Perché l'economia europea non riesce a essere la più dinamica del mondo

Di Stefan Collignon Giovedì 27 Marzo 2008 13:57 Stampa

Tra le riforme strutturali oggi necessarie all’Europa, una prevale su tutte e riguarda l’interazione tra policy-making e democrazia. Per mettere in luce il legame che esiste tra efficienza economica e democrazia, indicherò prima le ragioni dell’insuccesso della strategia di Lisbona e spiegherò come tale insuccesso sia connesso con il quadro della politica macroeconomica dell’area dell’euro. Infine indicherò una prospettiva di cambiamento istituzionale.

Alla base della mia tesi vi è l’idea che le riforme economiche dell’Europa non stiano funzionando a causa di problemi di azione collettiva. In mancanza di un quadro istituzionale coerente, tali problemi risultano insormontabili ed è per questa ragione che l’Europa in alcuni campi specifici ha bisogno di processi decisionali più centralizzati. Questo, però, è impossibile, se non si rafforza la legittimità democratica dell’Unione europea. Alla UE non basta un «governo economico»: essa ha in realtà bisogno di un «governo politico». La democrazia è la risposta ai problemi che l’Europa deve affrontare.

Si osservi anzitutto il contesto politico. A cinquant’anni dal Trattato di Roma, oggi è presente un’ampia gamma di quelli che gli economisti chiamano beni pubblici europei. Se ne possono individuare tre in particolare. In primo luogo il Mercato unico, fonte di prosperità, di produttività e di competitività nel mondo; una presenza che fa sì che le imprese europee, i lavoratori europei, i cittadini europei siano concretamente partecipi all’economia mondiale e riescano a sopravvivere al suo interno. In secondo luogo l’euro, che assicura la stabilità economica. Di questi tempi si sente spesso dire, in Francia, in Germania o in Italia, che l’euro sia stato un grosso errore, ma probabilmente è vero proprio il contrario. Con l’introduzione della moneta unica è stata chiusa la più grossa bisca per il gioco d’azzardo del mondo, il mercato dei cambi, e questo ha enormemente favorito la stabilità macroeconomica. L’inflazione è effettivamente scomparsa, i tassi d’interesse sono storicamente a livelli bassi e la disoccupazione è in calo. Nei fatti, l’unione monetaria si è dimostrata il più grande programma per la creazione di posti di lavoro nel corso di decenni. Dall’introduzione dell’euro, nel 1999, si sono aggiunti 13 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro in Eurolandia. In Germania e in Italia, nei sette anni precedenti, ne erano stati persi rispettivamente 325 mila e 650 mila, ma dopo quella data sono stati creati oltre 1 milione di posti di lavoro in un paese e quasi 3 milioni nell’altro. Infine, un altro spazio di beni pubblici europei è costituito da politiche specifiche, come quelle che riguardano la concorrenza, l’armonizzazione fiscale, la Politica agricola comune, la libera circolazione delle persone, soprattutto nell’area Schengen, le politiche relative alla sicurezza, la giustizia e gli affari interni, e, in una certa misura, la politica estera.

Che cosa significa per l’Europa disporre di questi beni pubblici? Vuole dire che esistono politiche che riguardano tutti i cittadini europei. Si prenda, per esempio, il tasso d’interesse nella zona dell’euro, che è fissato dalla Banca centrale europea tenendo conto della situazione economica complessiva della zona euro. Tale tasso tocca ogni cittadino europeo, quando vuole acquistare un’automobile o una casa a Helsinki come a Roma, a Lisbona o in Slovenia. Lo stesso vale per i cambi o l’inflazione. I beni pubblici sono diventati importanti nell’Unione europea. Tuttavia, oggi, a cinquant’anni dal Trattato di Roma, la disillusione nei confronti del progetto di unificazione europea è piuttosto diffusa. È questa una sfida che deve essere affrontata. In molti Stati membri si manifestano sentimenti antieuropei che negli ultimi trent’anni sarebbero stati impensabili. Nei referendum costituzionali in Francia e in Olanda ha prevalso il no, e in molti altri paesi del continente emergono sentimenti ostili verso l’Unione europea. Il progetto europeo attraversa una crisi di legittimità.

