemi politici democratici vale – dove più dove meno – il principio “una testa, un voto”, nei sistemi economici vale invece il principio plutocratico “un dollaro, un voto”. In altri termini, quali siano i beni effettivamente prodotti e in quali proporzioni è deciso da chi per essi è in grado di esprimere domanda pagante, ovvero da chi sta nella parte alta della distribuzione del reddito. Il mercato, diceva Luigi Einaudi, soddisfa domande e non bisogni. In Italia negli ultimi quindici anni la distribuzione del reddito ha subito un peggioramento impressionante, come ci ha ricordato il recente rapporto pubblicato dall’OCSE. Non è tutta colpa dei governi che si sono succeduti (che pure qualche responsabilità la devono avere, se è vero come è vero che il fenomeno in questione in Italia è stato più rilevante che altrove); fatto sta che Tito Boeri fa bene ad insistere su di una estensione e rimodulazione del welfare che possa almeno mitigare la concreta durezza di questi processi.

La lista delle politiche destinate a non raggiungere lo scopo dell’azzeramento, o quantomeno della riduzione del divario fra reddito effettivo e reddito potenziale si sta ingrossando. Fra quelle sin qui analizzate, la sola che può eventualmente contribuire al raggiungimento di questo scopo è la politica industriale pro-innovazione (si veda la nota 2). Non può essere la sola, tuttavia. Innanzitutto perché, ammesso che funzioni, i suoi effetti tendono a dispiegarsi in un tempo medio-lungo. Inoltre, perché i suoi effetti macroeconomici di stimolo alla domanda effettiva sono tanto più deboli quanto più efficace e pervasiva è la medesima politica praticata dagli altri paesi. Che altro ci resta?

La politica fiscale e la politica monetaria

Avrebbe senso che nelle circostanze descritte il governo si mettesse a comperare merce 1 e/o merce 2, cercando così di stimolare la domanda effettiva per colmare il divario fra reddito effettivo e reddito potenziale? Notoriamente, il governo potrebbe finanziare questa spesa in tre modi: aumentando le tasse, chiedendo prestiti (indebitandosi) o, infine, convincendo la banca centrale ad aumentare la quantità di moneta in circolazione.4 Ora, almeno dal punto di vista degli effetti immediati sulla domanda effettiva, i primi due metodi sono del tutto equivalenti. Infatti, nel momento in cui il governo dovesse decidere di ottenere fondi, a titolo di prestito o di imposta, da cittadini che, ricordiamolo, in aggregato stanno già spendendo tutto il red- dito prodotto, il solo effetto che si otterrebbe consiste in una riduzione della spesa privata e in un corrispondente aumento di quella pubblica. La spesa totale, la domanda effettiva, rimarrebbe ancora una volta invariata. Alla medesima conclusione giungeremmo se il governo ottenesse prestiti da cittadini stranieri (si veda la nota 2). Nelle circostanze date, perciò, dobbiamo aggiungere alla nostra lista di politiche inefficaci anche la spesa pubblica finanziata tramite l’indebitamento o l’imposizione fiscale. La sola possibile via di uscita per raggiungere lo scopo prefissato – incrementare il livello di spesa totale in modo da ridurre il divario fra reddito effettivo e reddito potenziale – consiste nell’aumento della quantità di moneta in circolazione. Se il governo domandasse merce 1 e/o merce 2 utilizzando la nuova moneta immessa nell’economia, tale domanda andrebbe ad aggiungersi a quella privata, così che la spesa totale questa volta, finalmente, aumenterebbe. Arriveremmo a conclusioni del tutto simili se fossero i privati, invece del governo, a utilizzare la moneta di nuova emissione per incrementare i livelli di domanda. Nel primo caso sarebbe il governo a indebitarsi con il sistema bancario, e crescerebbe lo stock di debito pubblico; nel secondo caso crescerebbe invece l’indebitamento del settore privato. Prima di definire con maggior precisione i contorni di questa politica monetaria espansiva, sgomberiamo il campo da un gigantesco equivoco che ha seriamente falsato, in Europa molto più che negli Stati Uniti, il dibattito di politica economica degli ultimi quindici o venti anni.

