Il TNP è ancora in vigore?

Di Ferdinando Salleo Giovedì 27 Marzo 2008 14:30 Stampa

Il disordine che prevale oggi nella società internazionale trova nella proliferazione delle armi nucleari – in realtà di tutte le armi di distruzione di massa, di cui quelle nucleari sono il capitolo più temuto – un potente generatore di inquietudine, che alimenta le contrapposizioni tra gli Stati e la geometria variabile delle intese, di quelle di dissuasione come di diffusione. Lo scenario mondiale è sempre più caratterizzato dalla mobilità dei fattori politici, economici, culturali, sociali e strategici dei diversi Stati nel gioco dell’equilibrio delle forze e della riaggregazione, suscitato dall’assetto multipolare.

In questo assetto il nucleare, per decenni collocato nel contenitore di sicurezza degli accordi sovietico-americani, che razionalizzavano il condominio strategico delle due superpotenze, è riapparso nei programmi di diversi paesi, a tentarne altri e a preoccupare governi e popolazioni di fronte alla prospettiva di armi di distruzione di massa in possesso di regimi alla ricerca di affermazione egemonica o di controassicurazione per la propria sopravvivenza e persino con il timore che se ne impadroniscano le organizzazioni terroriste o quelle criminali. Il senso stesso del termine «proliferazione nucleare», esorcizzato, si riteneva, dal trattato omonimo, ha acquistato realtà concreta.

Dal primo esperimento atomico dell’aprile 1945, cui seguì, poco dopo, la bomba sganciata su Hiroshima, alla crisi non ancora del tutto risolta per gli armamenti della Corea del Nord e a quella serpeggiante provocata dal programma nucleare dell’Iran – quest’ultima minacciosa come una bomba a orologeria – il possesso di un arsenale nucleare e lastessa capacità di dotarsi delle tecnologie necessarie hanno percorso un lungo cammino segnato da una filosofia politica e da una dottrina strategica che rispecchiano l’equilibrio internazionale dominante. L’Unione Sovietica conseguì la capacità nucleare militare solo quattro anni dopo Hiroshima, compiendo sforzi enormi e avvalendosi di ogni mezzo, ma appena un anno intercorse tra le due superpotenze (nel 1952 gli Stati Uniti, nel 1953 l’URSS) perché acquisissero la capacità termonucleare, la bomba H. Intanto, il periodo più aspro del confronto tra Washington e Mosca, che corrispondeva alla fase più rischiosa della guerra fredda, culminò nel 1962 con la crisi dei missili sovietici inviati a Cuba e con il duello diplomatico a distanza tra Kennedy e Khrusciov. Doppiato il capo del confronto, una complessa serie di accordi di controllo degli armamenti e di iniziative unilaterali di trasparenza e di confidence building produsse pian piano un regime di reciproca vigilanza armata e limitò i rischi di una conflagrazione dalle conseguenze devastanti, fino alla conclusione di un accordo di sistema. Dopo una lunga trattativa alle Nazioni Unite, la filosofia del controllo della proliferazione produsse infatti nel 1968 il Trattato di non-proliferazione (TNP), che congelava la situazione del possesso e dello sviluppo di armi nucleari in un sistema di condominio strategico durato fino al 1991, fino cioè alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Alle due superpotenze si aggiungevano, in evidente stato di minorità di fatto, altri tre Stati «militarmente nucleari» – Cina, Regno Unito e Francia – mentre gli altri firmatari si impegnavano a non perseguire la produzione della bomba atomica ottenendo in cambio un impegno dei «cinque» (che erano poi i membri permanenti del Consiglio di sicurezza) ad avviare un processo di eliminazione dei rispettivi armamenti atomici sotto controllo internazionale e ad aiutare gli altri Stati a dotarsi della tecnologia nucleare a fini esclusivamente pacifici.