C’è chi dice che per uscire dalla crisi è necessario fare di meglio: delivery è la soluzione avanzata da Tony Blair, l’Europe à l’épreuve quella di Ségolène Royal. Non sono però proposte sufficienti, in quanto i pro- blemi legati all’azione collettiva ostacolano proprio la possibilità di raggiungere quegli obiettivi e li ostacoleranno finché non disporremo di misure di governo adeguate. In molti politici dell’Unione prevale una concezione ingenua della cooperazione, espressa con la massima chiarezza nel famoso rapporto Kok sulla strategia di Lisbona, il quale affermò che «una marea ascendente in economia, prodotta congiuntamente, avrebbe una forza maggiore in grado di sollevare qualsiasi nave europea». La tesi qui espressa è che, lavorando uniti, ci saranno vantaggi per tutti, e per questa ragione ognuno dovrebbe impegnarsi in tal senso. In questo modo aumenterebbero le possibilità e gli strumenti concessi ai policy-maker per migliorare le condizioni di vita dei cittadini all’interno dei singoli Stati.

È una bellissima idea, ma gli esperti di economia politica sanno bene che non funziona, proprio a causa dei cosiddetti «problemi di azione collettiva ». È un fatto noto da tempo. Già Aristotele osservava come gli uomini s’interessassero meno dei beni pubblici, in ragione del fatto che erano altri ad occuparsene. Quando si parla di problemi di azione collettiva, s’intende dire che la ricerca del proprio interesse personale può fare agire i governi in modo non collaborativo. In effetto ogni Stato è incentivato a sfruttare le azioni portate avanti da altri ed è per questa ragione che l’interesse dei cittadini non viene soddisfatto al massimo. Perché i governi non agiscono nell’interesse collettivo? Perché i beni pubblici assicurano l’accesso a chiunque e quindi lo Stato può godere dei vantaggi così garantiti senza doversi far carico dei costi. In altri termini, ogni Stato può sfruttare a suo piacimento le azioni degli altri. Ogni Stato membro trae benefici facendo il contrario di ciò che gli altri fanno collettivamente. È un fatto ben noto che, quando si presentano problemi di questo genere, le risorse stanziate per fornire beni pubblici sono scarse e la loro erogazione è subottimale.

Certo, un’eccezione esiste e la si trova nell’ambito dei cosiddetti beni pubblici inclusivi, quelli per i quali un governo può effettivamente acquisire vantaggi per sé quando contribuisce al bene pubblico. La prospettiva di ottenere vantaggi indurrà, in quel caso, i governi a collaborare volontariamente. Anche se continueranno a esserci problemi di erogazione di beni pubblici inclusivi, relativi all’informazione asimmetrica, tali difficoltà potranno essere superate attraverso istituzioni di sostegno, un ruolo che la Commissione europea oggi interpreta benissimo. Il campo dei beni pubblici inclusivi è quello in cui il metodo aperto di coordinamento funzionerà ottimamente, ma esso è applicabile solo in un numero limitato di politiche e certamente non riguarda quella importante serie di decisioni che attiene ai più urgenti problemi dell’Unione europea. I problemi di azione collettiva sono prevalenti soprattutto nell’ambito delle riforme economiche e delle politiche macroeconomiche. Per esempio, l’apertura dei mercati potrebbe essere nell’interesse di tutti i cittadini europei. Si prenda il caso della Francia. I consumatori francesi avrebbero un vantaggio se la Francia aprisse il mercato dell’elettricità, ma il governo francese, principale azionista dell’EDF, il monopolio pubblico del settore, è interessato a procrastinare l’apertura del mercato francese, perché ove fosse l’ultimo a farlo pur avendo accesso agli altri mercati, godrebbe di un vantaggio competitivo sugli altri concorrenti europei.

Un altro esempio di coordinamento che non funziona a causa dei problemi di azione collettiva riguarda la politica fiscale. L’attuazione del Patto di stabilità e crescita sarebbe vantaggiosa per tutti, perché così verrebbero contenuti i tassi d’interesse nell’area dell’euro. Questo, però, significherebbe che ogni governo potrebbe godere di prestiti a tassi limitati e non sarebbe incentivato a consolidare il proprio bilancio. Non sorprende quindi che il Patto non trovi attuazione. Secondo il Patto ogni Stato membro dovrebbe riequilibrare il deficit adeguato ciclicamente, il cosiddetto deficit strutturale. In pratica solo la Finlandia, la Spagna e l’Irlanda si attengono a questa regola. Tutti gli altri Stati membri dell’Eurogruppo non lo fanno. Nel 2006 il deficit strutturale aggregato nella zona del- l’euro era pari all’1,7%, non a zero. Spesso le scelte politiche nazionali che fanno aumentare il deficit riguardano la riforma fiscale: la Germania nel 2001 e la Francia dopo la rielezione di Chirac nel 2002 aumentarono il proprio deficit strutturale riducendo le tasse. Solo in Italia si ha, per la prima volta, l’esempio di un governo appena eletto che attua un programma di importante consolidamento fiscale. Ciò che si riesce a intuire, dietro a tutto questo, è il fatto che la legittimità di un consolidamento fiscale dipende dalla politica interna e, come nel caso francese, se un candidato riesce a vincere le elezioni promettendo riduzioni fiscali senza tagliare le spese, sarà libero di sfruttare i vantaggi della stabilità che altri hanno raggiunto per lui.

