Alla ricerca di un nuovo ordine globale

Di Massimo D'Alema Martedì 03 Dicembre 2019 11:48 Stampa


«Grande è la confusione sotto il cielo» diceva Mao Zedong, per con­cludere in modo inatteso: «e quindi la situazione è eccellente». Non credo che Mao amasse la confusione, ma certamente vedeva nel caos della società cinese, all’inizio degli anni Sessanta, l’espressione di un moto rivoluzionario di cui erano protagonisti soprattutto i giovani. Quel moto, la rivoluzione culturale, aveva un obiettivo chiaro, indi­cato dallo stesso presidente Mao: “bombardare il quartier generale”, cioè abbattere il potere tradizionale cinese rappresentato dalla strut­tura del Partito Comunista Cinese. Un obiettivo ambizioso perché mirava a sovvertire un sistema di potere fondato sulla supremazia di quella che Étienne Balazs aveva chiamato la “burocrazia celeste”, ov­vero l’aristocrazia dei mandarini, cioè degli intellettuali e funzionari, che aveva rappresentato la continuità del potere a Pechino. La classe dirigente del Partito Comunista Cinese ne era l’erede storico, e non a caso Mao chiamò questa rivolta contro gli intellettuali “rivoluzione culturale”. La confusione di cui egli parlava era volta a costruire un nuovo ordine, a provocare un cambiamento radicale della classe di­rigente e del modo di lavorare. Nel disordine internazionale di oggi, al contrario, non emerge la prospettiva di un nuovo ordine. Esso ci appare più come la crisi di un sistema tradizionale, una crisi peri­colosa e che può scivolare verso esiti che appaiono almeno in parte imprevedibili.

Preoccupa innanzitutto il moltiplicarsi di conflitti armati irrisolti. Alcuni di essi assumono le proporzioni di catastrofi umanitarie che non hanno precedenti nel passato recente. Si calcola che in Siria, tra morti, feriti e rifugiati, più di metà della popolazione sia stata colpita dalla guerra. Un situazione analoga è riscontrabile nello Yemen. In Libia è in corso da diversi anni una guerra civile di cui non si vede l’esito. Ma i conflitti non si addensano solo nello scenario cruciale del Mediterraneo; basti pensare al nodo irrisolto tra Russia e Ucraina o, più a est, al riemergere di tensioni nazionalistiche in Asia. Il fronte forse oggi più inquietante appare quello con l’Iran, dopo che gli Stati Uniti, con il loro voltafaccia rispetto all’accordo sul nucleare e con l’escalation sulle sanzioni, hanno aperto una crisi che rischia di tra­volgere l’intesa faticosamente costruita e che poteva aprire una fase di stabilità nella regione.

Se sul piano dei conflitti armati e delle tensioni che minacciano la sicurezza la situazione appare così problematica, altrettanto difficile è il quadro delle relazioni di natura economica e commerciale. La guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina ha provocato un rallentamento della crescita e genera una incertezza che pesa su tutta l’economia mondiale. L’Accordo di Parigi per la lotta ai cambiamenti climatici è stato rimesso in discussione. La grande sfida dei flussi migratori non riesce a trovare una risposta convincente attraverso una governance condivisa e multilaterale. Anzi, sempre di più le due grandi frontiere tra Nord e Sud del mondo (il Mediterraneo e il confine tra Messico e Stati Uniti) ci appaiono due frontiere di guerra, con un carico intol­lerabile di vittime e di sofferenza.

