Il partito che ancora non c'è, ma che è già al governo

Di Innocenzo Cipolletta Venerdì 01 Settembre 2006 02:00 Stampa

È possibile la nascita di un nuovo partito politico mentre le componenti sociali e politiche che dovranno comporlo e che si suppone saranno i motori della nuova aggregazione politica, sono già al governo? La domanda non è retorica, perché in genere un nuovo partito nasce più facilmente nell’ambito di una opposizione che vuole riconquistare il consenso e che sente di poter esprimere nuove esigenze e nuove pulsioni emotive rispetto al governo in carica. Un nuovo partito, affinché sia percepito come una novità, ha sempre qualche connotato di rottura, esprime una stanchezza per i rituali esistenti, vuole nuovi volti e pretende anche qualche vittima che si dichiari e risulti essere sconfitta. In altre parole, un partito nasce più facilmente dopo una sconfitta politica dalle ceneri del partito o dei partiti esistenti, con volti e idee nuove e dopo un processo dialettico acceso e spesso traumatico.

Creare un nuovo partito governando

È possibile la nascita di un nuovo partito politico mentre le componenti sociali e politiche che dovranno comporlo e che si suppone saranno i motori della nuova aggregazione politica, sono già al governo? La domanda non è retorica, perché in genere un nuovo partito nasce più facilmente nell’ambito di una opposizione che vuole riconquistare il consenso e che sente di poter esprimere nuove esigenze e nuove pulsioni emotive rispetto al governo in carica. Un nuovo partito, affinché sia percepito come una novità, ha sempre qualche connotato di rottura, esprime una stanchezza per i rituali esistenti, vuole nuovi volti e pretende anche qualche vittima che si dichiari e risulti essere sconfitta. In altre parole, un partito nasce più facilmente dopo una sconfitta politica dalle ceneri del partito o dei partiti esistenti, con volti e idee nuove e dopo un processo dialettico acceso e spesso traumatico.

L’attesa nascita del Partito Democratico deriva invece da una serie di aspettative represse o non espresse che, in un modo o in un altro, hanno trovato già una risposta nella vittoria, seppure risicata, dell’Ulivo nelle elezioni del 2006. E infatti, la coalizione che ha vinto ha, al suo interno, il nocciolo forte di quello che dovrà essere il Partito Democratico. Questo partito che ancora non c’è, è tuttavia già al governo del paese, ha volti ben noti e personaggi densi di storia precedente e sta dando le sue risposte mentre la gente che lo dovrebbe far nascere sta ancora cercando di formulare le proprie domande. Corrisponderanno le risposte dell’attuale governo alle possibili domande del suo futuro partito di riferimento? Riusciranno le componenti al governo a sciogliersi in un nuovo partito? Come potrà essere data una risposta alla domanda di novità da parte di soggetti che tutto possono rappresentare meno che il senso di novità e quella forma d’ingenuità che sono caratteristiche precipue di una nuova avventura politica?

Siccome non si può rinviare la nascita di un nuovo partito, tanto a destra quanto a sinistra, né è possibile consigliare di aspettare una prossima sconfitta elettorale per lanciarlo, è necessario che la nascita del nuovo partito sappia sposare gradualità e rottura, continuità ed eversione, pragmatismo e coraggio. Ne deriva che la nascita del Partito Democratico deve trovare una sua validazione anche e soprattutto dall’azione del governo in carica che, mentre governa assicurando una continuità necessaria al paese, deve potersi permettere anche azioni emblematiche di rottura con il passato di riferimento, in modo da definire la fattibilità di specifici obiettivi politici. In altre parole, il Partito Democratico nascente, in questa fase, non può ricevere smentite dal governo che ne è una espressione seppure contingente.

Ecco allora la necessità di lavorare su due piani: quello del governo che innova dando il senso della direzione di marcia, magari azzardando alcuni passaggi che potrebbero risultare più difficili sul piano politico, e quello della costruzione di un nuovo partito che dia voce ad esigenze del futuro e non a bisogni del passato.

 

L’accelerazione del cambiamento e l’azione del governo

Dire che viviamo in un’epoca di accelerazione del cambiamento appare ormai una banalità. Più importante è riflettere sul fatto che questa accelerazione è ormai permanente e che il mondo di oggi, che ci sembra così complicato, tra pochi anni ci sembrerà vecchio e banale come se fossero passati dei secoli.

Non è soltanto la tecnologia informatica che ha cambiato il mondo, e non siamo in un ciclo tecnologico di lungo periodo con le sue fasi di accelerazione e successiva decelerazione. Siamo in un’epoca di moltiplicazione dell’innovazione, grazie all’immenso sforzo di ricerca che sta caratterizzando i principali paesi del mondo. Il numero di scienziati e di operatori che applicano nuove tecnologie è aumentato in misura straordinaria: basta calcolare il numero di scienziati che si formano nelle università e nelle imprese oggi e confrontarlo con quello di venti o quaranta anni fa. Questa rete di ricercatori, sparsa in tutto il mondo, ha al suo interno legami molto stretti, e attraverso questi rende fertile la propria ricerca, sicché le probabilità di innovazione sono cresciute al punto tale che è certo che esse si susseguiranno con un ritmo accelerato.