Il lassismo in campo fiscale non ha niente a che vedere con gli shock asimmetrici o le discrepanze nella crescita. In realtà la deviazione standard dei tassi di crescita all’interno della zona euro si va contraendo e indica che gli shock sono effettivamente in riduzione, anche se tutta l’area dell’euro fino a poco tempo fa convergeva in direzione di una crescita molto bassa. Non si tratta certo di un fenomeno sorprendente: i fautori dell’unione monetaria hanno sempre previsto che i cicli economici si sarebbero armonizzati in modo crescente.

Sono i problemi di azione collettiva che provocano esiti politici insoddisfacenti nell’Unione europea: essi ostacolano le riforme strutturali, le politiche macroeconomiche più orientate alla crescita, incoraggiano gli egoismi nazionali a spese dell’interesse collettivo dei cittadini europei. Inoltre, favoriscono il «patriottismo economico» e contribuiscono all’emergere di nuovi nazionalismi che sono proprio l’opposto di quello che l’integrazione europea rappresenta.

Nel 2000 a Lisbona il Consiglio europeo affermò la propria intenzione di rendere l’economia europea «la più dinamica del mondo». I risultati economici dell’Unione, invece, sono deludenti. A sette anni da quell’incontro la crescita risulta più bassa che nei sette anni precedenti ed è rimasta inferiore a quella degli Stati Uniti.

Per quale ragione? La teoria economica indica diverse e importanti variabili: una riguarda il tasso di occupazione e qui, sorprendentemente, si scopre che per quasi un decennio l’andamento è stato migliore in Europa che negli Stati Uniti. Invece la produttività della manodopera aumenta molto più rapidamente dall’altra parte dell’Atlantico. Va peggio in Europa anche il fattore totale di produttività, che la strategia di Lisbona, nelle intenzioni, avrebbe dovuto migliorare. Allora, dove sta il problema? In Europa, più o meno ininterrottamente dagli anni Settanta del secolo scorso, la crescita degli investimenti è in calo. Nella zona euro essa è in media dell’1% ed è notevolmente più bassa di quella degli Stati Uniti, dove è vicina al 3%. Pertanto la differenza fra il tasso di crescita degli Stati Uniti e quello della zona euro si spiega soprattutto con la scarsezza di investimenti. È in questo che l’Europa rimane indietro. Gli investimenti, però, sono un argomento che riguarda la politica macroeconomica e non solo le riforme strutturali. Se le riforme strutturali non si attuano a causa dei problemi di azione collettiva, la politica macroeconomica resta lettera morta per la stessa ragione. Entrambe, però, sono indispensabili per stimolare gli investimenti. Non è colpa della Banca centrale europea. Prendersela con la BCE sarà forse una soluzione comoda per i politici, ma fin dal 1999 la politica monetaria si è dimostrata piuttosto accomodante. I tassi d’interesse nell’area dell’euro sono stati più bassi di quelli del Regno Unito e degli Stati Uniti. Il vero problema macroeconomico riguarda l’orientamento delle politiche fiscali di Eurolandia nel loro insieme, che è molto al di sopra di quanto richiede il Patto di stabilità e crescita. Più aumentano i deficit, più salgono anche i tassi d’equilibrio. Così, è la politica fiscale, e non quella monetaria, che impedisce la contrazione dei tassi d’equilibrio. Dunque, nella zona dell’euro i problemi di azione collettiva inibiscono quell’insieme di scelte politiche che assicurerebbero una maggiore crescita e più occupazione. In effetti, se tutti aderissero al Patto di stabilità e crescita, il tasso d’equilibrio potrebbe essere di un intero punto percentuale inferiore rispetto a quello attuale. In altri termini, ciò che occorre oggi all’economia europea è una serie coerente di scelte di politica economica, scelte che siano in grado di attuare riforme che toccano tutti i cittadini, scelte che sappiano superare i problemi di azione collettiva. Per muoversi in quella direzione, una strada sarebbe quella di centralizzare la definizione degli orientamenti di politica fiscale nel loro insieme, a livello europeo. Giuliano Amato una volta ha auspicato la creazione di un «DPEF europeo».1 Mi pare un’idea eccellente, ma è solo un primo passo. I francesi hanno sostenuto spesso la necessità di un governo economico europeo, ma non è mai stato chiarito come questo governo avrebbe dovuto essere e a molti è sembrato di intendere che tale governo sarebbe stato la Francia. Ovviamente, in questo modo non si va da nessuna parte. Altri hanno affermato che il governo economico si riduceva a una governance dell’economia, cioè a una serie di norme concordate insieme. Il che è ancora peggio, perché ci riporta ai problemi di azione collettiva. Non ci serve più governance, ne abbiamo già abbastanza ora. Ci serve un governo, un’istituzione europea che sia responsabile della politica economica, di assicurare beni pubblici a tutti i cittadini europei, i quali hanno bisogno di un governo che amministri i beni pubblici esclusivi di cui già dispongono, che sono la loro res publica. Tale governo sarebbe responsabile dell’economia europea, della macroeconomia, delle regole del Mercato unico, della ricerca e della tecnologia, ma anche di altri settori, come la sicurezza interna, l’immigrazione, la diplomazia e – perché no? – di una forza d’intervento europea. Le difficoltà incontrate dall’Italia e dalla Germania nell’invio di truppe in Afghanistan hanno messo in luce una volta di più i soliti problemi di azione collettiva. È interesse dell’Europa pacificare l’Afghanistan, ma presi singolarmente non tutti i paesi sono disposti a intervenire. Non sarebbe più semplice avere una forza d’intervento europea che assicuri l’interesse collettivo?

