Pensare l'Europa

Di Salvatore Veca Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Il saggio di biagio de giovanni è appassionante, denso e complicato. Appassionante perché si misura con alcune grandi questioni che affollano l’agenda di un’Europa possibile in una fase storica come quella attuale, in cui sembra essere in gioco la capacità stessa dell’Unione di essere attore politico globale in un mondo contrassegnato dal fatto della globalizzazione. È denso perché de Giovanni concentra in un’ampia introduzione e in sei lunghi capitoli il precipitato di una vasta serie di riflessioni che hanno carattere filosofico, intrecciate a un tentativo di interpretazione che mira a tenere insieme in modo coerente la storia dell’idea di Europa e la storia dei fatti che sono salienti nella lunga vicenda che è alle nostre spalle. È complicato perché il lettore è costantemente costretto a passare dall’ambito della storia delle idee a quello della storia delle pratiche e delle politiche, dallo spazio dei modi di pensare l’Europa a quello dei modi di fare l’Europa e, soprattutto, dei modi di farsi dell’Europa; e tutto questo su archi temporali a volte molto lunghi a volte contratti con un effetto un po’ da capogiro, come se uno fosse trascinato su un carrello lanciato a gran velocità in una giostra che gira vorticosamente.

Biagio de Giovanni L’ambigua potenza dell’Europa, Guida, Napoli 2002

 

Il saggio di biagio de giovanni è appassionante, denso e complicato. Appassionante perché si misura con alcune grandi questioni che affollano l’agenda di un’Europa possibile in una fase storica come quella attuale, in cui sembra essere in gioco la capacità stessa dell’Unione di essere attore politico globale in un mondo contrassegnato dal fatto della globalizzazione. È denso perché de Giovanni concentra in un’ampia introduzione e in sei lunghi capitoli il precipitato di una vasta serie di riflessioni che hanno carattere filosofico, intrecciate a un tentativo di interpretazione che mira a tenere insieme in modo coerente la storia dell’idea di Europa e la storia dei fatti che sono salienti nella lunga vicenda che è alle nostre spalle. È complicato perché il lettore è costantemente costretto a passare dall’ambito della storia delle idee a quello della storia delle pratiche e delle politiche, dallo spazio dei modi di pensare l’Europa a quello dei modi di fare l’Europa e, soprattutto, dei modi di farsi dell’Europa; e tutto questo su archi temporali a volte molto lunghi a volte contratti con un effetto un po’ da capogiro, come se uno fosse trascinato su un carrello lanciato a gran velocità in una giostra che gira vorticosamente. Francamente, non è facile evitare l’effetto da capogiro quando uno si trova sballottato da Bodin al trattato di Amsterdam, dal Parmenide di Platone al discorso di Joshka Fischer alla Humboldt Universität di Berlino, da Giordano Bruno al condominio di Philippe Schmitter, da Husserl a Jacques Delors.

Mi sono chiesto più volte, studiando le pagine appassionate di questo libro, perché de Giovanni abbia bisogno di costringere la propria scrittura e il lettore a questa ginnastica così esigente e qual è il ruolo preciso che egli affida all’indagine filosofica in faccende difficili come quelle che sono al centro della sua preoccupazione politica, le faccende dell’unificazione dell’Europa e della struttura dell’Unione come attore politico globale. Credo che la risposta dipenda da una particolare interpretazione del compito della filosofia politica. Vorrei mostrare che questa interpretazione è importante e ha un pedigree intellettuale di tutto rispetto ma che essa è intrinsecamente incompleta. Ma vediamo prima quali sono le questioni salienti che sono al centro della ricerca di de Giovanni.

La prima questione saliente sembra consistere nella interpretazione appropriata del contesto mutato in cui ci misuriamo con l’unificazione dell’Europa e con i problemi della costruzione e del disegno delle sue istituzioni. Il contesto mutato, per un verso, evoca sui tempi brevi la grande trasformazione geopolitica della storia mondiale che possiamo datare a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso: gli anni del collasso e dell’implosione dell’impero sovietico, della fine dell’assetto bipolare della guerra fredda e dell’avvio marcato dei processi di globalizzazione in un mondo unipolare in cui si staglia la solitudine imperiale degli Stati Uniti. Per altro verso, il contesto mutato suggerisce la profondità dei tempi lunghi; e i tempi lunghi europei sono quelli dei processi di insorgenza e costituzione degli Stati territoriali moderni. Questo doppio sguardo è esercitato sistematicamente da de Giovanni. E l’esito del difficile tentativo di tenere assieme la prospettiva di breve e la prospettiva di lungo termine è quello di indurci a immergere le questioni dell’Europa possibile all’inizio del XXI secolo in una storia e in una catena di vicende, teoriche e politiche, che ruotano intorno alla connessione fra politica e sovranità.