Questo fenomeno si autoalimenta in continuazione grazie anche all’emersione di nuove aree di sviluppo. L’India e la Cina stanno entrando tra i paesi di nuova industrializzazione, ma portano con sé aree di povertà, e quindi esigenze di crescita, ancora inespresse, che nei prossimi anni produrranno un allargamento anche della capacità di investimento nella ricerca.

La forte tensione alla ricerca produrrà innovazioni continue che rivoluzioneranno ininterrottamente i modi di produrre, le forme di consumo, gli stili di vita, le preferenze individuali, fino agli assetti istituzionali che già oggi appaiono obsoleti. Questo fenomeno non sarà scevro di tensioni e di rischi sociali e militari, come purtroppo stiamo già vedendo. Anche la politica internazionale dovrà, dunque, essere innovata per rispondere ad esigenze e prevenire tensioni fino ad oggi mal percepite.

Sul piano nazionale, è certo che le innovazioni produrranno crescita e benessere solo se riusciremo a stare al passo con gli altri paesi e se si riuscirà a far emergere nuove imprese e nuovi stili di vita e di consumo capaci di far partecipare appieno l’Italia al processo innovativo mondiale. Questo obiettivo di adattamento progressivo al processo creativo avviatosi, sarà più facilmente perseguito se le organizzazioni degli interessi costituiti sapranno reagire positivamente, adattandosi con rapidità alle innovazioni. Poiché ciò non è garantito, almeno sulla base delle recenti esperienze italiane, sarà necessario che il governo accetti di confrontarsi con le molte corporazioni del nostro paese (ordini, associazioni, sindacati ecc.) per avviare processi di riduzione e di eliminazione dei vincoli esistenti.

Questo processo è chiamato impropriamente di liberalizzazione, assumendo così anche un connotato politico. Pur non avendo nulla in contrario rispetto a questo termine, tuttavia è da segnalare come tale processo non sia una semplice liberalizzazione del mercato, nell’attesa poi che gli animal spirits di keynesiana memoria possano dispiegarsi spontaneamente. Si tratta anche di sollecitare risposte positive in un ambiente economico e sociale spesso paralizzato dai tanti anni di prevalenza delle corporazioni.

Ecco allora la necessità di istituire alcuni enti (Authority) che abbiano una missione a termine per sollecitare rapide risposte positive e per ridurre gli ostacoli, vecchi e nuovi, che verranno posti per frenare i processi di apertura all’innovazione da parte di chi rappresenta gli interessi costituiti. È un compito difficile e delicato perché queste autorità dovranno agire per favorire le libere espressioni di soggetti economici e sociali moderni, senza diventare esse stesse organi dirigisti verso soluzioni predefinite. Per questo è necessario fissare un termine tassativo di pochi anni, diverso da settore a settore, oltre il quale l’azione dell’Authority dovrà cessare, perché ha raggiunto il suo scopo. E se non lo avesse raggiunto, ciò starebbe a significare che per quel comparto o settore l’azione di una Authority non è efficace.

Nell’operare a favore dell’adattamento al cambiamento, l’azione del governo dovrà anche farsi carico delle minoranze che non riusciranno ad adattarsi. Per questo, nel mentre si spinge per ridurre o eliminare i vincoli corporativi, è necessario approntare una rete di sicurezza sociale di ultima istanza che agevoli il processo di adattamento e salvaguardi quelli che proprio non riusciranno a farlo. Una rete leggera, che favorisca questo processo senza preservare vecchie posizioni e che sia estesa a tutti.

L’azione del governo, in altre parole, deve favorire il cambiamento e non ostacolarlo. Ciò lo porterà a prendere anche decisioni impopolari, perché non potrà basare la sua azione sempre sul consenso. L’avvio delle cosiddette liberalizzazioni di luglio del decreto Bersani, pur se in parte rientrate, lascia intravedere la strada da percorrere. Questa strada dovrà essere fatta soprattutto nel corso dei primi due anni di governo, affinché sia efficace e dia il senso del cambiamento.

 

Il Partito Democratico e la domanda di cambiamento

L’Italia per troppo tempo ha vissuto sulle risposte da dare ai problemi passati e si è poco occupata di futuro, se non quando esso è diventato un passato. Avanziamo con la testa rivolta all’indietro, soddisfacendo vecchie esigenze mentre i singoli (persone, imprese, enti ecc.) cercano con difficoltà di creare le nuove condizioni per adattarsi ad un mondo che cambia di continuo. Questo misto di dirigismo politico e di laisser faire individuale, che ha caratterizzato l’Italia del dopoguerra, ha anche prodotto buoni risultati, garantendo una relativa calma sociale mentre le strutture economiche e civili si adattavano ad un mondo in continua mutazione. Così abbiamo vissuto la ricostruzione dopo la guerra, il miracolo economico, le ristrutturazioni successive alle crisi petrolifere.

