La politica estera dell’Amministrazione Biden: quali prospettive?

Di Mario Del Pero Venerdì 27 Novembre 2020 12:54 Stampa

 

Cala il sipario sull’Amministrazione Trump. E su di una politica este­ra caratterizzata, almeno formalmente, da una rottura radicale ri­spetto alla tradizione dell’internazionalismo statunitense. Nel lessico abborracciato e primitivo di Donald Trump, ma anche nei principali documenti strategici della sua Amministrazione (a partire dalla Na­tional Security Strategy del dicembre 2017), il messaggio di questi ultimi anni è stato essenziale e semplice: a chi guida gli Stati Uni­ti spetta il compito di recuperare la sovranità dolosamente perduta attraverso politiche unilateraliste, centrate sulla chiara definizione dell’interesse nazionale, l’impegno a perseguirlo senza remore e la consapevolezza che quella internazionale è un’arena brutale e compe­titiva, un gioco a somma zero contraddistinto dalla presenza, netta e inequivoca, di antagonisti certi, su tutti Cina, Russia e Iran.

Una visione iper-realista, quella trumpiana, e molto transactional rispetto sia alle alleanze storiche degli Stati Uniti che alla rete di organizzazioni internazionali al cui centro si colloca la potenza sta­tunitense. Attori – alleanze e organizzazioni – ai quali relazionarsi in modo puramente funzionale: come strumenti, utili o meno, da utilizzare o da abbandonare, a seconda delle convenienze e delle ne­cessità. Di qui alcuni gesti, dalle limitate implicazioni pratiche ma dall’alta valenza simbolica, come l’uscita dall’UNESCO o dalla Or­ganizzazione mondiale della sanità (OMS); e di qui iniziative invece più rilevanti, a partire ovviamente dalle guerre commerciali contro Cina e UE, il boicottaggio di fatto del WTO o l’abbandono dell’Ac­cordo di Parigi sul clima.

Gli effetti concreti sono stati meno rilevanti di quanto non si potesse temere. Vi è stato uno scarto, visibile e talora acuto, tra la retori­ca protezionista, nazionalista e, appunto, iper-realista di Trump e le sue conseguenze pratiche. Il deficit commerciale – parametro spesso invocato dal presidente per misurare lo stato di salute relativo degli USA – ha battuto ogni anno il record precedente, almeno fino al 2020 con la contrazione degli scambi globali provocata dalla pan­demia; quello bilaterale con la Cina è stato, nel 2017 e nel 2018, il più alto di sempre e solo nel 2019 è un po’ rientrato (pur rimanendo analogo a quello dell’ultimo anno di presidenza Obama); il livel­lo d’indebitamento verso l’estero – altra variabile spesso indicata da Trump – ha continuato a crescere; l’uscita dagli Accordi di Parigi ha provocato la resistenza, e la reazione, di molti Stati e municipalità democratici che hanno addirittura intensificato e accelerato i loro piani per ridurre i consumi e le emissioni nocive.

Gli effetti del trumpismo sul contesto internazionale non vanno mi­nimizzati – ci mancherebbe –, a partire dall’effetto emulativo e dalla legittimazione che ne hanno tratto numerose forze politiche radical­mente nazionaliste, iniziando ovviamente dall’Europa. Non si deve però esagerare la coerenza ed efficacia della politica estera trumpiana, ovvero essa va qualificata ed esaminata, per identificarne limiti e con­traddizioni, e smantellare tanti degli stereotipi che l’accompagnano, come il Trump meno incline di Obama a utilizzare lo strumento mi­litare (ambito nel quale, invece, vi è una patente continuità tra le due Amministrazioni, evidenziata anche dal ricorso di entrambe all’uso massiccio dei droni in una azione di eliminazioni mirate).

È però chiaro che la politica estera trumpiana ha costituito una ri­sposta alla crisi della globalizzazione, della quale l’improbabile ascesa politica di Trump è stata in una certa misura il cascato, che quattro anni di Trump hanno solo acuito e intensificato. Per quanto conso­latorio e spesso poco efficace, l’über-nationalism trumpiano – e la sua costante enfasi sulla necessità (e la possibilità) di recuperare una so­vranità sacrificata sugli altari dell’integrazione globale – ha catturato l’immaginazione di un pezzo d’America e rivelato quanto complicato sia oggi offrire una credibile risposta internazionalista e cosmopolita.

Biden arriva alla Casa Bianca con un bagaglio di esperienza, e di com­petenza specifica sui temi internazionali, che nella storia statunitense pochi presidenti possono vantare. Ha passato 36 anni al Senato; per 12, dal 1997 al 2009, è stato membro della potente Commissione Esteri, che ha presieduto in alcuni momenti nodali, dall’11 settem­bre 2001 alla crisi finanziaria globale del 2008; da vicepresidente di Obama ha avuto un ruolo attivo, e in taluni casi centrale, in molti importanti dossier di politica estera.

