I conti che non tornano

Di Paolo Onofri Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

«Stiamo realizzando il contratto con gli italiani». Proviamo a riassumere sinteticamente l’azione di governo nel corso dei primi cinquecento giorni della legislatura. Il governo ha affrontato immediatamente alcuni problemi di natura strettamente personale, avviandoli a risoluzione con rapidità ed efficienza; ha risolto altri di natura molto settoriale (abolizione dell’imposta di successione sui grandi patrimoni, rientro e regolarizzazione dei capitali esportati con condono fiscale incorporato, a bassissimo prezzo) con scarsi vantaggi per la collettività e semmai consolidando le disuguaglianze di reddito e patrimonio. Ha aumentato a 516 euro al mese la pensione di meno di un milione e mezzo di pensionati, dei quali poco meno della metà ne riceveva già circa 480.

«Stiamo realizzando il contratto con gli italiani». Proviamo a riassumere sinteticamente l’azione di governo nel corso dei primi cinquecento giorni della legislatura. Il governo ha affrontato immediatamente alcuni problemi di natura strettamente personale, avviandoli a risoluzione con rapidità ed efficienza; ha risolto altri di natura molto settoriale (abolizione dell’imposta di successione sui grandi patrimoni, rientro e regolarizzazione dei capitali esportati con condono fiscale incorporato, a bassissimo prezzo) con scarsi vantaggi per la collettività e semmai consolidando le disuguaglianze di reddito e patrimonio. Ha aumentato a 516 euro al mese la pensione di meno di un milione e mezzo di pensionati, dei quali poco meno della metà ne riceveva già circa 480. Sta sanando il pregresso di immigrazione clandestina, ma avendo adottato norme che favoriscono l’immigrazione temporanea, anziché l’integrazione vera e propria degli immigrati e delle loro famiglie. Ha posto un limite drastico alle nostre possibilità di crescita di lungo periodo, dimenticandosi che tutta la propria strategia di politica economica si fondava sull’impulso alla crescita del prodotto potenziale. Ha posto le premesse sia per una più rapida esecuzione di opere pubbliche infrastrutturali di cui il paese ha urgente bisogno (legge obiettivo), sia per una loro minore onerosità per il bilancio pubblico (Patrimonio Spa e Infrastrutture Spa); ma, in generale, ha gestito in modo talmente ingenuo e nervoso la politica di bilancio da destabilizzare le attese di imprese e famiglie nei confronti del futuro e da ingenerare sospetti di trucchi di bilancio pubblico nell’uso di strumenti, in linea di principio plausibili, come P. Spa e I. Spa. Ha messo in atto una linea di intervento dirigista nei confronti dell’economia che si sostanzia nel rifiuto di stare alle regole dell’economia di mercato, cercando di portare l’azione di regolazione dei mercati da parte delle autorità indipendenti all’interno dell’attività dei ministeri e di ricondurre quella delle fondazioni bancarie alle autorità politiche locali. Infine, ha diviso le rappresentanze sindacali attraverso le proposte di modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori offrendo alle confederazioni che hanno sottoscritto il Patto per l’Italia un ruolo nella erogazione delle prestazioni sociali, lasciando così trasparire una visione funzionale dell’attività sindacale dentro al vasto «corpo» sociale.

È impossibile dire se questa era l’interpretazione che gli elettori della Casa delle Libertà avevano dato al contratto con gli italiani; non vi è dubbio che vi siano molte novità non solo rispetto al passato, ma anche rispetto all’immagine di sé che il centrodestra ha cercato di accreditare durante la campagna elettorale. Mi soffermerò solamente su due di queste azioni: la gestione del bilancio pubblico e il Patto per l’Italia.

La discontinuità con l’azione di governo precedente, perseguita come obiettivo in se stesso, sta riproponendo all’opinione pubblica una nuova fase di risanamento dei conti pubblici. La determinazione messa nel voler far percepire, a tutti i costi, il «nuovo» sta riportando con sé le vecchie preoccupazioni del bilancio pubblico. Non è solo ingenuità; si tratta di colpevole ingenuità. Nel momento in cui si prendono provvedimenti di spesa o di sgravio non coperti da aumenti di altre entrate o da riduzioni di altre spese, nella semplicistica speranza che la «macchina» dell’economia provveda da sola alle coperture, è ovvio che il disavanzo aumenti.