La sostenibilità del debito pubblico e l’inflazione

Da molti anni sentiamo ossessivamente ripetere (da voci bipartisan) la medesima litania: politiche che, come quelle appena descritte, comportino un deficit pubblico eccessivo non sono praticabili in Italia perché porterebbero ad un debito pubblico insostenibile, il cui onere ricadrebbe inevitabilmente sulle generazioni future. Prima o poi, i debiti tocca ripagarli. Con il Trattato di Maastricht i paesi che ad esso hanno aderito hanno quasi sacralizzato questa retorica e si sono vincolati ad una disciplina specifica, stabilendo che il deficit pub- blico non possa superare il 3% del PIL, tranne che in circostanze del tutto eccezionali come quella che stiamo ora attraversando (non a caso Barroso ha concesso qualche apertura in tal senso). Il debito pubblico si definisce sostenibile quando il rapporto debito/PIL diminuisce nel tempo, cioè quando il debito stesso cresce meno rapidamente dell’economia. In tal caso, infatti, l’economia genera le risorse necessarie alla restituzione del debito. La domanda diventa perciò inevitabile: siamo certi che un deficit pubblico contenuto entro il 3% del PIL garantisca la realizzazione di questa condizione? Non potrebbero darsi casi in cui un deficit superiore al 3% sia comunque compatibile con la sostenibilità del debito? O, al contrario, casi nei quali un debito inferiore al 3% sia eccessivo rispetto allo scopo della sostenibilità? Ancora una volta un banale esempio numerico può chiarire il punto. Prendiamo un paese con un rapporto debito/PIL del 110% e un tasso di crescita dell’economia dell’1%: qualsiasi deficit superiore al 1,1% del PIL sarebbe insostenibile, ovvero porterebbe alla crescita del rapporto debito/PIL. Se tuttavia l’economia di questo stesso paese crescesse al 3% annuo, un qualsiasi deficit inferiore al 3,3% sarebbe invece sostenibile. Il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità, fissando il limite massimo del rapporto deficit/PIL al 3%, impongono un vincolo che a seconda dei casi può rivelarsi o troppo lassista o inutilmente restrittivo. Una regola stupida. C’è di più: la definizione di sostenibilità sin qui adottata è puramente ragionieristica, strettamente finanziaria. La spesa, e specialmente quella finanziata con emissione monetaria, ha effetti espansivi sul PIL, cioè accresce il denominatore del rapporto debito/PIL. Nel nostro esempio, la domanda aggiuntiva di merce 1 e/o 2 espressa dal governo permette la crescita del reddito effettivo (il PIL) e il suo avvicinamento al livello del reddito potenziale. Ulteriore possibile obiezione: ma la spesa finanziata con emissione monetaria è inflazionistica. Non è vero: se la spesa aggiuntiva, pubblica o privata che sia, conduce ad un livello di domanda effettiva che si colloca entro il limite del reddito potenziale (non più di 20, nel nostro esempio) allora non si vede perché essa, di per sé, debba produrre inflazione. Un’altra faccenda su cui la confusione nel dibattito di politica economica regna sovrana si riferisce al nesso fra debito pubblico e trasferimenti intergenerazionali. Se oggi contraggo un debito pari a 100 per garantire a mio figlio un elevato livello di istruzione e, grazie ad esso, il flusso scontato dei redditi futuri percepiti da mio figlio è pari a 120, evidentemente questo medesimo debito che mio figlio ripagherà non gli toglierà nulla. Al contrario, lo arricchirà. Senza contare che il debito mio figlio lo ripagherà ad un suo coevo, al figlio di qualcun altro. Dopo di che si può anche decidere, à la Tremonti-Gelmini-Brunetta, di non contrarre debiti per l’istruzione dei figli visto il rischio di finanziarie qualche barone corrotto e impreparato; quello sì, sarebbe un trasferimento intergenerazionale: che le colpe dei padri ricadano sui figli. In definitiva, la collezione di stupidaggini oramai entrate nel gergo politico e nell’uso comune ogni volta che si discute di debito pubblico è impressionante. Purtroppo, anche molti economisti di professione fanno la loro parte.

