Perchè la sinistra vince in Europa centrorientale?

Di Marco Piantini Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

La recente serie di sconfitte della sinistra in vari paesi dell’Unione europea contrasta apertamente con i successi ottenuti da partiti aderenti alla famiglia socialista in paesi chiave dell’Europa come Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca. Qui di seguito autorevoli esponenti della sinistra di governo di questi paesi intervengono su alcune delle ragioni dei loro successi elettorali, su specifiche dinamiche nazionali e di più vasta portata. Leszek Miller, primo ministro polacco, e Vladimír Špidla, primo ministro ceco, sono anche leader di partiti aderenti al Partito del Socialismo Europeo.

 

La recente serie di sconfitte della sinistra in vari paesi dell’Unione europea contrasta apertamente con i successi ottenuti da partiti aderenti alla famiglia socialista in paesi chiave dell’Europa come Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca. Qui di seguito autorevoli esponenti della sinistra di governo di questi paesi intervengono su alcune delle ragioni dei loro successi elettorali, su specifiche dinamiche nazionali e di più vasta portata. Leszek Miller, primo ministro polacco, e Vladimír Špidla, primo ministro ceco, sono anche leader di partiti aderenti al Partito del Socialismo Europeo.

Per quanto sia vicina la data del 2004 prevista per l’allargamento dell’Unione a dieci paesi candidati, resta ancora frammentata l’attenzione del pubblico e quella degli osservatori di vicende politiche ed istituzionali verso i sistemi politici di questi Stati. Come non manca di ricordare ad ogni occasione il commissario europeo responsabile per l’allargamento, Günter Verheugen, è preoccupante non tanto un certo potenziale di dissenso verso il processo di mutazione delle istituzioni comunitarie in corso, quanto l’apparente indifferenza rispetto ai negoziati sull’allargamento, la scarsa circolazione di informazione, le rare iniziative di sensibilizzazione e approfondimento anche da parte di partiti e società civile sulle caratteristiche dell’Europa a 25-27 Stati, la forza della sua economia, la multidimensionalità dei suoi problemi, l’estensione dei suoi confini geografici e l’accrescersi delle sue diversità. Del resto un esempio imbarazzante e significativo di superficialità verso questi paesi ha lasciato le sue tracce nel protocollo al Trattato di Nizza che specifica il numero di eurodeputati della futura Europa: esso prevede che i cittadini cechi e ungheresi possano eleggere due deputati in meno rispetto a quelli attualmente eletti da Belgio e Portogallo, paesi che contano alcune centinaia di migliaia di cittadini in meno. Tuttavia, e se così non fosse sarebbe davvero inquietante, i capi di governo dell’Unione si sono impegnati a Laeken a correggere in sede intergovernativa questa potenziale discriminazione.

Esiste invece una complessa sfida di partecipazione e consenso rispetto alla quale le famiglie politiche europee possono giocare un ruolo centrale, nei paesi attualmente già membri della UE come in quelli candidati all’adesione. Le nuove esperienze di governo della sinistra in Europa centrorientale dovrebbero da questo punto di vista offrire spunti interessanti su come si articolerà il legame tra europeismo e dibattito politico. E su come la stessa sinistra possa fondare strategie maggioritarie per il governo di società in trasformazione radicale. Il primo ministro polacco richiama con una certa ironia all’inizio del suo intervento la «regolarità» con la quale si alternano nei paesi dell’Europa orientale e occidentale diversi e contrapposti cicli politici. Egli sottolinea il contrasto tra la diversità dei «tempi» della politica nelle due parti d’Europa ed i legami invece delle economie centrorientali con l’economia comunitaria, se non la loro dipendenza da essa (e per la Polonia da quella tedesca in particolare). Il tema è quello di una crescente integrazione in una economia di mercato sempre più globale, di conseguenti trasformazioni sociali e di orientamenti e reazioni politiche talvolta contrastanti. Il politologo bulgaro Ivan Krastev sostiene addirittura che la sinistra torna al potere all’Est perché quelle società esprimono varie paure sui cambiamenti in corso, paure ed inquietudini simili a quelle rappresentate dalla destra tornata al potere in molti paesi dell’Unione.1 Un effetto, dunque, simmetricamente opposto al cleavage destra-sinistra in reazione, secondo Krastev, al modello anglosassone e alla sua espansione. Poco importa se tali paure vengono poi contraddittoriamente evocate e strumentalizzate in alcune circostanze come desiderio di trasformazione e cambiamento.