C’è stata, inoltre, una sorta di eccitazione da «luna di miele» che ha indotto non solo ad appropriarsi di riduzioni di imposte già approvate dai governi precedenti e usarle per finanziare proprie riduzioni, operazione di per sé legittima, ma a sostituire sistemi permanenti di tassazione dei redditi d’impresa con i loro effetti scadenzati nel tempo rispetto ai quali le imprese avevano programmato decisioni d’investimento e modalità di finanziamento del medesimo, con sgravi temporanei in vista di non si sa che.

Se non proprio ingenuità, faciloneria? Certo è che tutto ciò ha portato la legge Tremonti bis a confliggere con il credito d’imposta sugli investimenti per il Sud e, ben più grave, ha portato all’abolizione di fatto del credito d’imposta per l’occupazione, che nel corso del primo anno di funzionamento ha consentito la creazione di circa duecentomila posti di lavoro a tempo indeterminato. Per rendersi conto della confusione che così si è generata è sufficiente domandarsi quali calcoli una impresa possa ora fare sul costo del lavoro, sulla incidenza dell’Irpeg, sugli incentivi ai nuovi investimenti e sul modo più conveniente per finanziarli per programmare la propria attività nei prossimi anni. Il disorientamento delle imprese è comprensibile anche alla luce del fatto che il governo annuncia riduzioni di imposte, ma fa di tutto per evitare riduzioni permanenti di spesa con interventi una tantum dal lato delle entrate (vendite di immobili, condoni, ecc.) mettendo a repentaglio la credibilità delle riduzioni stesse e di quelle future annunciate. Infatti, un certo nervosismo ha indotto dapprima ad annunciare «l’enorme buco» nei conti pubblici, successivamente a prendere provvedimenti di aumento delle spese (pensioni, sanità e retribuzioni pubbliche), di riduzione delle entrate e simultaneamente annunciare non solo che gli obiettivi di bilancio 2001 sarebbero stati comunque raggiunti, ma che, in ogni caso, il disavanzo pubblico sarebbe stato azzerato nel 2003. La correzione successiva allo 0,8 dell’obiettivo di bilancio per il 2003 è obiettivamente una correzione marginale rispetto alle tendenze attuali della finanza pubblica. I dati più recenti segnalano che, al netto delle una tantum, il disavanzo è nell’intorno del 2,5% del Pil. Il ragionamento che conduce a questo risultato è molto semplice: il disavanzo del 2001 è stato del 2,2% del Pil e non include misure di copertura una tantum; nel corso del 2002 sono state prese misure di riduzione delle entrate e aumento delle spese e il fabbisogno del settore statale dei primi otto mesi dell’anno è superiore a quello del 2001 di ben 13 miliardi di euro, a fronte dell’obiettivo di una sua riduzione di due miliardi di euro nell’intero anno.

Anche le famiglie sono state disorientate dalla gestione del bilancio pubblico e dalla comunicazione che l’ha accompagnata. Esse hanno visto ricomparire all’orizzonte il problema delle manovre di finanza pubblica: in ultima istanza, o maggiori imposte o minori prestazioni per il futuro. Ma non doveva trattarsi di una grande operazione a costo nullo? Un pasto gratis, che per miopia i governi dell’Ulivo non avevano visto? A questo punto che cosa rimane della strategia di sviluppo che il governo intendeva perseguire? Deve tamponare gli effetti sia della propria ingenuità e del proprio nervosismo che del rinvio di azioni di riduzione del disavanzo pubblico nel corso dell’anno passato e ciò va ad aggiungersi agli effetti del rallentamento generalizzato della crescita dell’economia mondiale.

