La crisi dei lavoratori e dei loro diritti

Di Maurizio Landini Martedì 03 Settembre 2013 14:07 Stampa

La crisi sta colpendo duramente il lavoro, sia nel senso di un drammatico aumento della disoccupazione, sia in quello del peggioramento delle condizioni di lavoro. Allo sfilacciamento dei diritti dei lavoratori cui abbiamo assistito negli ultimi anni occorre reagire, non solo risolvendo i problemi più urgenti attraverso la riforma degli ammortizzatori sociali e il ripristino dell’autorità salariale e normativa della contrattazione, ma soprattutto interrogandosi sulle scelte che sottendono il sistema produttivo attualmente in vigore e sul ruolo che in esso deve avere la rappresentanza dell’interesse pubblico e dei lavoratori.


Le ultime elezioni hanno messo in risalto quanto siano legate la crisi economica e la crisi della rappresentanza politica e sociale. Tutti i dati rivelano il rapporto tra politiche di austerità e avvitamento della crisi. La grande maggioranza delle persone sta peggio, le fabbriche chiudono, i giovani sono schiacciati su un presente precario. Diciamolo chiaramente: il paese reale sta male e non vede vie d’uscita.

L’Istat, non l’ufficio studi della FIOM, recentemente ha messo a disposizione del dibattito pubblico una serie di dati sull’andamento del mercato del lavoro che dicono molto delle ricadute della crisi e, di converso, della necessaria inversione di marcia da imboccare per provare a contenerne gli effetti e a cambiare la rotta.

Provo a sintetizzarne gli aspetti, a mio giudizio, più rilevanti. In primo luogo, l’occupazione cala drasticamente e il tasso di occupazione italiano, già inferiore rispetto alla media dell’Europa a 27 prima del 2008, si è ulteriormente abbassato. In secondo luogo, i disoccupati aumentano in modo preoccupante, perché a gonfiarne le fila ci sono centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori che un posto di lavoro ce l’avevano e che, nelle condizioni attuali, una volta che l’hanno perso non riescono a trovarne un altro. Infine, aumenta la disoccupazione di lunga durata, aumentano i divari tra Nord e Sud, aumentano le discriminazioni nei confronti delle donne nell’accesso al lavoro come nella retribuzione, aumentano i contratti precari e diminuiscono le probabilità di avere un contratto stabile.

Lo dico molto francamente: di fronte a questi dati, alla dimensione sociale distruttiva di questo quadro, trovo i provvedimenti annunciati dal governo inadeguati e anche, in parte, non condivisibili, perché per l’ennesima volta si interviene dal lato dell’offerta di lavoro con un po’ di incentivi e di deregolamentazione, senza affrontare la questione dal lato della domanda. Con la paradossale conseguenza che, mentre si promettono incentivi per un po’ di assunzioni precarie, le aziende già si attrezzano per ridurre strutturalmente l’occupazione in rapporto ai volumi da produrre. Insomma, buona parte delle imprese utilizza la crisi per ristrutturare e per realizzare, anche attraverso un aumento degli orari di lavoro e delle “saturazioni” individuali, livelli di produzione uguali o maggiori con meno persone. A ben vedere, gli scontri sul modello contrattuale tra CGIL, CISL e UIL (che hanno portato a un accordo separato interconfederale nel 2009) e quelli successivi su due contratti metalmeccanici (2009 e 2012) e sul contratto Fiat tra FIOM, FIM e UILM non si sono determinati per beghe tra gruppi dirigenti o per questioni di “posizionamento politico”, ma perché le soluzioni contrattuali individuate assecondano queste dinamiche. Quando si lasciano nelle mani delle imprese gli aspetti più significativi della prestazione di lavoro, a cominciare dalla gestione degli orari, e contestualmente si azzera ogni funzione negoziale delle Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU), il quadro che si compone è quello della gestione unilaterale della manodopera da parte dell’azienda e, come si sa, questa non è la condizione ottimale – soprattutto in periodi di crisi come quello che stiamo attraversando – per ottenere il consenso delle lavoratrici e dei lavoratori sulle scelte (difficili) da compiere.

Per queste ragioni, troverei utile l’apertura di un largo confronto su alcune cose che si possono realizzare per provare a contenere i danni causati dalla crisi, rispondendo ad alcune questioni di fondo che, come detto in precedenza, si stanno manifestando.

Una prima questione riguarda il sistema degli ammortizzatori sociali. Gli effetti delle riforme Fornero, a mio giudizio, tenderanno a manifestarsi gradualmente, anche se già oggi la vicenda degli esodati ne rivela il segno socialmente insostenibile. Alcuni segnali di un’inversione di tendenza potrebbero venire dalla decisione (politica) di bloccare i licenziamenti attraverso l’estensione a tutti della Cassa integrazione (inducendo le aziende a farlo); di privilegiare il ricorso ai contratti di solidarietà, che in una fase come questa, in tantissimi casi, devono divenire l’ammortizzatore di riferimento in quanto più solidale nella redistribuzione del lavoro che c’è e più remunerativo per i lavoratori coinvolti; di introdurre finalmente nel nostro paese il reddito di cittadinanza, per favorire percorsi socialmente inclusivi.