In Polonia i partiti di destra al governo, letteralmente spazzati via dagli elettori prima con le elezioni presidenziali poi con quelle politiche, hanno lasciato un pesante bilancio in termini di mancata crescita, squilibri delle finanze pubbliche e soprattutto disagio sociale, con la disoccupazione quasi al 20%. Sono gli umori della società polacca che anche secondo Miller sembrano essersi volti al pessimismo negli anni della destra al potere. Come influirà questo disagio latente sul processo di integrazione europea, a partire dalla sfida primaria del referendum dell’anno prossimo sull’adesione alla UE? Certamente gli analisti concordano che con l’ingresso nella NATO si è indebolito sostanzialmente l’interesse del pubblico dei paesi candidati verso l’integrazione europea, pur restando un orientamento di fondo positivo. Soprattutto l’euro-ottimismo delle nuove generazioni sembra garantire un percorso agevole. Ma resta parimenti evidente il persistere in Polonia e in altri paesi candidati di una divaricazione tra una, per ora salda, maggioranza filoeuropea ed una consistente minoranza, socialmente in declino o ai margini e politicamente protestatoria, di cui sono un esempio le manifestazioni del self-defence party guidato dal populista Andrzej Lepper, con i blocchi di strada e gli assalti ai treni che trasportano prodotti agricoli di importazione.

Esistono, dicono quindi i socialisti polacchi, latenti rischi di marginalizzazione e addirittura pericoli di «ripetizione della storia» con un potenziale xenofobo, anti-europeo e reazionario con varie matrici culturali. Ma proprio in questo contesto alla sinistra resta la responsabilità di coniugare la forza di innovazione nel governo del paese con un «pensiero in rete», oltre i confini nazionali e nel nuovo contesto istituzionale europeo, per dare una risposta attiva ed efficace al disagio, anzi ai disagi ed alle insicurezze, espressi dalla società. È fondamentale per questo sviluppare una idea di Europa che leghi progettualità e riformismo nel governo nazionale con un maggiore coordinamento delle politiche a livello europeo, una progettualità che non respinga l’innovazione e neppure ne fornisca una interpretazione liberista. E che può diventare ancora più forte se fondata su una flessibilità nella stessa definizione di Europa come unione di ciò che è comune ma nel rispetto delle diversità e specificità nazionali: quelle stesse specificità nazionali così a duro prezzo difese dalla e nella storia. Sarebbe limitativo vedere in questo una mera espressione della difesa della sovranità nazionale ed una visione chiusa della costruzione europea, come talvolta viene interpretato l’approccio prevalente in Polonia nel dibattito sul futuro dell’Europa.

E di «Progetto Europa» come filo rosso del successo socialdemocratico parla l’analisi di Vladimir Špidla, primo ministro della Repubblica Ceca, che definisce l’ingresso nell’Unione la principale priorità di governo. Torna anche nella sua analisi una visione aperta dell’Unione, non come «dettato incomprensibile né come panacea miracolosa», ma come sostegno ad una tappa di modernizzazione del paese e, è bene ricordarlo, come «atto di giustizia storica». Le forze socialdemocratiche ceche si sono presentate come le più coerenti verso il percorso di adesione all’Unione, in tutti i suoi aspetti e con tutti i suoi impegni in un momento difficile per la Repubblica Ceca. Il paese ha vissuto una lunga e a tratti contraddittoria transizione della sua economia e della società: transizione verso l’economia di mercato ad un ritmo molto accelerato e transizione verso l’integrazione europea. I socialdemocratici si sono assunti difficili responsabilità di governo di fronte ad un «accordo di opposizione» delle forze di destra, che hanno preferito aspettare di poter speculare sulle difficoltà di un governo minoritario, quello condotto da Milos Zeman che è stato «crocefisso» quotidianamente da violente campagne dei mezzi di informazione. L’impegno per l’Europa anche qui è accompagnato dalla difesa di una società aperta e coesa, dalla «difesa dello Stato sociale come condizione per la democrazia», creando un forte e diretto rapporto con i cittadini e le loro preoccupazioni per l’estensione della forbice sociale e per le tentazioni del «partito di un uomo solo», quello del leader nazionalista Klaus. E quanto restino forti il disagio e la protesta sociale, che spesso assumono toni antieuropei, è dimostrato dal successo del Partito Comunista ceco, arrivato al 18%.

La bandiera della difesa di una società moderna e integrata nell’Unione è stata anche quella dei socialisti ungheresi che, dopo un ordinato processo di riorganizzazione hanno saputo riconquistare il governo guidati dal tandem Kovacs-Medgyesy, rispettivamente leader di partito e candidato alla premiership. La scelta di contrapporre una linea politica coerente e moderata ad una destra berlusconiana nei modi e nelle politiche, quella di Viktor Orban e dei Giovani Liberali, si è dimostrata vincente. Non hanno pagato invece facili promesse demagogiche ed alcuni ammiccamenti nazionalisti del governo uscente. Era stato Orban ad esempio a dichiarare che se al vertice di Nizza non fosse stata fissata la data di adesione dell’Ungheria, gli ungheresi avrebbero tranquillamente potuto immaginarsi di vivere fuori dalla UE. Le politiche di rigore del precedente governo socialista durante gli anni Novanta avevano certo lasciato ricordi pesanti. Ma sono anche state il segno più evidente di una coerenza di fondo e di un impegno non facile per una modernizzazione del paese non esclusivamente dominata da ricette liberiste e dal conflitto sociale.