La seconda importante discontinuità nasce tra le righe del Patto per l’Italia. Nel corso degli anni Ottanta, l’abolizione della scala mobile, la sospensione della contrattazione aziendale e il blocco dei salari nel pubblico impiego sono stati la premessa per gli accordi del 1992-1993 che hanno definito le procedure di contrattazione nazionale e aziendale con lo scambio tra moderazione salariale, per favorire la disinflazione, e partecipazione alle scelte di politica economica. La partecipazione si è esplicitata nella condivisione, in via ordinaria, degli obiettivi e degli strumenti indicati anno dopo anno nel Dpef e, in via straordinaria, nella condivisione di scelte specifiche quali la riforma del mercato del lavoro, dell’assistenza e del sistema pensionistico.

Nel periodo 1996-1997, il principale obiettivo condiviso, dal quale sono discesi gli accordi di quegli anni tra governo e rappresentanze sindacali, è stato l’obiettivo della moneta unica europea. Nello stesso periodo, la partecipazione delle associazioni di rappresentanza di interessi diventa via via più diffusa: le rappresentanze degli artigiani, dei commercianti, delle piccole imprese e degli agricoltori vengono coinvolte già nel settembre 1996 per concordare un percorso di modificazione consensuale del sistema di tassazione e di costruzione di una nuova lealtà fiscale di queste categorie; nel corso della trattativa sul welfare anch’esse vengono consultate, sia pure in una condizione non del tutto paritetica rispetto a quella delle confederazioni sindacali e di Confindustria.

Una volta realizzata la convergenza alla moneta unica, la unanimità sugli obiettivi macroeconomici da perseguire si sfalda, ma l’impianto della concertazione si allarga a un ampio ventaglio di rappresentanze di categoria. Un compromesso viene raggiunto con il Patto per il Lavoro del Natale 1998, che vede le confederazioni sindacali e le altre rappresentanze di categoria in posizione paritaria. I sindacati accettano di proseguire nella moderazione salariale in cambio di un programma di riduzione delle imposte sul reddito e di provvedimenti di sostegno all’occupazione; alle rappresentanze dei datori di lavoro grandi e piccoli viene offerto un programma di riduzione progressiva del costo del lavoro di 0,8 punti all’anno per almeno tre anni, di riduzione dell’Irpeg e di incentivi agli investimenti, rafforzati per gli investimenti al Sud. Tutte misure adottate con le leggi finanziarie per il 1999, 2000 e 2001.

Il Patto per l’Italia (o patto per la competitività), sottoscritto dopo che il governo ha presentato in parlamento disegni di legge delega sulla riforma fiscale, sul mercato del lavoro e sulla previdenza, sembra, a parole, procedere lungo la stessa linea del 1998. In realtà, al di là delle numerose e generiche parole impiegate, con riferimento a una molteplicità di temi, indica tre obiettivi specifici immediati di portata molto limitata (riduzioni limitate di imposte, aumento dell’indennità di disoccupazione, revisione dell’articolo 18) e lascia trasparire una nuova linea d’azione per l’assetto del sistema di welfare nel medio periodo (disintermediazione del settore pubblico nella funzione di assicuratore sociale). Della strumentalità della revisione dell’articolo 18 mi pare si sia scritto a sufficienza. Verrebbe da pensare che il miglioramento della competitività nasca, sul piano operativo, prevalentemente dalla riduzione dello «strapotere» sindacale. Degli altri provvedimenti concreti non si può che sottolineare la inadeguatezza rispetto ai grandi obiettivi enfaticamente enunciati nelle prime pagine del Patto: aumento di medio periodo del tasso di partecipazione; rilancio dei consumi; riduzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito; miglioramento della produttività; riduzione del cuneo fiscale; per non parlare dell’analisi pregevole sul Mezzogiorno.

