Cala il sipario sull’Amministrazione Trump. E su di una politica estera caratterizzata, almeno formalmente, da una rottura radicale rispetto alla tradizione dell’internazionalismo statunitense. Nel lessico abborracciato e primitivo di Donald Trump, ma anche nei principali documenti strategici della sua Amministrazione (a partire dalla National Security Strategy del dicembre 2017), il messaggio di questi ultimi anni è stato essenziale e semplice: a chi guida gli Stati Uniti spetta il compito di recuperare la sovranità dolosamente perduta attraverso politiche unilateraliste, centrate sulla chiara definizione dell’interesse nazionale, l’impegno a perseguirlo senza remore e la consapevolezza che quella internazionale è un’arena brutale e competitiva, un gioco a somma zero contraddistinto dalla presenza, netta e inequivoca, di antagonisti certi, su tutti Cina, Russia e Iran.
Una visione iper-realista, quella trumpiana, e molto transactional rispetto sia alle alleanze storiche degli Stati Uniti che alla rete di organizzazioni internazionali al cui centro si colloca la potenza statunitense. Attori – alleanze e organizzazioni – ai quali relazionarsi in modo puramente funzionale: come strumenti, utili o meno, da utilizzare o da abbandonare, a seconda delle convenienze e delle necessità. Di qui alcuni gesti, dalle limitate implicazioni pratiche ma dall’alta valenza simbolica, come l’uscita dall’UNESCO o dalla Organizzazione mondiale della sanità (OMS); e di qui iniziative invece più rilevanti, a partire ovviamente dalle guerre commerciali contro Cina e UE, il boicottaggio di fatto del WTO o l’abbandono dell’Accordo di Parigi sul clima.
Gli effetti concreti sono stati meno rilevanti di quanto non si potesse temere. Vi è stato uno scarto, visibile e talora acuto, tra la retorica protezionista, nazionalista e, appunto, iper-realista di Trump e le sue conseguenze pratiche. Il deficit commerciale – parametro spesso invocato dal presidente per misurare lo stato di salute relativo degli USA – ha battuto ogni anno il record precedente, almeno fino al 2020 con la contrazione degli scambi globali provocata dalla pandemia; quello bilaterale con la Cina è stato, nel 2017 e nel 2018, il più alto di sempre e solo nel 2019 è un po’ rientrato (pur rimanendo analogo a quello dell’ultimo anno di presidenza Obama); il livello d’indebitamento verso l’estero – altra variabile spesso indicata da Trump – ha continuato a crescere; l’uscita dagli Accordi di Parigi ha provocato la resistenza, e la reazione, di molti Stati e municipalità democratici che hanno addirittura intensificato e accelerato i loro piani per ridurre i consumi e le emissioni nocive.
Gli effetti del trumpismo sul contesto internazionale non vanno minimizzati – ci mancherebbe –, a partire dall’effetto emulativo e dalla legittimazione che ne hanno tratto numerose forze politiche radicalmente nazionaliste, iniziando ovviamente dall’Europa. Non si deve però esagerare la coerenza ed efficacia della politica estera trumpiana, ovvero essa va qualificata ed esaminata, per identificarne limiti e contraddizioni, e smantellare tanti degli stereotipi che l’accompagnano, come il Trump meno incline di Obama a utilizzare lo strumento militare (ambito nel quale, invece, vi è una patente continuità tra le due Amministrazioni, evidenziata anche dal ricorso di entrambe all’uso massiccio dei droni in una azione di eliminazioni mirate).
È però chiaro che la politica estera trumpiana ha costituito una risposta alla crisi della globalizzazione, della quale l’improbabile ascesa politica di Trump è stata in una certa misura il cascato, che quattro anni di Trump hanno solo acuito e intensificato. Per quanto consolatorio e spesso poco efficace, l’über-nationalism trumpiano – e la sua costante enfasi sulla necessità (e la possibilità) di recuperare una sovranità sacrificata sugli altari dell’integrazione globale – ha catturato l’immaginazione di un pezzo d’America e rivelato quanto complicato sia oggi offrire una credibile risposta internazionalista e cosmopolita.
Biden arriva alla Casa Bianca con un bagaglio di esperienza, e di competenza specifica sui temi internazionali, che nella storia statunitense pochi presidenti possono vantare. Ha passato 36 anni al Senato; per 12, dal 1997 al 2009, è stato membro della potente Commissione Esteri, che ha presieduto in alcuni momenti nodali, dall’11 settembre 2001 alla crisi finanziaria globale del 2008; da vicepresidente di Obama ha avuto un ruolo attivo, e in taluni casi centrale, in molti importanti dossier di politica estera.