L’intesa americano-sovietica sull’esclusione del nucleare militare al di là dei «cinque» e sul controllo degli sviluppi civili portò ad un’energica quanto paziente opera di convincimento perché aderissero al trattato i paesi che avevano cominciato a creare laboratori e infrastrutture, mentre le controversie nei paesi più avanzati sull’opportunità di accettare il regime dualistico durarono fino al completamento delle ratifiche. Il TNP entrò in vigore nel 1970 e ridette vita all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), custode del sistema consacrato nel trattato che fu – avventurosamente e non molto meditatamente – rinnovato a tempo indeterminato nel 1995 senza che i «cinque» avessero dato seguito all’impegno, pur generico, di denuclearizzazione concepito in origine come contropartita del monopolio e della disuguaglianza di status. Se poco per volta parecchi paesi riluttanti, come l’Egitto e l’Argentina, il Brasile e il Sudafrica abbandonarono i loro progetti, altri, come l’India eil Pakistan mantennero in vita la ricerca rifiutando di aderire al TNP: tra questi, Israele proseguì le ricerche e lo sviluppo, giungendo a produrre e possedere qualche centinaio di armi nucleari – un programma mantenuto segreto su cui il governo rifiuta ogni dichiarazione, di conferma o di smentita.

Dei «cinque», la Cina aveva un modesto apparato nucleare, la Francia uno strumento solo nazionale e l’Inghilterra non si distaccava dalla dottrina d’impiego americana. In termini di sicurezza il duopolio americano- sovietico della potenza nucleare aveva costruito un sistema di reciproca deterrenza basato sul valore virtuale dell’arma di ultima istanza, confermato con il Trattato sul regime dei missili antibalistici (ABM) del 1972, che formalizzava la minaccia della reciproca distruzione assicurata come estremo strumento per scongiurare ogni azzardo aggressivo. L’ordine bipolare aveva trovato il proprio equilibrio in una scomoda, ma efficace stabilità. Infatti, disgregatasi l’URSS, la priorità della sicurezza fece concentrare i sistemi nucleari sovietici sotto il controllo della Russia, ritirandoli dalle altre repubbliche e avviando un programma di distruzione e riciclaggio che prende il nome dai senatori americani Sam Nunn e Richard Lugar.

Il quadro politico-strategico di riferimento dell’armamento atomico era però cambiato: la fine del bipolarismo della guerra fredda aveva ridefinito i termini della sicurezza globale. La stabilità nucleare è durata pressappoco sessant’anni. In breve tempo il disordine internazionale, laframmentazione del sistema e la stessa dinamica della globalizzazione hanno fatto sì che la corsa agli ordigni nucleari ridestasse i laboratori e finalizzasse la ricerca scientifica alla produzione della bomba, sollecitando persino una specie di mercato nero della tecnologia nucleare in cui lo scienziato pakistano Abdul Qadeer Khan poté avviare una lucrosa rete semiclandestina di fornitura di materiali e di progetti a vari paesi. Già nel 1998 l’India e il Pakistan (che non avevano firmato il TNP) si dichiararono militarmente nucleari con commovente contemporaneità, la Corea del Nord avviò esperimenti avanzati già nel 1993, si ritirò dal Trattato nel 2003 per reazione alle proteste internazionali e annunciò due anni dopo un’esplosione effettuata con successo. Alla fine del 2003 la Libia dichiarò di possedere la capacità nucleare, ma di rinunciarvi e di smantellare gli impianti sotto controllo internazionale. Tralasciamo i controversi programmi di Saddam Hussein prima della guerra del Golfo e le conseguenze che ebbero nel 2003.

L’Iran, aderente al TNP, aveva avviato programmi sull’atomo sin dal tempo dello scià e ha prontamente accelerato il processo di conseguimento della capacità nucleare dichiarando di voler utilizzarla solo per fini civili, ma senza convincere l’AIEA e tanto meno l’opinione pubblica preoccupata degli altri paesi. Si è diffuso quindi il timore che la minaccia dei nuovi Stati militarmente nucleari e il bisogno di sicurezza, quindi di deterrenza, la volontà di resistere alle velleità egemoniche dei vicini e ogni altra motivazione di potenza e prestigio possano allargare alle regioni contigue il campo dell’acquisizione di ordigni.