Il ciclo capitalista e l’attuale crisi finanziaria

Abbiamo visto che per una economia intrappolata in un equilibrio di sotto-occupazione si rendono necessarie sia una politica di spesa finanziata con emissione monetaria (e contenuta entro limiti non inflazionistici) sia una politica industriale volta ad accrescere la competitività delle imprese nazionali, a sostenerne e stimolarne i processi innovativi. Dal momento che tali processi non si possono avviare senza forza lavoro qualificata, anche la formazione del capitale umano deve rientrare nella politica di spesa qui invocata. In sintesi, una spesa pubblica non inflazionistica per l’innovazione, la ricerca e la formazione del capitale umano. Anche qui non ci si può esimere da un’amara osservazione: l’Italia è fra i paesi OCSE che spendono meno in questa direzione, tanto in termini di spesa privata che in termini di spesa pubblica. Le priorità cui vengono destinati i fondi pubblici sono altre. Sta qui la ragione prevalente e in fondo ovvia del declino di questo paese. Come si innesta su questo declino la vicenda più attuale della crisi finanziaria? Una vicenda che naturalmente ha avuto origine altrove e che tuttavia sta colpendo anche il nostro paese. Credo valga la pena ripescare un vecchio e interessante lavoro di Domenico Delli Gatti e Mauro Gallegati5 per provare a razionalizzare ciò che sta accadendo. Secondo i due autori, appartenenti al filone di pensiero della cosiddetta nuova macroeconomia keynesiana, il ciclo economico capitalistico è caratterizzato dal susseguirsi di quattro fasi: “ripresa tranquilla e finanziariamente solida”, “boom euforico e finanziariamente fragile”, “recessione tranquilla e finanziariamente solida” e, infine, “depressione con debito”. Cominciamo dalla prima fase del ciclo. Nel corso di una ripresa economica gli investimenti crescono e perciò, per via del classico effetto moltiplicatore keynesiano, cresce anche il reddito. A sua volta, l’aumento del reddito permette alle imprese di trattenere profitti più elevati, ciò che di per sé stimola ulteriori investimenti (se non altro perché i profitti non distribuiti e trattenuti all’interno dell’impresa costituiscono una sorta di garanzia reale e perciò facilitano l’accesso al credito). Se i risparmi di impresa (i profitti non distribuiti) crescono più rapidamente degli investimenti, ne segue che la domanda di credito esterno da parte delle imprese si contrae e si allentano le tensioni sul mercato del credito: il tasso di interesse diminuisce e con esso gli oneri finanziari a carico delle imprese. Se i profitti aumentano e le imprese ne distribuiscono una frazione sostanzialmente costante in forma di dividendi, ciò significa che anche i dividendi stessi aumentano. Il pubblico sarà perciò indotto a detenere meno moneta in forma liquida e a sostituirla con azioni, i cui corsi perciò aumenteranno. In sintesi, si tratta di una fase in cui investimenti, reddito, autofinanziamento delle imprese e corsi azionari mostrano tutti un andamento positivo. Simultaneamente, i tassi di interesse e gli oneri finanziari a carico delle imprese si riducono. Una ripresa tranquilla e finanziariamente solida, appunto. Tuttavia, proprio grazie alle evoluzioni appena descritte, lo “stato di fiducia” delle imprese può migliorare al punto da indurle ad aumentare la domanda di investimenti in misura superiore alla crescita dell’autofinanziamento. In tal caso si acuiscono le tensioni sul mercato del credito, ciò che conduce ad un aumento dei tassi di interesse e a un appesantimento degli oneri finanziari. Siamo passati ad un boom euforico e finanziariamente fragile. Ed è proprio la fragilità finanziaria, il carico di interessi che le imprese pagano al sistema bancario, a poter innescare una fase recessiva:6 per quanto le imprese trattengano profitti, l’aumento degli oneri finanziari comincia a ridurre le possibilità di autofinanziamento e perciò a rallentare il ritmo di investimento. Inoltre, nella misura in cui le imprese cercano di ridurre i dividendi distribuiti per far fronte alle difficoltà finanziarie, la domanda di azioni cala e con essa i corsi azionari. A sua volta, la caduta dei corsi azionari disincentiva ulteriormente la domanda di investimenti espressa dalle imprese: quando le azioni sono basse si fanno scalate, non si installa capitale di nuova produzione. Il rischio di ogni recessione è che, una volta iniziata, si avviti su se stessa. Se le imprese, mosse dal tentativo di non peggiorare la loro situazione finanziaria, attuano una politica di investimento ancora più prudente (ciò che costituisce una strategia assolutamente ragionevole dal punto di vista della singola impresa), la riduzione dei profitti nell’intero sistema economico può essere tale che le possibilità di autofinanziamento si riducano ancora più rapidamente degli investimenti stessi. In tal caso, aumenterebbe il fabbisogno di finanziamenti esterni per finanziare i pur bassi investimenti e l’economia si troverebbe in una depressione con debito: investimenti, redditi, occupazione e corsi azionari in fase discendente, oneri finanziari a carico delle imprese in fase ascendente. Nel momento in cui, con preoccupante consenso, tutti ci dicono che l’attuale crisi assomiglia a quella del 1929, l’idea implicita – e a mio giudizio corretta – è che ci troviamo in una fase di depressione con debito. I segnali sono purtroppo quelli: investimenti, redditi, occupazione e corsi azionari in calo, oneri finanziari a carico delle imprese in aumento. Da una situazione del genere si può uscire in due modi. O, semplicemente, si aspetta: prima o poi il calo degli investimenti diventa così rilevante da ridurre ogni tensione sul mercato del credito. Oppure, come correttamente si dice, si deve chiedere al sistema bancario uno sforzo espansivo maggiore, e naturalmente la responsabilità è della BCE.