Sia il sistema delle istituzioni internazionali e regionali sia quello del­le alleanze tradizionali vivono una evidente difficoltà. Per quanto ci riguarda più da vicino, è lampante la crisi dell’Unione europea che si manifesta nella perdita di consenso verso il processo di integrazione tra i cittadini del nostro continente e che è rappresentata in modo rilevante e persino simbolica dall’uscita del Regno Unito dall’Unio­ne. L’UE si è costantemente allargata nel dopoguerra con un pro­cesso che sembrava inarrestabile; ma oggi si registrano una battuta d’arresto e una inversione di tendenza che potrebbero rappresentare l’inizio di una seria crisi. Anche organismi regionali al di là del Medi­terraneo, come la Lega Araba, o il NAFTA, oltre l’Atlantico, appaio­no attraversati da gravi tensioni o paralizzati dal riemergere di spinte nazionalistiche. Persino l’Alleanza atlantica è oggi segnata dalle in­comprensioni tra Stati Uniti ed Europa. Si attribuisce al presidente Trump la frase «la potenza americana deve scontrarsi prima di tutto con tre grandi ostacoli: la NATO, l’Europa e le Nazioni Unite». Il fatto che il leader del più potente paese del mondo definisca i pilastri dell’ordine politico occidentale come un intralcio ci dà il senso della gravità della crisi di fronte alla quale ci troviamo. Un tratto significativo del nostro tempo è che l’insieme di tali con­flitti sembra non trovare più risposte all’interno delle istituzioni mul­tilaterali. Le relazioni internazionali sono sempre più caratterizzate dai rapporti bilaterali tra Stati o dal formarsi di variabili coalitions of the willing. Le istituzioni appaiono come svuotate. Il più grande conflitto commerciale in corso non si sta discutendo nel quadro del WTO ma in un negoziato diretto tra Stati Uniti e Cina. Le guerre mediorientali non trovano soluzioni al tavolo delle Nazioni Unite, che pure hanno cercato di agire ma si sono rivelate impotenti. Se mai si tro­verà una via di uscita sarà attraverso un comples­so sistema di rapporti tra grandi potenze e po­tenze regionali la cui azione sfugge sempre più a ogni possibilità di controllo e condizionamento. Il mondo sembra essere tornato a uno scenario dominato dalla politica di potenza e dalla logica del tutti contro tutti, come una sorta di giungla in cui non funzionano più i meccanismi regola­tivi che, a partire dalla seconda guerra mondiale, hanno consentito di contenere i conflitti e tro­vare soluzioni. Questa è appunto la crisi attua­le dell’ordine mondiale; ordine mondiale che è stato rappresentato da un insieme di principi e regole condivisi e accettati; da una rete di trattati, alleanze e istituzio­ni. La visione che ha ispirato questo ordine mirava a costruire, oltre i confini nazionali, una dimensione istituzionale e politica in grado di garantire la pace e di promuovere relazioni reciprocamente vantag­giose tra i vari paesi. La grande ambizione è stata quella di espandere oltre i confini dello Stato-Nazione la dimensione della statualità e il dominio della legge.

Secondo un approccio realista allo studio delle relazioni internazio­nali, un ordine sovranazionale è sempre il frutto di una guerra e porta il segno dei vincitori. Così è stato storicamente. Alla fine delle guerre di religione la pace di Vestfalia fondò un ordine basato sul principio della sovranità nazionale. Ciò rappresentò una risposta alla tragedia delle guerre religiose e fu alla base di una convivenza tra le nazioni che resse per molti anni e che, dopo la lacerazione delle guerre napo­leoniche, fu ricostituita dal 1815. La grande novità è intervenuta dopo la tragedia delle guerre mon­diali. Prima con il tentativo wilsoniano della Società delle Nazioni, naufragato per l’insorgere del nazionalismo europeo, poi in modo vittorioso dopo la seconda guerra mondiale. L’ordine liberale nasce dalla convinzione che la sovranità nazionale, se non imbrigliata in una rete di regole e di istituzioni sovranazionali, rischia di portare alla guerra. Non c’è dubbio che il sistema in cui abbiamo vissuto per tanti anni è nato dalla sconfitta del nazionalismo nelle sue forme estreme e ha portato il segno della cultura democratica delle potenze vincitrici, primi tra tutti gli Stati Uniti e i paesi dell’Europa occiden­tale. Il progetto delle Nazioni Unite prende corpo nell’incontro del 1945 di San Francisco e nell’ottobre dello stesso anno viene costitui­ta l’ONU; nel 1944 si hanno gli Accordi di Bretton Woods; anche il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il GATT (progenitore del WTO) nascono in quegli anni. Nel fervore del do­poguerra, sotto il segno delle potenze democratiche e nella volontà determinata di prevenire nuovi conflitti, si costituisce la rete delle istituzioni che hanno caratterizzato la vita internazionale nella nostra epoca. Non c’è dubbio che questo ordine sia nato nella convinzione che l’espansione della democrazia politica e dell’economia di merca­to rappresentino l’antidoto al pericolo della guerra e della dittatura e insieme siano straordinari fattori di progresso economico, sociale e di promozione umana.