I nuovi attori nucleari configurano fattispecie politiche e giuridiche differenti. Islamabad, pur non firmataria del TNP, è in aperta violazione del regime antiproliferazione. Tuttavia, è difficile contrastare frontalmente il fragile regime del Pakistan, contiguo alle aree in mano ai talebani in Afghanistan, incapace di controllare le proprie regioni di frontiera dove si annida al Qaeda, con un instabile equilibrio interno chepoggia su Musharraf, un alleato degli Stati Uniti contestato dagli islamisti che poco può contare sui potenti servizi segreti militari. Il presupposto politico e strategico dell’arsenale nucleare pakistano è ovviamente il conseguimento della capacità atomica da parte dell’eterno nemico indiano. Il rischio che la disgregazione del regime di Islamabad o un colpo di Stato facciano cadere l’arma nucleare pakistana in mano ai terroristi è un’ipotesi sconvolgente. Condannare e sanzionare il Pakistan, quindi, non sarebbe stato facile, tanto più quando nei confronti dell’India, neanch’essa parte del TNP, l’approccio americano è stato accomodante, con l’accettazione di fatto del nuovo status e la separazione progressiva del nucleare civile da quello militare in una sorta di congelamento dell’armamento atomico assortito da impegni di cooperazione tecnologica nel settore civile – un regime preferenziale che il Congresso non ha ancora approvato. In ogni caso, siamo giunti a otto paesi dotati dell’atomica: i «cinque», Israele e i due grandi Stati della penisola indiana, in un equilibrio sostanzialmente accettato dalle maggiori potenze, anche se indebolisce ed emargina l’assetto politico e strategico che aveva ispirato il TNP.

Le imprese nucleari della Corea del Nord e dell’Iran, invece, hanno provocato due crisi importanti, dettate da motivazioni in parte differenti e affrontate con metodi diversi. L’avventura nordcoreana è la dimostrazione della fine dell’equilibrio bipolare, se guardiamo all’ipotesi comunemente accettata che sia stata suggerita dall’intendimento di costruire un deterrente contro una temuta aggressione che il tirannico isolato regime nutriva, consapevole forse di rappresentare un’anomalia internazionale: la prima guerra del Golfo e la sconfitta di Saddam Hussein, finita la copertura sovietica, può aver fornito a Kim Jong Il l’esempio da evitare. Certo è che la reazione americana alla possibile destabilizzazione dell’Asia settentrionale, con il Giappone e la Corea del Sud, fu piuttosto contenuta e dette inizio a una lunghissima trattativa con sviluppi alterni in cui i nordcoreani hanno guadagnato tempo fino all’esplosione dell’ordigno, alternando i gesti di apertura a quelli di sfida, mentre gli americani moltiplicavano proposte ragionevoli – l’assistenza per l’energia nucleare contro l’abbandono dei programmi militari – e gesti politici destinati a solleticare la ricerca di prestigio che sospettavano nel dittatore nordcoreano. Dopo più di dieci anni, il pesante intervento della Cina sul piccolo e infido Stato cliente ha sbloccato infine i negoziati che erano diventati multilaterali, conclusi con un accordo che si traduce in una serie di impegni distribuiti in un processo verificabile. Da un lato, la chiusura e lo smantellamento degli impianti nordcoreani (ancor oggi sospesi in attesa dello sblocco dei fondi conge-lati in una banca di Macao), l’impegno alla denuclearizzazione della penisola coreana e la riammissione degli ispettori dell’AIEA. In cambio, Pyongyang riceve una generosa contropartita che comporta il riconoscimento del regime e la fine dell’isolamento: consistenti aiuti economici ed energetici, la cancellazione dalla lista dei paesi canaglia e quindi dall’embargo, l’avvio della normalizzazione delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, in altri termini la rinuncia di Washington alla politica di regime change. Il processo di attuazione è appena cominciato.