Del suo approccio e della sua filosofia sappiamo probabilmente tutto. È un liberal internazionalista e atlantista che crede non solo al ruolo centrale e per tanti aspetti egemonico degli Stati Uniti nell’ordine internazionale corrente ma, anche alla necessità di esercitarlo di concerto con gli alleati, promuovendo politiche multilaterali che abbisognano della leadership statunitense per realizzarsi e funzionare efficacemente. Ed è, il presidente eletto, un convinto interventista, formatosi non tanto nella guerra fredda ma in quel che ne è seguito, su tutte le guerre jugoslave degli anni Novanta e il ruolo attivo svolto dagli USA e dalla NATO nel porvi termine. Un interventista per nulla riluttante ad appoggiare l’utilizzo dello strumento militare (come tanti importanti democratici, incluso l’ex segretario di Stato e candidato presidenziale John Kerry, nel gennaio 1991 Biden votò contro la risoluzione che autorizzava l’uso della forza per liberare il Kuwait; una posizione anti interventista, questa, modificata nel corso del decennio in virtù di quella che si ritenne essere la “lezione della Bosnia” e culminata poi nel sostegno alla risoluzione dell’ottobre 2002 che autorizzava Bush jr. a utilizzare lo strumento militare contro l’Iraq. Anche in questo caso, la traiettoria di Kerry fu analoga a quella di Biden).
Cosa possiamo aspettarci da questo anziano liberal, internazionalista e interventista? E quali sono, nel contesto odierno, i limiti e le contraddizioni di questa visione dell’ordine internazionale e del ruolo del suo egemone naturale, gli Stati Uniti?
Il cambiamento del registro discorsivo sarà inevitabile ed è già visibile. Con Biden gli USA abbandonano i toni del ruvido nazionalismo razziale di Trump e tornano a parlare il lessico del loro storico internazionalismo atlantista, centrato su alcuni basilari topoi retorici: un eccezionalismo che rivendica la responsabilità storica degli Stati Uniti; un occidentalismo che invoca la comunanza di valori, principi e interessi tra gli USA e le democrazie occidentali europee; un cosmopolitismo che afferma la naturale congruenza tra gli interessi statunitensi e quelli dell’umanità, e l’obbligo conseguente per Washington d’impegnarsi attivamente sulla scena internazionale per estendere e rafforzare forme di governance multilaterale e il più possibile istituzionalizzata.
In concreto, ciò si tradurrà in prima battuta in una serie di decisioni ad alto contenuto simbolico e basso rischio politico, che Biden ha già annunciato. Su tutte il rilancio di un serio impegno nella lotta al cambiamento climatico, con il rientro negli Accordi di Parigi del 2015, e il rovesciamento di alcune decisioni di Trump, come l’uscita dall’OMS o il boicottaggio di fatto del WTO e del suo sistema arbitrale. Biden cercherà in altre parole di concretare immediatamente questa radicale svolta ideologica e l’interlocutore naturale – dalla sicurezza all’ambiente alla stessa economia – sarà una volta ancora l’Europa. È ipotizzabile che con molta cautela e sotto traccia si cerchi anche di riannodare i fili di quell’accordo commerciale transatlantico affondato ben prima dell’ascesa di Trump, a causa dei suoi limiti e contraddizioni sì, ma soprattutto della crescente impopolarità, e finanche della delegittimazione, negli USA della logica liberoscambista e “globalista” che vi sottostava.
Ipotesi simile può essere avanzata per l’Asia-Pacifico. Perché, appunto, congruente con l’internazionalismo liberal di Biden (e di quelli che presumibilmente saranno i suoi consiglieri di politica estera). E perché, vittima anch’esso del clima politico del 2015-16 e della vittoria di Trump, il vecchio accordo transpacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP) rappresentava, e in potenza ancora rappresenta, lo strumento più realistico e meno rischioso di una politica di contenimento dell’influenza della Cina nella regione che si manifesta primariamente nell’ambito degli scambi commerciali e degli investimenti esteri cinesi, ora rafforzati da accordi paralleli, come la recente Partnership Economica Regionale (Regional Comprehensive Economic Partnership, RCEP), che includono la Cina. Le relazioni con Pechino – ovvero la gestione della profonda, contraddittoria e infiammabile interdipendenza sino-statunitense – rappresentano peraltro la questione cruciale, e il vero banco di prova, per la politica estera di Biden. Il deterioramento dei rapporti tra i due giganti del sistema internazionale è stato acuito, ma non di certo causato, dalla retorica trumpiana e dalle scelte che questa ha ispirato, anche se va ribadito come lo scarto tra parole e fatti sia stato anche in questo caso molto acuto, tanto che prima della pandemia la guerra commerciale del 2019 appariva destinata a rientrare (e degli accordi in tal senso erano stati siglati il gennaio scorso). Meccanismi di controllo e filtro degli investimenti esteri cinesi sono stati attivati sia dagli USA sia dalla UE ed è immaginabile che essi continuino a essere applicati, e probabilmente rafforzati, anche con un’Amministrazione Biden. Un rinnovato impegno statunitense nel WTO sarebbe in larga parte funzionale a utilizzare l’organizzazione in chiave anticinese, ossia denunciando le infrazioni cinesi su diversi ambiti, dalla concorrenza ai sussidi di Stato alla violazione di licenze e brevetti. Infine, un elemento fondamentale dell’internazionalismo liberal di Biden è la centralità dei diritti umani e della responsabilità della comunità internazionale a garantirli e proteggerli, se necessario violando la sovranità nazionale. Impensabile, ovviamente, che ciò induca a ingerenze aperte e palesi degli USA in Cina. Ma egualmente impensabile che l’Amministrazione Biden non alzi il tono della critica verso Pechino su alcuni dossier noti, da Hong Kong alle terribili violenze del regime contro la minoranza uigura, e che questo non abbia delle implicazioni nei rapporti tra i due paesi.