Una seconda questione, invece, attiene al ripristino di autorità salariale e normativa della contrattazione, profondamente minato dall’articolo 8 della legge 148/2011. Passaggio, io penso, legato a doppio filo al tema della riunificazione dei diritti e dei contratti. Continuare ad avere 294 contratti nazionali è una follia. Se si continuano ad avere all’interno della stessa azienda, negli stessi luoghi di lavoro, condizioni così diverse, non si è in grado di offrire un terreno contrattuale e di azione che riunisca i diritti e le condizioni di lavoro di ciascuno: non c’è contrattazione che tenga. Per questa ragione, penso che la questione di un contratto dell’industria che guardi a una dimensione europea, di un sindacato dell’industria, di una contrattazione che abbia queste caratteristiche sia centrale. Si deve arrivare fi no a forme di tutela legale: i contratti devono valere per tutti; i minimi del contratto nazionale di lavoro non solo non devono essere derogabili ma devono avere valore di legge, in modo tale che nessuna forma di lavoro nella stessa azienda, a parità di lavoro e di mansione, sia pagata meno del minimo del contratto che è stato determinato. Così intendo il salario minimo, perché questo vuol dire mantenere in capo al sindacato la contrattazione del salario, che a ogni rinnovo è chiamato a negoziarne l’aumento. Una volta che ha contrattato i minimi, è necessario che quelli diventino minimi garantiti per tutte le forme di lavoro, a cui nessuno può derogare.

In questo schema ci sono aspetti che riguardano il sindacato e la dimensione interconfederale, altri che attengono al legislatore. Abrogare il summenzionato articolo 8 diventa il presupposto indispensabile per provare a costruire queste proposte, parziali ma importanti.

Ho sempre attribuito grande significato alla funzione del sindacato, e non certo per dovere d’ufficio. Credo che la crisi (oggettiva) che lo investe non rappresenti una buona notizia per le lavoratrici e i lavoratori. E questa crisi non si affronta con un minor ricorso alla democrazia, a pratiche sindacali sempre meno vincolate a chi si rappresenta. Oggi scontiamo i limiti di una scelta che, alla prova dei fatti, non ha retto all’urto delle divisioni. Il non aver attuato l’articolo 39 della Costituzione, sulla base della presunzione che l’unità d’azione delle grandi organizzazioni sindacali avrebbe tenuto e garantito meglio della legge, si è rivelata una scelta sbagliata. E, ogni giorno che passa, dannosa per i lavoratori. Ritengo che i tempi per l’approvazione di una legge sulla rappresentanza che garantisca il coinvolgimento dei lavoratori e il voto democratico sugli accordi che li riguardano siano maturi, e credo che, dopo il pronunciamento della Consulta, possano venire meno anche le obiezioni di principio di grandi soggetti sociali e imprenditoriali.

Nel corso dei tre anni trascorsi dall’accordo di Pomigliano mi sono chiesto più volte perché la maggioranza delle forze politiche e delle istituzioni considerasse quella vicenda, e ciò che ne è seguito, una faccenda di sindacalisti da cui tenersi alla larga. Perché, di fronte alle enormi discriminazioni e alle ripetute violazioni di elementari principi costituzionali, si facesse fatica a cogliere la dimensione politica e la portata generale dello scontro in atto. Oggi la Corte costituzionale ha rimesso le cose a posto esprimendosi in modo inequivocabile sulla questione relativa all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, cioè sulla questione intorno alla quale (nel silenzio dei più) la Fiat ha costruito un’intera strategia tendente a negare legittima esistenza non alla FIOM, ma alla libertà dei lavoratori di associarsi in sindacato.

Ci sarebbe molto da discutere sul fatto che il toyotismo a cui fa riferimento la Fiat non è semplicemente un modo di produrre, ma una vera e propria idea di società. Che aziendalismo e globalizzazione si contrappongono a elementi essenziali quali contrattazione nazionale, democrazia, autonomia del lavoro dall’impresa. Sollevo la questione perché la Fiat è uscita da Confindustria, è uscita dal contratto, ha cancellato la contrattazione, ha cercato di evitare in tutti i modi la FIOM (senza riuscirci), perché ha detto che si trattava delle condizioni minime per fare 20 miliardi di investimenti in Italia. Come si sa, dei 20 miliardi non c’è traccia. Il punto di fondo (ora si potrà parlarne!) è il seguente: chi ha potuto discutere di quelle scelte? Quale impegno quell’impresa si è preso, o quale vincolo è stato posto, per realizzare quegli investimenti? Perché, oggi, emerge con chiarezza l’assurdità di una situazione per la quale, in base a un regolamento che ha sostituito il contratto nazionale, vengono previste sanzioni per i lavoratori che si comportano in modo diverso da quello che dice l’azienda e, al contempo, nulla è previsto di “esigibile” rispetto agli impegni della stessa. Insomma, si può discutere del fatto che l’impresa può fare quello che le pare e non ha neanche la necessità di dover rispondere, non dico ai lavoratori, ma al governo e al paese in cui opera da sempre e al quale dovrà pure qualcosa? È, o no, una contraddizione enorme?

La crisi, per la sua natura strutturale, impone a tutti di fare i conti con il significato di ciò che si produce, di quale impatto ha ciò che si produce, del modello di produzione che si sceglie. Oggi questa dimensione della discussione e del confronto non è data al sindacato, ma neanche al livello politico. Quindi, neanche i governi affrontano una discussione di questa natura. La differenza sta nel fatto che al sindacato è negata da rapporti di forza sfavorevoli, mentre ai governi è negata dalla scelta degli stessi che in Italia come altrove (ma non ovunque) hanno appaltato le politiche industriali direttamente alle grandi imprese o ai grandi gruppi. E le grandi imprese e i grandi gruppi sono sempre più vincolati alle dinamiche della finanziarizzazione dell’economia mondiale.

Come si ricostruisce lo spazio dell’interesse pubblico? Come si restituisce centralità al decisore pubblico nella definizione di strategie e di priorità? Credo che queste siano domande centrali a cui dare risposta se si vuole uscire dalla crisi nel segno della democrazia e della giustizia sociale.

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