L’ordine mondiale liberale nasce quindi sotto l’egemonia della cul­tura occidentale. Questo sistema ha resistito alla prova della guerra fredda. Anzi, paradossalmente, la contrapposizione tra blocco sovie­tico e Alleanza atlantica ha consolidato l’ordine mondiale liberale. Il rigido equilibrio bipolare ha costituito un limite all’esercizio della sovranità nazionale e ha semplificato le relazioni internazionali lungo l’asse dei rapporti tra le due superpotenze. Henry Kissinger ha scrit­to che l’equilibrio nucleare tra americani e sovietici ha garantito un lungo periodo di pace. Si tratta di un giudizio che difficilmente può essere accettato dal punto di vista della Corea o del Vietnam; perché se vi è stata pace nell’area euroatlantica è anche vero che in altre parti del mondo vi sono state guerre che sono costate circa 20 milioni di morti. Tuttavia bisogna riconoscere che il bipolarismo ha consentito di trovare soluzioni a questi conflitti e di evitare che essi portassero all’esito di una guerra mondiale. Nella guerra fredda, quindi, ha fun­ zionato un certo ordine del mondo che ha evitato il caos e la degene­razione incontrollata dei conflitti. Inoltre, se è vero che la divisione in sfere d’influenza ha rappresentato una limitazione al dispiegarsi delle potenzialità del modello liberaldemocratico occidentale, in­dubbiamente nel confronto con lo statalismo comunista dell’Est il modello occidentale ha guadagnato prestigio e alla fine è risultato vincente. Bisogna infine sottolineare il fatto che la competizione con il comunismo sovietico ha favorito la crescita, almeno certamente in Europa, di quel modello di Stato sociale in cui lo sviluppo capitali­stico si è accompagnato a politiche di inclusione e di riduzione delle diseguaglianze; ciò che Ralf Dahrendorf definì come “la quadratura del cerchio”, ovvero la capacità delle democrazie occidentali di tenere insieme capitalismo, democrazia politica e un certo grado di giustizia sociale.

Quando nel 1999 incontrai, come presidente del Consiglio, papa Giovanni Paolo II rimasi colpito da ciò che mi disse all’inizio del nostro colloquio: «Ho combattuto tutta la vita contro il comunismo, ma ora che il comunismo è caduto mi domando chi difenderà i po­veri». Si trattava di un messaggio forte, persino drammatico, e di una preoccupazione che esprimeva una critica alla globalizzazione neo­liberista che si è rivelata assolutamente fondata.

Il 1989 segna dunque uno spartiacque. La fine della guerra fredda ha aperto una fase nuova: non la fine delle ideologie, come è stato scritto, ma al contrario il dominio di una sola ideologia, quella neoliberista, il pensiero unico. Per una certa fase negli anni Novanta il liberismo domi­nante fu ancora temperato da valori solidaristici: sono gli anni della Terza via e della prevalenza dei progressisti in Europa. Certamente una vi­sione ottimistica e acritica della globalizzazione non aiutò a predi­sporre regole e strumenti di governance in grado di prevenire i rischi che poi si sono manifestati. In quella stagione si confrontarono due visioni nella cultura occidentale: da una parte, l’idea di Francis Fuku­yama di un mondo unificato sotto il segno dei valori dell’Occidente e liberato dai conflitti; dall’altra, Samuel Huntington sosteneva inve­ce che la fine dello scontro con il comunismo avrebbe condotto a un conflitto tra le civiltà e le culture, anche perché una parte del mondo viveva l’espansione della civilizzazione occidentale come una minac­cia di carattere culturale e identitario. Non c’è dubbio che la profezia di Huntington fosse più profonda e cogliesse in modo più efficace il carattere problematico della nuova fase storica che cominciava. Tut­tavia è evidente che tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo la situazione internazionale sia stata caratterizzata sul piano economico dalla integrazione del mercato mondiale e dalla crescita tumultuosa della ricchezza globale e, sul piano politico, da una espansione della democrazia e da un allargamento dell’egemonia occidentale rappre­sentato anche dalla integrazione di molti nuovi membri nell’Alleanza atlantica e nell’UE.