Se la trattativa con la Corea del Nord ha avuto un percorso sostanzialmente soft, la crisi del nucleare iraniano ha visto prevalere, senza risultati, i toni concitati della contrapposizione ideologica e quelli della minaccia militare. Certo, nell’Asia nordorientale la presenza cinese consigliava prudenza – e Pechino ha mostrato grande capacità politica e diplomatica – mentre in quella centrale prevalgono, con la sfiducia e il sospetto reciproci, fattori contraddittori come il disagio americano per la diffusa violenza della guerra civile irachena, in cui Teheran svolge un ruolo negativo, e le ambizioni egemoniche regionali dell’Iran, i problemi del controllo e quelli del trasporto dell’energia, l’assurda aggressività di Ahmadinejad e le ambiguità del regime degli ayatollah, il peso, oggi in decisa diminuzione, dei neoconservatori a Washington, fautori dell’intervento preventivo e votati alla rifondazione del «grande Medio Oriente», in un disegno astratto quanto irrealistico. È mancato poi il ruolo dell’altra potenza nucleare dell’area: la Russia. A differenza di Pechino, Mosca non svolge un ruolo attivo nella soluzione della crisi, salvo un’offerta iniziale – rifiutata da Teheran e poi ritirata dai russi – di arricchire l’uranio iraniano ritirando poi le scorie. Il negoziato multilaterale non è mai veramente decollato, malgrado i tre europei si siano attivati e Javier Solana abbia preparato un «pacchetto» di proposte. I primi incerti contatti americano-iraniani sono appena cominciati, in un balletto di aperture e ripulse, alla conferenza sulla stabilizzazione dell’Iraq. Comunque vadano le due ultime crisi – quella coreana sembra risolta, quella iraniana è del tutto imprevedibile – la proliferazione nucleare è diventata un fatto con cui la politica internazionale deve fare i conti, soprattutto nel Vicino e Medio Oriente, dove manca una cornice di sicurezza collettiva. È realistico immaginare, infatti, che l’Egitto o gli Stati sunniti del Golfo decidano di fronteggiare dotandosi dell’arma ato-mica l’avanzata dell’Iran sciita che destabilizza la regione rinfocolando il duello tra le due confessioni islamiche e quello tra arabi e persiani. Se il regime giuridico del TNP è fortemente indebolito, la sola alternativa alle regole internazionali è però la legge del più forte, che è stravolta oggi nei dati di fondo dal ricatto nucleare dei piccoli paesi verso i grandi e dalla prospettiva dei terroristi in possesso di ordigni atomici, anche primitivi o «sporchi».