Per quanto riguarda le famiglie, la riduzione delle imposte personali sul reddito aggiuntiva a quella già dovuta ammonterà a circa due miliardi di euro. Dei 5,5 miliardi previsti dall’accordo 3,5 erano già dovuti sia per le riduzioni già programmate con la legge finanziaria per il 2001, sia per correggere l’effetto del fiscal drag conseguente al fatto che anche per il 2002 l’inflazione è superiore al 2%. Per quanto riguarda le imprese, la riduzione dell’Irpeg di due punti ne aggiunge uno a quello già previsto dalla legislazione vigente e la riduzione dell’Irap appare puramente simbolica. Nel complesso le risorse nuove che il governo mette a disposizione ammontano a circa 3,3 miliardi di euro. È questo il grande passo avanti per creare gli incentivi ad aumentare l’offerta di lavoro e quindi incamminarsi lungo la strada dell’aumento del tasso di partecipazione tracciata dal Consiglio europeo di Lisbona e fatta propria dal Patto? L’aumento del tasso di partecipazione alle forze di lavoro può avvenire sollecitando i giovani a cominciare prima la loro attività di lavoro, le donne che hanno avuto un primo figlio a rientrare al lavoro e i lavoratori in età matura a non abbandonarlo. La formazione permanente per sostenere la capacità di essere produttivi anche dei lavoratori più anziani viene citata, ma nulla di concreto è enunciato. Al riguardo il programma dell’Ulivo includeva crediti di imposta individuali per chi investe nella propria formazione durante l’intera vita lavorativa; prevedeva un premio fiscale per l’inserimento dei lavoratori giovani e delle madri che rientrano al lavoro e sgravi contributivi mirati sui bassi salari per compensare la produttività poco elevata dei lavoratori con le qualifiche più basse. Non ci sono risorse sufficienti per fare tutto? Si scelga ciò che è più probabile che dia i risultati economici cercati, non quelli elettorali, almeno a questa distanza dalle prossime elezioni!

Non si può nemmeno dire che così generalizzato si tratti di un intervento in grado di stimolare i consumi e ridurre le diseguaglianze nella distribuzione del reddito. È sufficiente un po’ più di incertezza sul futuro, alimentata nel modo che ho prima indicato, perché un piccolo aumento della propensione al risparmio precauzionale annulli gli effetti di questo piccolo incremento del reddito disponibile.

L’altro provvedimento concreto, l’aumento dell’indennità di disoccupazione e il prolungamento della sua durata da sei a dodici mesi, vincolato da un limite di spesa di 700 milioni di euro, non solo costringe il governo a prevedere di non versare i contributi figurativi per i mesi di disoccupazione dopo il sesto, ma non va al nocciolo della questione. Nonostante tutte le buone intenzioni enunciate nel testo del Patto, il provvedimento non cambia i destinatari potenziali dell’indennità di disoccupazione. Se vi è un problema da superare nell’attuale assetto degli ammortizzatori sociali in Italia è quello della segmentazione della platea dei potenziali assicurati e della necessità di far accedere alla copertura del rischio disoccupazione anche il numero crescente di lavoratori precari. È un problema di cui i sottoscrittori del Patto segnalano di essere consapevoli e ad esso offrono una soluzione in prospettiva sulla quale sarà opportuno riflettere in modo molto più elaborato di quanto non sia possibile fare in questa sede. Per certi versi, il Patto prospetta una linea di rottura con il passato. Essa consiste nel suggerire che l’integrazione che da tante parti è ritenuta necessaria per il nostro sistema delle assicurazioni sociali avvenga prevalentemente attraverso gli enti bilaterali, ovvero sia il risultato di un accordo tra le parti sociali che gestiranno la prestazione medesima. Finora gli enti bilaterali esistenti hanno gestito integrazioni marginali nei confronti di soggetti già protetti, il compito che viene dato a queste strutture bilaterali nel Patto è di coprire lavoratori appartenenti a settori che non hanno le coperture di base.

Questa svolta presenta problemi dal punto di vista della diversificazione del rischio: settori in cattive condizioni strutturali rischierebbero di vedere aggravate le loro condizioni di costo. Nello stesso tempo, in termini più generali, la protezione dal rischio disoccupazione diventerebbe alla fine un pezzo dell’attività contrattuale e il grado di copertura risulterebbe funzione della forza contrattuale delle parti. Sulle questioni di principio, infine, ciò sposterebbe dal cittadino al lavoratore il diritto ad alcune assicurazioni sociali. Spero di sbagliarmi, ma vedo in questa impostazione un rischio di divisione tra le confederazioni sindacali, nel medio periodo, più forte di quello costituito attualmente dalla revisione dell’artico 18 dello Statuto dei lavoratori.