Se il tratto distintivo della storia europea è riconoscibile nella complicata vicenda dell’invenzione dello Stato territoriale e le categorie fondamentali della politica sono definibili solo entro il contesto della pluralità degli Stati, allora si formula la seconda questione saliente: come pensare l’unificazione dell’Europa e le istituzioni politiche dell’Unione sullo sfondo delle trasformazioni e dell’indebolimento o dei vincoli crescenti che, dall’esterno o dall’interno dei confini degli Stati territoriali, caratterizzano l’esercizio delle sovranità e, quindi, l’azione politica negli Stati e fra gli Stati?

Consideriamo ora una terza questione che sta giustamente a cuore a de Giovanni: se vogliamo specificare in che senso preciso le categorie fondamentali della politica sono definibili entro la costellazione nazionale, saremo indotti a riconoscere che, dopo tutto, è all’interno dei contenitori degli Stati territoriali che ritroviamo cose come lo Stato di diritto, il pacchetto dei diritti di cittadinanza, le libertà e, infine, la democrazia, per limitarci alle cose che abbiamo appreso a lodare come alcune virtù importanti della storia sociale e civile europea e come nuclei normativi di alcune delle sue maggiori culture politiche. Se pensiamo alle cose che, all’inverso, abbiamo appreso a biasimare come disvalore e crimini, cose come la guerra di aggressione degli Statipotenza e i massacri dei diritti fondamentali delle persone, possiamo renderci conto del fatto elementare per cui la fuoriuscita della politica dal contenitore dello Stato nella prima metà del XX secolo europeo è intrinsecamente guerra e massacro mentre, nella seconda metà dello stesso secolo da poco concluso, le varie e distinte fasi del processo politico e dei progetti di costruzione di istituzioni europee sono identificabili nello sforzo di governare con la democrazia la fuoriuscita della politica dai confini dei suoi contenitori per eccellenza, gli Stati territoriali. Di qui, una quarta questione che sembra a me coincidere con il dilemma o l’interrogativo centrale dell’intera ricerca di de Giovanni: come pensare l’esistenza politica dell’Unione europea, intesa letteralmente come una democrazia «oltre gli Stati ma in relazione alla loro persistenza» o, in altri termini, come l’esito del «governo politico della fuoriuscita della politica dal recinto dello Stato, dalla sua dimora moderna»?

Queste quattro questioni ci chiedono in primo luogo di metterci alla prova con una ricostruzione storica e concettuale che dia profondità e spessore alla discussione pubblica sull’Europa come attore politico globale; in secondo luogo, inducono a mettere a fuoco il tema della sovranità, della sua connessione moderna con la politica e il tema delle trasformazioni sia della sovranità sia della politica; in terzo luogo, mettono a fuoco la natura propriamente politica del progetto di fuoriuscita della politica stessa dagli ambiti statuali e, infine, il dilemma del passaggio dalle sovranità distinte e divise a una sovranità condivisa. Si tratta indubbiamente delle questioni che sono al centro della più significativa controversia pubblica in Europa, le questioni che affollano l’agenda dei lavori della Convenzione e su cui si esercita l’intelligenza e la fantasia di cerchie di politici e intellettuali impegnati nell’impresa di disegnare un assetto di istituzioni postnazionali e una rete di poteri, competenze e diritti che hanno caratteri letteralmente inediti. Una controversia che fatica a passare dalle cerchie dei differenti addetti ai lavori alle più ampie cerchie di cittadinanza in un’Europa investita da ondate cicliche di incertezza e, in ogni caso, esposta alla pressione dei processi di globalizzazione e alla varietà dei loro effetti economici, sociali, culturali, religiosi.

De Giovanni ha il merito indubbio di insistere costantemente nelle pagine del suo libro sulla necessità di «pensare» l’Europa, di investire risorse intellettuali nell’elaborazione di una cultura politica dell’Unione che prenda sul serio l’identità storica e concettuale della famiglia europea dei modi di pensare l’Europa e che sia quindi coerente, nel progettare il futuro, con la complessità del passato europeo. La sua adesione all’idea di una federazione di Stati-nazione mi sembra trovare in questa filosofia soggiacente le sue ragioni. Così come trova qui le sue radici l’atteggiamento valutativo nettamente anticostruttivistico che è costantemente sottolineato nella sua ricerca. Il fastidio nei confronti del costruttivismo istituzionale è motivato dalla convinzione che «l’Europa non è una «costruzione» – e nessun costruttivismo istituzionale la può interpretare – ma il divenire sistematico di una costituzione materiale fatta di spazi e istituzioni, di detto e non-detto, di politiche legittimate e di istituzioni in cerca di legittimazione». De Giovanni invoca in proposito il carattere decisivo di un «pensiero del processo» e insiste sul fatto che la costruzione europea è in realtà attraversata dalla crescita di un permanente processo costituente. Per questo, per esempio, proposte filosofiche come quelle di Jürgen Habermas a proposito della costellazione postnazionale e della cittadinanza europea sono apprezzate ma nella buona sostanza rifiutate perché affette da una sorta di utopismo intellettualistico che non prende sul serio la complessità vischiosa del contesto storico propriamente europeo, caratterizzato e contraddistinto dalla molteplicità degli Stati-nazione. Per questo, d’altra parte, i modelli della Multilevel Governance o del condominio sono guardati con sospetto perché «fortemente segnati dall’empiria» e, per questo deficit, ritenuti incapaci di coerenza con una prospettiva ermeneutica complessiva; e, allo stesso modo, le tesi sul costituzionalismo di diritto internazionale alla Ferrajoli o, più in generale, i disegni di giuridificazione del processo europeo sono valutati negativamente perché sembrano non tener conto «delle connessioni profonde fra Stati nazionali e ordinamenti giuridici che hanno fatto la storia dell’Europa moderna».