La teoria dell’uso dell’arsenale nucleare si arricchisce quindi di nuovi contributi, tagliati sulla constatata fine del regime duopolista. Le posizioni radicali abbondano, forse con un eccesso di semplificazione da cui l’esagerazione finisce per mostrare un mondo manicheo o un quadro in bianco e nero. Accanto a chi ritiene illusorio cercare di arrestare la proliferazione dell’arma nucleare e sembra rassegnarsi a un accresciuto disequilibrio determinato dall’ineguale corsa agli armamenti, Kenneth Waltz, un noto politologo conservatore, rifiuta la dottrina sinora accettata della soglia, del salto strategico qualitativo determinato dall’impiego del nucleare, e ritiene invece che, allargatasi la sfera dei detentori, si riprodurrà un assetto di deterrenza reciproca destinato a ridurre i rischi della conflagrazione. Henry Kissinger argomenta con il consueto esplicito realismo che il possesso dell’arma nucleare possa essere consentito solo a governi affidabili, non minacciosi – che sostanzialmente vuol dire amici o affini, spiegando così le differenze tra la penisola indiana e i casi nordcoreano e iraniano – implicando un’azione internazionale di divieto e prevenzione. In questa prospettiva l’autore di «Nuclear Weapons and Foreign Policy» trova nella più moderna tecnologia nucleare e nella carenza di conoscenza della minaccia e di tempo per affrontarla – ben diversi dall’epoca della mobilitazione generale e dell’invasione militare – un motivo per riconsiderare le ragioni della guerra preventiva (pre-emptive/preventive) e delineare nuove regole rispetto alla dottrina consolidata della capacità, credibilità e attualità della minaccia a cui si può legittimamente reagire con la violenza. Il detonatore, argomenta Kissinger, potrebbe essere una grave alterazione dell’equilibrio delle forze esistenti o persino una pericolosa turbativa dell’equilibrio nucleare strategico che metta a rischio la sicurezza internazionale. A questo riguardo dobbiamo notare che le potenze che si sono imbarcate nei programmi nucleari sono quelle che temono un’aggressione diretta al rovesciamento violento del regime al potere, o quelle che coprono sotto quei timori ambizioni revisioniste o egemoniche. Per di più, si tratta sinora soprattutto (a parte l’India) di regimi totalitari scarsamente sensibili alla riprovazione e alla condanna internazionale, anche se l’allargarsidella proliferazione nucleare potrebbe indurre al nucleare altri paesi che avvertono una reale minaccia esterna. Anche in questi casi, come in quelli di Stati che intendono dotarsi di arsenali nucleari per ragioni di prestigio, per conquistare un seggio in qualche assise, per acquisire posizioni egemoni regionali o comunque come parte di una politica estera revisionista, la ricerca della stabilità richiede un efficace meccanismo multilaterale di controllo e verifica con più poteri dell’Agenzia di Vienna, piuttosto che l’abbandono del regime proibizionista o la rassegnazione al caos nucleare. È difficile immaginare che i «cinque» adempiano agli impegni di disarmo presi quarant’anni fa, ma sarebbe invece verosimile non ritenere più realistica la «serrata del Maggior consiglio» che ispira il TNP e rivedere tutto il regime per aggiornarlo, non già per premiare i violatori, ma per stabilire nuove e più efficaci regole e metodi di soluzione.

Tutto ciò ci riporta alla necessità di ricostituire un tessuto di regole condivise che permetta di rendere razionali e opponibili i criteri con cui si valutano la minaccia e la sua percezione, la turbativa dell’equilibrio, l’ammissibilità della ritorsione. Soprattutto è necessario concordare i presupposti per una diplomazia di intese tra le nazioni su cui poggiare la soluzione, intese credibili e sostenute dal sistema internazionale. In questo senso, la consultazione multilaterale potrebbe far meglio affiorare i timori – se sono veri – e la loro percezione, persino quella del rovesciamento violento di un governo che, come sempre accade, è soprattutto dedito alla propria sopravvivenza, e immaginare accordi in cui le garanzie internazionali presiedano alla rinuncia all’arma atomica.

Se il meccanismo vigente – il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’AIEA – non è in grado di farvi fronte, sarà compito di una trattativa tra le maggiori potenze – forse nel G8 in via di allargamento – costituirsi in sede innovativa in base ad orientamenti condivisi, a pena della perdurante anomia che perpetua il disordine internazionale e l’instabilità. Nella razionalità dei comportamenti – una presunzione che dobbiamo agli economisti, ma che resta pericolosamente soggetta a verifica – l’uso dell’arma nucleare resta l’estremo ricorso nel pericolo per gli interessi vitali e per la sopravvivenza. In questo senso, la lezione della crisi nordcoreana e, speriamo, gli orientamenti che prevarranno per affrontare quella iraniana, potranno far comprendere alle grandi potenze che occorre affrontare politicamente e diplomaticamente le cause per le quali uno Stato abbia preso una decisione di tale gravità e corra i rischi delle sue conseguenze.