Del suo approccio e della sua filosofia sappiamo probabilmente tut­to. È un liberal internazionalista e atlantista che crede non solo al ruolo centrale e per tanti aspetti egemonico degli Stati Uniti nell’or­dine internazionale corrente ma, anche alla necessità di esercitarlo di concerto con gli alleati, promuovendo politiche multilaterali che abbisognano della leadership statunitense per realizzarsi e funzionare efficacemente. Ed è, il presidente eletto, un convinto interventista, formatosi non tanto nella guerra fredda ma in quel che ne è segui­to, su tutte le guerre jugoslave degli anni Novanta e il ruolo attivo svolto dagli USA e dalla NATO nel porvi termine. Un interventista per nulla riluttante ad appoggiare l’utilizzo dello strumento militare (come tanti importanti democratici, incluso l’ex segretario di Stato e candidato presidenziale John Kerry, nel gennaio 1991 Biden votò contro la risoluzione che autorizzava l’uso della forza per liberare il Kuwait; una posizione anti interventista, questa, modificata nel corso del decennio in virtù di quella che si ritenne essere la “lezione della Bosnia” e culminata poi nel sostegno alla risoluzione dell’otto­bre 2002 che autorizzava Bush jr. a utilizzare lo strumento militare contro l’Iraq. Anche in questo caso, la traiettoria di Kerry fu analoga a quella di Biden).

Cosa possiamo aspettarci da questo anziano liberal, internazionalista e interventista? E quali sono, nel contesto odierno, i limiti e le con­traddizioni di questa visione dell’ordine internazionale e del ruolo del suo egemone naturale, gli Stati Uniti?

Il cambiamento del registro discorsivo sarà ine­vitabile ed è già visibile. Con Biden gli USA abbandonano i toni del ruvido nazionalismo razziale di Trump e tornano a parlare il lessico del loro storico internazionalismo atlantista, centrato su alcuni basilari topoi retorici: un ecce­zionalismo che rivendica la responsabilità storica degli Stati Uniti; un occidentalismo che invoca la comunanza di valori, principi e interessi tra gli USA e le democra­zie occidentali europee; un cosmopolitismo che afferma la naturale congruenza tra gli interessi statunitensi e quelli dell’umanità, e l’ob­bligo conseguente per Washington d’impegnarsi attivamente sulla scena internazionale per estendere e rafforzare forme di governance multilaterale e il più possibile istituzionalizzata.

In concreto, ciò si tradurrà in prima battuta in una serie di decisioni ad alto contenuto simbolico e basso rischio politico, che Biden ha già annunciato. Su tutte il rilancio di un serio impegno nella lotta al cambiamento climatico, con il rientro negli Accordi di Parigi del 2015, e il rovesciamento di alcune decisioni di Trump, come l’uscita dall’OMS o il boicottaggio di fatto del WTO e del suo sistema ar­bitrale. Biden cercherà in altre parole di concretare immediatamen­te questa radicale svolta ideologica e l’interlocutore naturale – dalla sicurezza all’ambiente alla stessa economia – sarà una volta ancora l’Europa. È ipotizzabile che con molta cautela e sotto traccia si cerchi anche di riannodare i fili di quell’accordo commerciale transatlanti­co affondato ben prima dell’ascesa di Trump, a causa dei suoi limiti e contraddizioni sì, ma soprattutto della crescente impopolarità, e finanche della delegittimazione, negli USA della logica liberoscam­bista e “globalista” che vi sottostava.

Ipotesi simile può essere avanzata per l’Asia-Pacifico. Perché, appun­to, congruente con l’internazionalismo liberal di Biden (e di quelli che presumibilmente saranno i suoi consiglieri di politica estera). E perché, vittima anch’esso del clima politico del 2015-16 e del­la vittoria di Trump, il vecchio accordo transpacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP) rappresentava, e in potenza ancora rappresenta, lo strumento più realistico e meno rischioso di una politica di con­tenimento dell’influenza della Cina nella regione che si manifesta primariamente nell’ambito degli scambi commerciali e degli investi­menti esteri cinesi, ora rafforzati da accordi paralleli, come la recente Partnership Economica Regionale (Regional Comprehensive Econo­mic Partnership, RCEP), che includono la Cina. Le relazioni con Pe­chino – ovvero la gestione della profonda, contraddittoria e infiam­mabile interdipendenza sino-statunitense – rappresentano peraltro la questione cruciale, e il vero banco di prova, per la politica estera di Biden. Il deterioramento dei rapporti tra i due giganti del sistema internazionale è stato acuito, ma non di certo causato, dalla retorica trumpiana e dalle scelte che questa ha ispirato, anche se va ribadito come lo scarto tra parole e fatti sia stato anche in questo caso molto acuto, tanto che prima della pandemia la guerra commerciale del 2019 appariva destinata a rientrare (e degli accordi in tal senso erano stati siglati il gennaio scorso). Meccanismi di controllo e filtro degli investimenti esteri cinesi sono stati attivati sia dagli USA sia dalla UE ed è immaginabile che essi continuino a essere applicati, e probabil­mente rafforzati, anche con un’Amministrazione Biden. Un rinnova­to impegno statunitense nel WTO sarebbe in larga parte funzionale a utilizzare l’organizzazione in chiave anticinese, ossia denunciando le infrazioni cinesi su diversi ambiti, dalla concorrenza ai sussidi di Stato alla violazione di licenze e brevetti. Infine, un elemento fon­damentale dell’internazionalismo liberal di Biden è la centralità dei diritti umani e della responsabilità della comunità internazionale a garantirli e proteggerli, se necessario violando la sovranità nazionale. Impensabile, ovviamente, che ciò induca a ingerenze aperte e palesi degli USA in Cina. Ma egualmente impensabile che l’Amministra­zione Biden non alzi il tono della critica verso Pechino su alcuni dossier noti, da Hong Kong alle terribili violenze del regime contro la minoranza uigura, e che questo non abbia delle implicazioni nei rapporti tra i due paesi.