In sostanza, le tre esperienze della Repubblica Ceca, dell’Ungheria e della Polonia mostrano i socialdemocratici e socialisti vincenti grazie a linee politiche in cui si osservano almeno tre costanti. In primo luogo la coerenza verso la compiuta transizione all’economia di mercato e verso la modernizzazione del paese; secondo, la coerenza verso l’integrazione europea e il rifiuto di strumentalizzazioni demagogiche o di indebolimento dell’impegno europeista; terzo, la difesa di una società moderna ed aperta, di un modello sociale orientato alla coesione. Una linea quindi che non si può affermare contando sulle debolezze, le esclusioni, le paure e le inquietudini di fronte a società che cambiano rapidamente. Socialmente e politicamente questa linea può risultare maggioritaria, pur nelle specificità delle situazioni nazionali, solo se unisce da una parte le rassicurazioni per i molti che hanno vissuto male le profonde trasformazioni avvenute con, dall’altra parte, le garanzie di piene opport unità per chi, al contrario, ha approfittato di nuovi mestieri e nuove risorse. Ed è questo ciò che può cogliere qualsiasi viaggiatore visiti oggi questi paesi, le loro dinamiche capitali e le loro periferie.

Diventa allora più interessante seguire il contributo che le forze del PSE di questi paesi sapranno dare al dibattito sul futuro dell’ Eu ropa, al legame che sapranno sviluppare tra le sovranità riconquistate dai loro paesi e la ridefinizione in corso delle sovranità condivise nella nuova Europa e nella sua Costituzione a venire. In epoca di globalizzazione diventa ancora più auspicabile sperare che dal circuito «sovranità riconquistata, sovranità condivisa in Europa, integrazione e trasformazione economica, difesa ed innovazione del modello sociale europeo» possa svilupparsi un esempio virtuoso. È evidente in questo contesto come alla sinistra non possa sfuggire tutta l’importanza strategica dell’allargamento, con tutte le sue implicazioni, sulla via della riunificazione del nostro continente.

Certo restano insidie e questioni reali delle quali occorre acquisire consapevolezza come problemi dell’Unione. Esiste ad esempio la sfida prioritaria della coesione della nuova Europa che non potrà sostituire una frattura economica alla guerra fredda. In uno studio condotto per l’associazione Notre Europe presieduta da Jacques Delors, lo studioso ceco Draus sottolinea come sia cresciuta la povertà nei paesi dell’Est, con punte clamorose di esclusione da servizi pubblici fondamentali, testimoniata dal fatto che circa metà della popolazione polacca non possa permettersi servizi sanitari di base.2 E come insieme alla povertà assoluta siano cresciute disparità regionali troppo acute per rientrare semplicemente in una necessaria dinamica di trasformazione e diversificazione. Potremmo citare qui che solo le regioni di Praga e Bratislava, per quanto la regionalizzazione sia ancora virtuale, sarebbero fuori dall’obiettivo uno dei fondi strutturali europei tra i dieci paesi candidati.

Si fa dunque forte in questo contesto la necessità di creare dinamiche positive, di dare risposte ed elaborare politiche attive. È necessaria una cultura di governo che sappia superare i limiti strutturali di quelli che sono stati definiti con una formula hard budgets and soft states (Institute for public policy research, 2000), volendo indicare le ristrettezze e gli obblighi finanziari da una parte, e la debolezza delle strutture statali ed amministrative dall’altra. Governare in un quadro difficile, senza perdere la sfida del consenso e della partecipazione. Rimane qui il problema strutturale della partecipazione democratica dei cittadini, in primo luogo al voto. Si pensi che in Polonia alle ultime elezioni ha votato solo il 46% della popolazione, mentre anche nella Repubblica Ceca e in Ungheria, paesi dove tradizionalmente la partecipazione è più forte, esiste oramai il dato della passività di oltre un terzo degli elettori. E ciò non può che gettare ombre sulla prospettiva delle elezioni europee del 2004, che dovrebbero far nascere il primo parlamento dell’Unione allargata. La migliore risposta può dunque essere trovata nella definizione di un progetto europeo per la sinistra e per il Partito del socialismo europeo, una risposta che superi le paure e leghi i riformismi nazionali, la loro non facile difesa di società aperte e coese a politiche comunitarie attive ed innovative, all’idea cara a Lionel Jospin di una Europa fatta di «contenuti», di proposte che accompagnino e guidino la trasformazione delle nostre società.

 

Bibliografia

1 I. Krastev, in «Courrier International», 11-17 luglio 2002.

2 F. Draus , Un élargissement pas comme les autres... Réflexions sur les spécificités des pays candidats d’Europe Centrale et Orientale, Groupement d’études et de recherches Notre Europe, novembre 2000.