La creazione di un governo europeo avrebbe anche altri positivi effetti collaterali. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha richiesto con forza la riduzione della burocrazia in Europa. Molti sarebbero d’accordo, ma il modo più rapido per farlo è quello di sbarazzarsi della governance intergovernativa, sostituendo ventisette burocrazie con un unico governo.

In ogni modo, anche se l’efficienza dell’UE aumenterebbe amministrando a livello comunitario i beni pubblici europei – e solo quelli – si deve comunque affrontare il problema della legittimità. Un’autentica unione politica è possibile solo se c’è un’autentica democrazia. Ciò comporta il fatto che un governo europeo sia eletto dai cittadini europei, che tale governo risponda ai cittadini e sia da loro revocabile attraverso elezioni generali. Una democrazia del genere andrebbe a favore dell’efficienza e della legittimazione della politica. Un governo siffatto assicurerebbe la delivery di politiche oggi ostacolate dai problemi di azione collettiva.

In questa situazione è evidente che l’Europa ha bisogno di una nuova costituzione. Che cosa si deve fare del Trattato costituzionale che è stato approvato da tutti e venticinque gli Stati membri per poi essere respinto dal voto francese e da quello olandese? Non ci si deve dimenticare, prima di tutto, che se si prendono in considerazione i quattro paesi dove c’è stato un referendum (Spagna, Francia, Olanda e Lussemburgo) risulta sempre una maggioranza di quattro milioni di voti a favore della Costituzione europea. Sedici paesi l’hanno ratificata attraverso procedure parlamentari. Ciò nonostante, è anche vero che, dato il modo in cui gli affari europei sono gestiti, con il diritto di veto concesso ai singoli Stati membri, il Trattato costituzionale così com’è non è più accettabile. Un modo per uscire da questa impasse sarebbe quello di trovare un accordo per un nuovo trattato istituzionale, che restituisca all’Unione europea la capacità di agire. Tale trattato dovrebbe essere stipulato prima della fine del 2007, preservando l’essenza dei miglioramenti apportati dal precedente trattato, in modo da far sopravvivere l’UE con ventisette Stati membri.

Questo, però, non è sufficiente. C’è bisogno di un governo europeo. C’è bisogno di una democrazia adeguata e un nuovo trattato istituzionale che abbia degli obiettivi limitati oggi non è in grado di assicurarla. Per questo dobbiamo assicurarci di poter procedere oltre. Sotto la presidenza tedesca, il Consiglio europeo dovrebbe impegnarsi in giugno ad avviare un processo che riconsideri l’esigenza di negoziare una nuova costituzione che garantisca un governo pienamente democratico. I particolari dovrebbero essere elaborati dal prossimo Parlamento europeo, dopo le elezioni del 2009, in modo che i cittadini d’Europa possano affidargli questo mandato. Per riassumere, l’Europa è a un bivio. Deve riuscire a superare la grave e profonda crisi attuale, che mette in discussione cinquant’anni d’integrazione europea. La situazione è molto più grave di quanto i nostri politici, a quanto sembra, siano consapevoli. Ma nello stesso tempo i cittadini europei sono i proprietari dei propri beni comuni, della propria res publica, e questo patrimonio deve essere preservato e amministrato bene. Per questo, la più grande riforma strutturale oggi consiste nella creazione di un governo democratico per l’Europa. Viva la repubblica europea!

[1] G. Amato, Verso un DPEF europeo?, NENS, luglio 2002, pp. 15-19.