Conclusioni

In questa riflessione si è cercato di sostenere che l’Italia sta attraversando una duplice crisi: una crisi strutturale, dovuta alla rinuncia oramai ventennale ad una politica di spesa non inflazionistica per l’innovazione, la ricerca e la formazione del capitale umano; e una crisi ciclico-finanziaria. Stiamo sperimentando i duri effetti della seconda. Tuttavia, riteniamo che essa sia temporanea, diciamo una sia pur durissima fase del ciclo economico connaturato al funzionamento di tutte le economie capitaliste. La crisi più grave è la prima. Si è cercato di argomentare che non ne usciremo se non prenderemo sul serio Keynes. Non il “keynesismo bastardo o criminale” (efficace espressione di Marcello De Cecco), ma il keynesismo per bene, quello della “Teoria generale”: non soldi pubblici per incentivi a settori in declino, non soldi pubblici per sanare debiti privati, ma una politica di spesa orientata nelle direzioni già indicate. Non c’è alcun dubbio che negli ultimi venti anni gli Stati Uniti siano stati molto, molto più keynesiani dell’Europa, in termini di politica fiscale e soprattutto di politica monetaria, quella politica monetaria che, come si è cercato di argomentare, costituisce il cuore dell’insegnamento keynesiano. Negli ultimi venti anni il reddito pro capite statunitense è cresciuto più rapidamente di quello europeo, lo stesso dicasi per la produttività del lavoro. Possiamo continuare a raccontarci la barzelletta della flessibilità, ma anche in Europa le imprese quando vanno male possono licenziare (e ci mancherebbe altro). Possiamo anche sottolineare che il reddito pro capite americano è distribuito molto male. Vero, ma – al di là del fatto che sarebbe meglio che ad avanzare questa obiezione non fosse un italiano – si tratta evidentemente di un altro problema. Il punto è che da due decenni l’Europa ha completamente dimenticato gli insegnamenti di Keynes, si è attaccata a parametri privi di un significato economico intellegibile e nel frattempo ha perso terreno.