Una terza e ultima regione che attrarrà inizialmente l’attenzione della politica di Biden sarà il Medio Oriente. Anche qui vi sarà un cambiamento di registro e sul dossier israelo-palestinese si tornerà presumibilmente a una maggior equidistanza formale. Difficile però immaginare inversioni radicali di rotta o anche solo il ritorno agli anni di Obama e al tentativo quasi esplicito di reintegrare l’Iran nel gioco diplomatico regionale. Alcune iniziative di Trump non sono reversibili; Biden ha già annunciato che l’ambasciata statunitense resterà a Gerusalemme (e d’altronde riportarla a Tel Aviv avrebbe oggi costi e implicazioni troppo pesanti); il presidente eletto ha dato un giudizio moderatamente positivo degli accordi – importanti, ma ancora molto fragili – tra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi, che l’Amministrazione Trump ha patrocinato. Rispetto a un Medio Oriente fattosi nel tempo assai meno centrale per gli USA è probabile che Biden si muova inizialmente con grande cautela ed evitando di spendere credibilità e capitale politico in iniziative ambiziose e velleitare. Questo ci porta però ai limiti e alle contraddizioni dell’approccio di politica estera di Biden e della filo sofia politica che vi sottostà. Due premesse sono qui necessarie. La prima è che nelle questioni internazionali anche la visione più attenta, sofisticata e articolata si scontra con la natura inevitabilmente reattiva e contingente della politica estera, inclusa quella dell’unica superpotenza mondiale. L’internazionalismo liberal dell’Amministrazione Biden potrebbe in altre parole essere messo alla prova da eventi inattesi e crisi impreviste che obbligheranno a improvvisare o quanto meno ad adattare strategie e dottrine. La seconda premessa è che – nel contesto d’interdipendenze plurime dell’ordine mondiale al cui centro gli USA quasi sempre si collocano – è spesso impossibile e molto artificiale separare il momento interno da quello internazionale, la domestic politics dalla foreign policy. Qualsiasi serio impegno statunitense sulle questioni ambientali dipende, ad esempio, da una effettiva azione di regolamentazione interna, come abbiamo visto bene con Obama. Il tentativo di rafforzare la governance mondiale in materia di gestione della finanza globale è strettamente legata all’adozione di precise politiche fiscali e regolatorie da parte degli Stati Uniti. E molti altri esempi potrebbero seguire.
Ecco perché diventa tanto importante cercare di misurare il polso dell’opinione pubblica statunitense e capire se è in asse con il tipo di politica estera che Biden vorrebbe promuovere e il discorso che lo informa e giustifica. Su questo – e quindi sulla possibilità di aggiornare alle esigenze e ai problemi del 2020 gli schemi dell’internazionalismo liberal bideniano – è lecito nutrire più di un dubbio. Tutti i sondaggi ci mostrano una riluttanza forte di larghe maggioranze di americani a sostenere onerose politiche globaliste e multilaterali. E ci mostrano, inoltre, una larga e diffusa ostilità alla Cina: la più ampia di sempre, da quando (1979) Gallup ha iniziato a misurare l’opinione degli americani nei confronti del regime cinese, oltre che uno dei pochi elementi di convergenza bipartisan negli USA iper-polarizzati di oggi, visto che accomuna repubblicani e democratici. Un’opinione pubblica poco incline a sostenere una politica estera attiva e internazionalista e nella quale maggioritarie sono le inclinazioni anticinesi (che talora, soprattutto a destra, tracimano in vera e propria sinofobia) pone pertanto costrizioni e ostacoli forti all’azione internazionale della futura Amministrazione Biden e aggiunge un’ulteriore criticità in un’equazione di suo già immensamente complessa.