Ma l’accelerazione impressa dalle nuove tecnologie e la nascita di nuove aree di sviluppo economico nel mondo stanno cambiando rapidamente lo scenario di riferimento, sicché questo agire sul doppio binario di una politica rivolta prevalentemente al passato mentre la società cerca di adattarsi al futuro non regge più, e i ritardi che rischiano di accumularsi sono talmente grandi da generare tensioni che poi inibiscono qualsiasi possibilità di adattamento. Questa è l’esperienza degli ultimi venti anni, anche se sono stati fatti alcuni passi in avanti.

La politica dovrà sempre essere attenta agli interessi costituiti che rappresentano la necessaria base di riferimento, ma questi interessi sono ormai molteplici e la stessa persona o corporazione esprime esigenze che un tempo potevano essere considerate in contrasto. Lo sviluppo economico e tecnologico tende a stemperare le differenze tra i segmenti sociali, sicché i confini si sovrappongono. Non sono più chiare le separazioni tra lavoratori dipendenti, consumatori, risparmiatori, pensionati, proprietari, artigiani, professionisti, imprenditori, dirigenti, manager ecc. Ogni persona è spesso presente in molte categorie contemporaneamente e risponde a più esigenze, sicché nuovi soggetti politici non possono più essere emblema di specifiche categorie, perché non saprebbero comunque rappresentarle.

Ecco allora che una destra come quella italiana, che pretende di rappresentare soprattutto professionisti, proprietari, imprese, manager, che si raffronta ad una sinistra che è ritenuta rappresentare soprattutto salariati, impiegati, pensionati, disoccupati e simili, è un assetto del passato che già oggi è contraddetto dai fatti. Questo tipo di separazione tra destra e sinistra, se mantenuto nel tempo, è destinato a generare una continua instabilità politica, con successivi ribaltamenti di fronte, perché ogni vittoria elettorale sarà basata sempre sullo scontento nei confronti del governo in carica, piuttosto che in favore del programma e delle aspettative relative al nuovo governo. Si voterà sempre «contro» e non in favore di un nuovo programma, con il risultato che si resterà delusi subito, appena il nuovo governo entra in azione, proprio perché nessuno schieramento rappresenta completamente le esigenze complesse e diversificate di un corpo elettorale che sfugge a classificazioni datate. Questo sta avvenendo in molti paesi dell’Europa continentale e in particolare in Italia, dove l’alternanza di governo appare essere ormai un destino ineluttabile, più che una scelta ragionata dell’elettorato.

Quella delle due parti che farà per prima il salto verso una nuova divisione delle aspettative correrà forse il rischio di perdere la propria base storica di riferimento, ma avrà anche più possibilità di affermarsi nel futuro politico di questo paese. Questo è il rischio che, a mio avviso, deve correre una nuova formazione politica, se vuole cambiare il paese e favorire un nuovo assetto sociale ed economico, capace di generare una stabilità politica indispensabile per sostenere i processi di modernizzazione.

Le nostre società si stanno separando tra quanti sanno cogliere le occasioni proposte dal cambiamento tecnologico ed economico e quanti invece stentano ad adattarsi e vorrebbero fermare il mondo per non affrontare i nuovi problemi. Nelle epoche di rapido cambiamento, il numero di quanti si adattano è sempre minoritario, almeno durante la prima fase, e tende a crescere troppo lentamente, mentre le resistenze degli interessi costituiti cercano di rallentare il cambiamento, con la scusa di volerlo dominare. Compito di una nuova formazione politica, che non rifiuti il cambiamento e che punti al progresso, dovrebbe essere quello di aumentare al massimo il numero dei soggetti che si adattano al cambiamento, riducendo i disagi di quanti restano indietro.

Non si tratta, dunque, di pretendere di dominare il cambiamento e di indirizzarlo verso specifici e predeterminati assetti (la storia è piena di programmazioni, fallite anche tragicamente), ma di favorire la preparazione e la capacità di adattamento del maggior numero possibile di persone e di istituzioni, affinché siano loro a individuare e a realizzare gli assetti del futuro. Questo implica forti investimenti in educazione, istruzione, ricerca e infrastrutture che rendano il paese e i cittadini capaci di trovare la loro strada in una evoluzione economica, sociale, istituzionale e politica che non può essere prevista e programmata. Un maggiore investimento nelle risorse umane e istituzionali consentirà all’Italia anche di partecipare a pieno titolo alle scelte mondiali di domani.

Nessuno conosce il futuro, ma è certo che esso sarà di chi è più preparato al cambiamento e più ha investito in educazione e infrastrutture. Compito della politica è preparare la gente a risolvere da sé i propri problemi, piuttosto che risolverli direttamente.