[1] A un risultato del tutto simile si giungerebbe se, pur rimanendo invariati i consumi di bene 1 e di bene 2, l’economia producesse e consumasse un terzo bene. Si tratterebbe di quella forma particolare di progresso tecnico, così importante nel corso della storia economica, che consiste nella creazione di nuovi beni.

[2] Si potrebbe pensare che se l’economia fosse aperta agli scambi con l’estero il problema in questione troverebbe soluzione. Sarebbe infatti possibile spendere più di ciò che si produce ricorrendo ai prestiti degli stranieri. L’economia spenderebbe più di quel che produce, ma tale eccesso di spesa sarebbe destinato a pagare le importazioni, ovvero merci prodotte altrove senza generare neppure un posto di lavoro in più. Vi sono solo due possibilità logiche: o gli stranieri acquistano euro dal sistema bancario nazionale (diciamo italiano) e poi li prestano a qualche italiano che li utilizza per acquistare merci italiane (ma in tal caso i maggiori prestiti ricevuti dall’estero non fanno che compensare i minori prestiti che il sistema bancario potrà erogare); o gli stranieri detengono già euro, per esserseli guadagnati vendendo merci agli italiani, e in tal caso gli eventuali prestiti ricevuti dall’estero non possono che corrispondere, appunto, a un flusso di merci importate. Lo stesso accadrebbe qualora, invece di concedere prestiti, gli stranieri dovessero rimborsare prestiti precedentemente ottenuti. Anche così le possibilità di spesa in eccesso rispetto alla produzione nazionale non potrebbero che essere sfruttate nell’acquisto di merci importate. Posti di lavoro se ne creerebbero invece se gli stranieri comprassero più merci italiane o se gli italiani sostituissero gli acquisti di merci importate con merci di produzione nazionale. Per raggiungere questo risultato servirebbe una vera politica industriale, volta a favorire i settori più innovativi e, in ciascun settore, le imprese più innovative (anche in termini di “contenuto ecologico” dei processi produttivi).

[3] Lo schema analitico di riferimento è quello neoclassico. Quando i salari diminuiscono, le imprese sono indotte a utilizzare tecniche più intensive nell’uso di lavoro (e meno intensive nell’uso di capitale). Naturalmente, dal momento che la disponibilità media di capitale per lavoratore diminuisce, la produttività media del lavoro sarà corrispondentemente ridotta. Si tratta di un aspetto, del tutto convenzionale e neoclassico, per lo più dimenticato da coloro che chiedono di legare i salari alla produttività. Costoro dimenticano che mentre le variazioni di produttività possono, in una misura che dipende dalla politica e dalle istituzioni sociali prevalenti, tramutarsi in corrispondenti variazioni del salario, le variazioni del salario si tramutano necessariamente – almeno se si crede al meccanismo neoclassico appena descritto, che è un meccanismo di mercato – in corrispondenti variazioni della produttività.

[4] L’abbassamento del tasso di sconto non è che una delle forme tecniche attraverso cui le autorità monetarie cercano di raggiungere questo scopo.

[5] D. Delli Gatti, M. Gallegati, Informazione asimmetrica, accumulazione del debito e ciclo economico, in J. Kregel (a cura di), Nuove interpretazioni dell’analisi monetaria di Keynes, Il Mulino, Bologna 1991.

[6] È bene sottolineare che l’appesantimento degli oneri finanziari a carico delle imprese, che qui abbiamo spiegato solo con il loro stesso “eccessivo” stato di fiducia, può essere aggravato dagli errori degli istituti di credito. Se questi hanno in portafoglio troppi mutui subprime cercheranno non solo di cartolarizzarli e venderli al pubblico, ma inaspriranno le condizioni applicate agli altri prestiti.