L’elogio del «pensiero del processo» e la critica del costruttivismo vanno insieme e chiamano in causa il nesso tra filosofia e politica che de Giovanni interpreta come una sorta di tratto distintivo dell’idea stessa di Europa, modellata in un’arcaica e remota, forse troppo remota scena originaria dalla connessione fra politica e metafisica. Qui entra in gioco la faccenda dell’effetto da capogiro che, come ho accennato, ha a che vedere con l’interpretazione favorita da de Giovanni del ruolo e degli scopi della ricerca filosofica. Sono convinto che de Giovanni abbia in mente un’indagine filosofica che miri alla riconciliazione con il mondo politico e sociale in cui siamo situati come osservatori o partecipanti. In ogni caso, l’interpretazione della filosofia politica come un’impresa intellettuale mirante alla riconciliazione rende conto del perché L’ambigua potenza dell’Europa è un libro complicato. In parole povere, l’idea è grosso modo la seguente: «pensare» l’Europa equivale a pensare il «processo» o l’insieme di processi che hanno generato quell’insieme di effetti che sono per noi i dati dei problemi con cui siamo alle prese. Ho accennato a un pedigree intellettuale di tutto rispetto a proposito di questa idea e non è difficile riconoscere un debito nei confronti del monumento filosofico di Hegel; e del resto, de Giovanni si riferisce spesso alla interpretazione dei modi in cui Hegel ha pensato e ha offerto, nella sua filosofia politica, una proposta influente di comprensione del processo e della logica dello Stato moderno.

Come ha osservato John Rawls nelle sue lezioni sulla storia della filosofia morale, la riconciliazione con il paesaggio familiare delle nostre comuni istituzioni, delle nostre pratiche sociali e delle nostre forme di convivenza non equivale alla rassegnazione; come si dice, Versoehnung non è Entsagung. La riconciliazione consiste piuttosto nel riconoscimento condiviso della razionalità di un insieme di processi che hanno generato un certo insieme di esiti. Questo vuol dire propriamente pensare l’Europa e questo rende conto della connessione stretta tra filosofia e politica. Chi non tenga conto di questa elementare connessione fra processi e risultati può indaffararsi quanto vuole nella costruzione di istituzioni e nella progettazione di assetti di poteri e autorità: si tratta di esercizi intellettualistici o utopistici che sono destinati o alle dure repliche della storia o, più prosaicamente, a non avere attrito con il mondo che mirano a cambiare e a riformare.

È difficile sottovalutare l’importanza di una strategia intellettuale che ci invita a prendere sul serio la storia e, nel nostro caso, la storia dei modi di pensare e riconoscere l’Europa, intrecciata ai modi del suo farsi. Ma è bene ricordare in primo luogo che una storia non è a disposizione da qualche parte, indipendentemente dalle interpretazioni. E che la varietà delle interpretazioni rende meno cogente la presa che la «storia» finisce per avere sui nostri modi di valutare e saggiare lo spazio delle possibilità politiche. Dopo tutto, la storia nell’interpretazione favorita da de Giovanni è solo una delle possibili narrazioni a proposito di Stato, sovranità e politica che si misurano nello spazio plurale delle interpretazioni. (Se è propriamente europeo l’elogio della molteplicità, perché questo non dovrebbe valere per i nostri modi di interpretare la nostra storia?). In secondo luogo, accettare la critica del costruttivismo non equivale ad accettare che il «pensiero del processo» esaurisca lo spazio della nostra ricerca e della immaginazione politica e istituzionale. La critica del costruttivismo ci ricorda severamente che lo spazio delle possibilità politiche ha confini e vincoli e che non tutto è possibile. Ho sostenuto questa tesi a più riprese nelle lezioni sull’idea di giustizia de La bellezza e gli oppressi: sono d’accordo con la critica che de Giovanni rivolge a un costruttivismo istituzionale che non prende sul serio la storia ma continuo a credere che l’incompletezza sia propria tanto di una filosofia politica che mira alla riconciliazione nel senso indicato, quanto di una filosofia politica che mira normativamente a rintracciare le ragioni di una politica, e di un’Europa, possibile alla luce di un qualche criterio di valore.

Questa, in conclusione, a me sembra la tensione essenziale che vale la pena di mantenere viva e aperta: la tensione fra la varietà delle interpretazioni e la varietà dei progetti a proposito delle questioni salienti per l’unificazione dell’Europa e la costruzione dell’Unione come attore politico globale. Una tensione cui, come ho cercato di suggerire in queste osservazioni, dà un contributo appassionato e importante un libro come quello di Biagio de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa.