Matteo Garrone, Gomorra, Italia 2008

Di Gian Luca Farinelli Giovedì 09 Ottobre 2008 19:02 Stampa
Sorprende molto questa lettura non eroica della delinquenza che avvicina “Gomorra”, Saviano e Garrone a Stieg Larsson, il fenomeno editoriale della stagione. La citazione è contenuta nel secondo libro della sua trilogia “Millennium”, intitolato “La ragazza che giocava con il fuoco”. Larsson, come Saviano, prima di essere scrittore era stato ricercatore in ambito sociale, non della camorra ma degli estremismi di destra, e forse è stata questa comune esperienza di ricerca a non farli cadere nella trappola, letteraria, della fascinazione per i malvagi.

«Quello di Scampia è un mondo chiuso e il nostro arrivo è stato come un circo che, per quasi due mesi, ha cambiato il quotidiano».

Matteo Garrone

«È questo che è tragico. La mafia del sesso è un’accozzaglia scalcagnata di nullità. Non so esattamente cosa mi aspettassi quando ho cominciato questa ricerca, ma in qualche modo noi, o almeno io, siamo indotti a credere che la mafia sia una banda glamour che se ne va in giro su automobili di lusso. Suppongo che un certo numero di film americani sull’argomento abbia contribuito a questa immagine (...). Quello che ho trovato io è una banda di inetti brutali e sadici che quasi non sanno leggere e scrivere e sono dei perfetti idioti quando si tratta di pianificazione ed elaborazione di strategie. Ci sono collegamenti a biker e a cerchie un po’ meglio organizzate, ma nel complesso è una manica di somari quella che manda avanti l’industria del sesso». Sorprende molto questa lettura non eroica della delinquenza che avvicina “Gomorra”, Saviano e Garrone a Stieg Larsson, il fenomeno editoriale della stagione. La citazione è contenuta nel secondo libro della sua trilogia “Millennium”, intitolato “La ragazza che giocava con il fuoco”.1 Larsson, come Saviano, prima di essere scrittore era stato ricercatore in ambito sociale, non della camorra ma degli estremismi di destra, e forse è stata questa comune esperienza di ricerca a non farli cadere nella trappola, letteraria, della fascinazione per i malvagi. La cultura americana, Hollywood in particolare, ci ha lasciato immagini indimenticabili dei grandi interpreti del male. Dal predicatore Harry Powell, uno dei capostipiti di cattivo, illuminato dalla luce del demonio, ne “La morte corre sul fiume”2 di Charles Laughton, interpretato da un immenso Robert Mitchum che porta tatuate sulle nocche le parole «Love» e «Hate», allo spietato e psicopatico killer Anton Chigurh di “Non è un paese per vecchi”,3 penultima opera dei fratelli Coen, in cui Javier Bardem è talmente bello e così immensamente cattivo da aver strameritato il premio Oscar come miglior attore non protagonista. Ma sono stati certamente i tre grandi della New Hollywood, tutti con radici italiane, Martin Scorsese, Brian De Palma, Francis Ford Coppola, ad aver costituito l’immaginario, lo spessore umano, la grandezza del mafioso. Dalla lunga galleria di affascinanti personaggi basta anche estrarne solo tre per capirne immediatamente la forza: Frank Costello/Jack Nicholson in “The Departed”,4 Tony Montana/Al Pacino in “Scarface”,5 Don Vito Corleone/ Marlon Brando de “Il Padrino”.6 In questa categoria la simpatica guapperia dei bravi ragazzi di “Pulp Fiction”7 è solo un utile corollario.

Come notato da molti critici, e come non deve essere sfuggito a Sean Penn, presidente della giuria di Cannes, che ha dato fama internazionale a “Gomorra”, nel film di Garrone è totalmente assente la fascinazione per il mondo che rappresenta. Come Ozu, Garrone mostra l’esterno delle persone, non il loro interno, per lui il cinema è un medium visivo, non psicologico. Non c’è glamour nella rappresentazione della malvagità e conseguentemente non scatta nessuna fascinazione negli spettatori. “Gomorra” si libera di ogni stereotipo, di ogni rappresentazione passata, di ogni sicurezza e per questo ha una portata estetica e politica, è un film che non pensando mai al pubblico cui è destinato rimarrà a lungo nel nostro immaginario. Ma chi è Matteo Garrone, questo taciturno romano sulla soglia dei quarant’anni, con all’attivo sei film che, secondo “Le Monde”, ha creato un’implacabile antitesi al “Padrino”? Suo padre, Nico, è critico teatrale, sua madre, napoletana, è fotografa; ha compiuto un percorso formativo personale e solitario, aspirante tennista, racconta che meticolosamente raccoglieva su un quadernino tutte le informazioni sugli avversari per capirne i punti deboli; si avvicina poi alla pittura, che pratica per una decina d’anni. Approda al cinema, in sordina, da autodidatta, facendo l’aiuto del direttore della fotografia Marco Onorato. Nel 1996 vince il Sacher d’Oro di Nanni Moretti con il cortometraggio “Silhouette”, che diventerà uno dei tre episodi del suo primo lungometraggio “Terra di mezzo”.8

L’incontro con Domenico Procacci, da una quindicina d’anni il più talentuoso e coraggioso produttore italiano (ha fatto esordire, tra gli altri, Sergio Rubini, Gabriele Muccino, Emanuele Crialese, ha prodotto “Le conseguenze dell’amore”9 di Sorrentino, ha inventato la Factory Fandango, che produce film e musica ed edita libri) dà la svolta alla sua vita artistica. Con Fandango realizza nel 2002 “L’imbalsamatore”,10 poi “Primo Amore”11 e infine “Gomorra”. “L’imbalsamatore” gli porta la prima partecipazione al Festival di Cannes, un buon successo di pubblico, anche fuori dall’Italia e un ampio riconoscimento da parte della critica; secondo molti è uno dei migliori film italiani del decennio. È un film nato da suggestioni visive, nel quale compare, tra i protagonisti, il paesaggio. È girato nel Villaggio Coppola Pineta Mare, in provincia di Caserta, quartiere simbolo della speculazione edilizia, una vera città abusiva: un milione e mezzo di metri cubi realizzati, una superficie di circa 48 chilometri quadrati costruiti a partire dagli anni Sessanta su spiaggia e pineta demaniale, senza concessioni edilizie e autorizzazioni paesaggistiche. “Primo amore” è ambientato nel Nord-Est, realizzato con la collaborazione dello scrittore Vitaliano Trevisan, coautore della sceneggiatura e che interpreta la parte dell’orafo vicentino che impone alla sua fidanzata/vittima un costante dimagrimento, spacciando per amore una devastante volontà di manipolazione.

Dal primo cortometraggio al suo ultimo lungometraggio Garrone ha sempre scelto storie di personaggi con varie forme di diversità, storie che raccontano di rapporti umani calati in un preciso momento e in uno spazio fortemente caratterizzato, ma sempre costruite come racconti universali.

Il nano imbalsamatore Peppino (Ernesto Mahieux), l’orafo vicentino Vittorio (Vitaliano Trevisan), l’affarista napoletano Franco (Toni Servillo): i suoi film sono una galleria di personaggi tra i più forti di questa nostra epoca debole, fatta d’immagini che consumiamo e dimentichiamo; i ritratti di Garrone hanno la tragica vitalità della grande pittura rinascimentale, incorniciati in spazi che ci parlano. Nei suoi personaggi non c’è mai psicologia, il suo cinema non esprime giudizi, osserva le persone che ritrae, i loro gesti, la loro fisicità, come un entomologo, senza dare spiegazioni, ma costringendo lo spettatore a porsi domande. Per Garrone l’espressione, fin dai suoi primi lavori è più importante dell’informazione, «il cinema è sguardo, è come vedi la realtà e come la rappresenti», procede come un documentarista, studia sempre una realtà per poi trasfigurarla e rinnovarla.

Seguendo la lezione di Pasolini, attraverso l’osservazione dei corpi, ci racconta del degrado del nostro paese. Ne “L’imbalsamatore” le labbra rifatte di Deborah, in “Primo amore” la magrezza che l’orafo vuole imporre alla sua compagna, in “Gomorra” i corpi tutti uguali ci parlano di una nazione normalizzata. Non c’è più distanza tra i corpi dei poveri e quelli dei boss.

Qualche mese prima che morisse ho avuto il privilegio di incontrare – grazie a Tatti Sanguineti – Rodolfo Sonego: era stato partigiano; come molti suoi futuri colleghi aveva iniziato a scrivere film quasi per caso, divenendo un grande sceneggiatore della commedia all’italiana, inventore del personaggio di Sordi. Gli chiesi come mai la sua generazione, che aveva raccontato in maniera così profetica gli anni della trasformazione della società italiana, avesse poi smarrito – a metà degli anni Settanta – la spinta creativa, la lucidità dello sguardo. Mi rispose che lo schema della lettura marxista aveva cessato di essere sufficiente di fronte ad una società che mutava rapidamente, assumendo forme sempre più complesse. Ci ho pensato mentre vedevo “Gomorra”, che è totalmente affrancato dai filtri dell’ideologia.

Garrone non denuncia come Francesco Rosi, non dimostra come Michael Moore, non osserva con sguardo umanista come Scorsese, ma compie un passo significativo verso uno metodo oggettivo, utilizzando le armi dell’arte. Non è un caso che, da pittore, abbia scelto come aiuto regista Gianluigi Toccafondo uno dei più versatili e originali artisti italiani contemporanei, che certamente lo ha aiutato, assieme all’inseparabile Marco Onorato a trovare un modo totalmente nuovo di osservare i luoghi della camorra, una sconfinata periferia in stato di abbandono, dove i fiumi servono per svuotare senza rischio i caricatori delle armi e le spiagge a realizzare indisturbati sanguinose imboscate; un mondo dove perfino il cielo sembra essere scomparso, sostituito da un livido coperchio.

Come ha osservato Goffredo Fofi, “Gomorra” nasce in un contesto, ha dei parenti prossimi. Il noir basato sull’inchiesta, su fonti documentali (Carlotto, Colaprico, De Cataldo, Valpreda), l’insofferenza verso il politicamente corretto (i personaggi come Coliando o De Luca di Lucarelli), l’abbattimento dei confini fra i linguaggi visivi, lo sdoganamento dei linguaggi ritenuti bassi e i contatti con il vitalissimo mondo del fumetto italiano.

Poi, il libro – possente – di Roberto Saviano, 1.200.000 copie vendute in Italia, tradotto in trentatré lingue, ha svelato al mondo il volto contemporaneo della camorra. Un testo molto cinematografico, con una scrittura che procede, spesso, per immagini, per citazioni visive, che trae spunto da film, che enuclea il dramma, riuscendo così ad amplificarlo attraverso l’uso di immagini. Di fronte a un materiale così importante e autorevole, Garrone (assieme a Saviano, Maurizio Braucci e Massimo Gaudioso) ha fatto la scelta più coraggiosa e difficile, quella di non seguire meccanicamente le pagine e di distillare da Saviano un pugno di personaggi, quattro storie, che riassumono tutte quelle raccontate nel libro. Procedendo con stile antinarrativo, Garrone effettua tagli secchi, lasciando libero lo spettatore, che deve unire i fili e tessere continuamente un proprio senso. Non c’è una storia, non ci sono protagonisti, non ci sono psicologie, solo vittime, persone che transitano in un mondo che non ha stagioni, senza piacere, senza tracce di bellezza e umanità. Una geometrica corrispondenza lungo i 135 minuti, che si apre e si chiude con due efferate esecuzioni. La camorra è pulita, non lascia tracce, gli assassini sparano e ripongono le armi in un sacchetto di plastica, vivono in un mondo vicinissimo e insieme invisibile. Non c’è dramma, tutto è già deciso, l’azione è certa, procede senza intoppi, interpretata da uomini e donne che sono, allo stesso tempo, vittime e carnefici. Girato, essenzialmente, tra Casal di Principe, Castel Volturno e Mondragone, Garrone non fa nomi, non dichiara i luoghi, ma si intuisce che il campo d’azione della camorra è ovunque, a Napoli come in Cina, nel Nord-Est come a Scampia.

Gomorra si apre in un beauty center, «evoluzione delle sparatorie tra vecchi gangster nel salone del barbiere». Ma l’inizio ci spiazza a tal punto che ci chiediamo se quel luogo illuminato in maniera così innaturale non sia un’astronave, forse l’inizio di un film di fantascienza; invece siamo in un luogo che dovrebbe essere di lusso, riservato ai ricchi, dove vediamo muoversi da padroni i corpi dei camorristi, i loro torsi nudi, gli asciugamani bianchi, i blue jeans, le pance. Sotto le luci delle lampade solari avviene la prima vendetta senza una ragione a noi conosciuta, sappiamo solo che i vincitori sono antropologicamente identici agli uccisi. Durante tutti i 135 minuti la morte non sarà mai eroica, ci si uccide tra vicini di casa, tra amici, tra conoscenti, membri dello stesso clan.