Una terza e ultima regione che attrarrà inizialmente l’attenzione della politica di Biden sarà il Medio Oriente. Anche qui vi sarà un cam­biamento di registro e sul dossier israelo-palestinese si tornerà presu­mibilmente a una maggior equidistanza formale. Difficile però immaginare inversioni radicali di rotta o anche solo il ritorno agli anni di Oba­ma e al tentativo quasi esplicito di reintegrare l’Iran nel gioco diplomatico regionale. Alcune iniziative di Trump non sono reversibili; Biden ha già annunciato che l’ambasciata statunitense resterà a Gerusalemme (e d’altronde riportarla a Tel Aviv avrebbe oggi costi e implicazioni troppo pesanti); il presidente eletto ha dato un giudizio moderatamente positivo degli accordi – impor­tanti, ma ancora molto fragili – tra Israele, Bah­rein ed Emirati Arabi, che l’Amministrazione Trump ha patrocinato. Rispetto a un Medio Oriente fattosi nel tempo assai meno centrale per gli USA è probabile che Biden si muova inizialmente con gran­de cautela ed evitando di spendere credibilità e capitale politico in iniziative ambiziose e velleitare. Questo ci porta però ai limiti e alle contraddizioni dell’approccio di politica estera di Biden e della filo­ sofia politica che vi sottostà. Due premesse sono qui necessarie. La prima è che nelle questioni internazionali anche la visione più attenta, sofisticata e articolata si scontra con la natura inevitabilmente reattiva e contingente della politica estera, inclusa quella dell’unica superpoten­za mondiale. L’internazionalismo liberal dell’Amministrazione Biden potrebbe in altre parole essere messo alla prova da eventi inattesi e crisi impreviste che obbligheranno a improvvisare o quanto meno ad adattare strategie e dottrine. La seconda premessa è che – nel contesto d’interdipendenze plurime dell’ordine mondiale al cui centro gli USA quasi sempre si collocano – è spesso impossibile e molto artificiale se­parare il momento interno da quello internazionale, la domestic politics dalla foreign policy. Qualsiasi serio impegno statunitense sulle questioni ambientali dipende, ad esempio, da una effettiva azione di regolamen­tazione interna, come abbiamo visto bene con Obama. Il tentativo di rafforzare la governance mondiale in materia di gestione della finanza globale è strettamente legata all’adozione di precise politiche fiscali e regolatorie da parte degli Stati Uniti. E molti altri esempi potrebbero seguire.

Ecco perché diventa tanto importante cercare di misurare il polso dell’opinione pubblica statunitense e capire se è in asse con il tipo di politica estera che Biden vorrebbe promuovere e il discorso che lo informa e giustifica. Su questo – e quindi sulla possibilità di aggior­nare alle esigenze e ai problemi del 2020 gli schemi dell’internazio­nalismo liberal bideniano – è lecito nutrire più di un dubbio. Tutti i sondaggi ci mostrano una riluttanza forte di larghe maggioranze di americani a sostenere onerose politiche globaliste e multilaterali. E ci mostrano, inoltre, una larga e diffusa ostilità alla Cina: la più ampia di sempre, da quando (1979) Gallup ha iniziato a misurare l’opinione degli americani nei confronti del regime cinese, oltre che uno dei pochi elementi di convergenza bipartisan negli USA iper-polarizzati di oggi, visto che accomuna repubblicani e democratici. Un’opinione pubblica poco incline a sostenere una politica estera attiva e internazionalista e nella quale maggioritarie sono le inclina­zioni anticinesi (che talora, soprattutto a destra, tracimano in vera e propria sinofobia) pone pertanto costrizioni e ostacoli forti all’azione internazionale della futura Amministrazione Biden e aggiunge un’ul­teriore criticità in un’equazione di suo già immensamente complessa.