Servillo (Franco) dà vita alla maschera più infame della sua carriera, è il solo elegante, vestito alla moda o incappucciato nelle tute antitossiche; Franco è al top, può trattare con la moderna finanza, con gli imprenditori del Nord-Est, per vendere l’anima (la terra e i bambini, il passato e il futuro) della Campania, e filare via elegante, sorridente, moderno tra le bellezze di Venezia, in una sequenza che ricorda la spensieratezza di un arrivo di James Bond in laguna, ma che è tra gli choc estetici più violenti che Garrone ci offre. Certamente quel passaggio a Venezia lo ricorda Roberto (un omaggio a Saviano?), il giovane collaboratore di Servillo, che dice no al suo dolce sfruttatore, unica voce fuori dal coro, metafora di un Sud di giovani laureati senza speranza, per scelta resterà sul ciglio della strada che traversa la terra avvelenata. Sono tutti, in questo paese in guerra, sconfitti.

Don Ciro (Gianfelice Imparato), è un fedele travet della camorra preposto alla consegna delle mesate ai famigliari degli affiliati finiti in carcere, col suo calepino antimoderno attraversa, sicuro e smarrito, lo spazio carcerario delle Vele di Scampia. Come tutti, sa che lo stare al mondo impone una scelta, sapere da che parte stai, quando e come tradire. Persino Pasquale (Salvatore Cantalupo, grande attore del teatro napoletano), la figura più tragica del film, tradirà il suo datore di lavoro, vendendo il suo talento di abilissimo sarto; anche l’incontro con un’altra cultura, quella cinese, anch’essa sottoposta alle regole della mafia, non porta che a una nuova, inevitabile, vendetta che è il codice col quale le persone comunicano. Chiuso nel bagagliaio, Pasquale sopravviverà e scoprirà, guardando la televisione che mette in onda una festosa diretta tv dal festival di Venezia, indossato da Scarlett Johansson, l’abito di un grande stilista, ma confezionato da lui. La vetrina mediatica si fonda sul più scandaloso sfruttamento.

Seguiamo Marco e Ciro, detto Pisellì, (interpretati dai due giovani non-attori Marco Macor e Ciro Petrone), due aspiranti boss, mentre mimano di fare il bagno nella vasca abbandonata del vero boss, costruita a immagine di quella del film “Scarface”. Il meccanismo dell’imitazione, uno degli insegnamenti del libro di Saviano, è qui raccontato in maniera semplice e tragica. Vasche idromassaggio grandi come piscine, costruite nei tuguri di Scampia, un supermarket del crimine, capace di servire un’intera nazione. I due giovani si ispirano a Tony Montana/Al Pacino e forse proprio l’impossibile imitazione del film di Garrone è la sua più evidente grandezza.

Molti i momenti strazianti, su tutti l’uso criminale dei bambini. Scopriamo che nella terra di Gomorra, per crescere, per abbandonare la fanciullezza, bisogna avere un livido sul cuore. Polizia e Stato non esistono, non c’è nessuna zona franca, una delle differenze con Rosi è proprio questa. Nessun giornalista d’assalto può denunciare, nessuna soluzione è possibile. Oltre la circonvallazione di Scampia non c’è nessuna speranza. Sui titoli di coda sono concentrati un’enorme quantità di informazioni ed elementi di cronaca, gli affari dei clan impegnati nella ricostruzione delle Torri Gemelle, l’ammontare del giro di affari della droga, che ha proventi pari al prodotto interno lordo di molte nazioni. «Ma ho voluto raccontare questa storia come una metafora di qualcosa di più universale, svincolata da una connotazione puramente locale». Un film che non somiglia a nessun altro e da cui ripartire per capire come raccontare il nostro paese.

Gian Luca Farinelli

 

[1] S. Larsson, La ragazza che giocava con il fuoco, Marsilio Editori, Venezia 2008.

[2] C. Laughton, La morte corre sul fiume, Stati Uniti 1955.

[3] E. Coen, J. Coen, Non è un paese per vecchi, Stati Uniti 2007.

[4] M. Scorsese, The Departed. Il bene e il male, Stati Uniti 2006.

[5] B. De Palma, Scarface, Stati Uniti 1983.

[6] F. F. Coppola, Il Padrino, Stati Uniti 1972.

[7] Q. Tarantino, Pulp Fiction, Stati Uniti 1994.

[8] M. Garrone, Terra di mezzo, Italia 1997.

[9] P. Sorrentino, Le conseguenze dell’amore, Italia 2004.

[10] Garrone, L’imbalsamatore, Italia 2002.

[11] Garrone, Primo amore, Italia 2000.