Alcuni studiosi – recentemente nell’interessante libro di Tomma­so Detti e Giovanni Gozzini “L’età del disordine” – fanno risalire l’origine della crisi agli anni Settanta del secolo scorso. Si tratta di un’analisi acuta che coglie alcuni elementi di verità. Nel senso che l’accelerazione dei processi tecnologici e la finanziarizzazione dell’e­conomia certamente cominciano con il cosiddetto “shock petrolife­ro” degli anni Settanta. Tuttavia la mia opinione è che il cosiddetto “ordine mondiale liberale” si mostrò in grado di reggere di fronte a queste novità, anche attraverso innovazione e adattamento. La nasci­ta del G7 nel 1975 fu un modo di reagire alle nuove sfide attraverso la creazione di un “direttorio” che potesse coordinare l’azione delle grandi potenze e orientare le istituzioni internazionali. Questo di­rettorio ha funzionato, allargandosi, da un determinato momento in poi, alla Russia, sino a quando, con l’entrata in scena di nuovi protagonisti, non è stato necessario costituire il G20, e cioè un tavolo intorno al quale potessero trovare posto paesi fondamentali come la Cina e l’India. Ritengo che, anche se è vero che taluni fattori di crisi hanno avuto una lunga incubazione, tuttavia l’ordine mondiale liberale abbia retto a queste sfide e abbia conosciuto il suo momento di maggiore affermazione proprio intorno alla fine del secolo scorso, in uno scenario caratterizzato dal dominio incontrastato – anche se illuminato – della grande potenza americana.

Certo l’unipolarismo degli Stati Uniti ha potuto imporsi anche per la drammatica crisi che ha caratterizzato la Russia all’indomani della caduta del sistema sovietico, una crisi economica e sociale ma anche morale e politica, che ha condannato il paese a un decennio di so­stanziale marginalità. Nello stesso tempo la Cina si avviava sulla stra­ da della modernizzazione, ma era ancora un paese alle prese con le ferite di un lungo conflitto interno che, dalla “rivoluzione culturale” sino allo scontro della cosiddetta “banda dei quattro”, aveva assunto a tratti i caratteri di una vera guerra civile. Negli anni Novanta il dominio dell’Occidente è stato favorito anche dalle difficoltà di altri protagonisti non in grado di esercitare il loro ruolo sulla scena mon­diale. Ciò ha contribuito a generare l’illusione di una sorta di “fine della storia” e si è finito per non vedere gli elementi di contraddizione e i potenziali conflitti che minavano il processo di globalizzazione. Non mi riferisco soltanto ai conflitti politici, etnici e religiosi, ma anche alle contraddizioni di carattere economico e sociale, perché se certamente in quegli anni si assiste a una straordinaria crescita della ricchezza è anche vero che nello stesso tem­po crescono le diseguaglianze e gli squilibri che poi si manifesteranno nella grande crisi econo­mico-finanziaria del 2007-08. Queste contrad­dizioni economico-sociali colpiscono in modo particolare le società occidentali. È certamente vero che nelle grandi economie emergenti – o riemergenti – si determinano profonde disegua­glianze, ma ciò avviene nel quadro di una cresci­ta complessiva della società e nel miglioramento generalizzato delle condizioni di vita; si tratta di società coese nelle quali alcuni accumulano grandi ricchezze, ma contemporaneamente grandi masse di persone escono da una condizione di fame e povertà e quindi tutta la società si muove verso l’alto in un contesto di fiducia e aspettative positive. La diseguaglianza in Occidente opera in modo diverso, perché se certamente in questa nostra parte del mondo si concentra quella éli­te che per effetto della finanziarizzazione o della capacità innovativa ha accumulato una enorme ricchezza, accade tuttavia anche che una parte delle classi medie, in particolare del mondo del lavoro, arre­tri in modo drammatico perdendo reddito, certezze, diritti e status. Nelle società occidentali la diseguaglianza produce una più profonda lacerazione sociale e la globalizzazione genera in larghi strati della popolazione non aspettative positive ma paure e rancore.

Da una parte l’egemonia occidentale appare indebolita dalle con­traddizioni che crescono all’interno delle nostre società; dall’altra si sviluppa a partire dagli anni Novanta una opposizione di natura cul­turale, etnica e religiosa. Questa reazione si manifesta in modo parti­colarmente acuto nel mondo musulmano, dove il fondamentalismo si diffonde per reazione a quello che viene presentato come il virus della cultura occidentale, percepito come una minaccia a radicate tradizioni e identità. In questo senso il fondamentalismo islamico non rappresenta la permanenza di un fenomeno antico e residua­le ma si manifesta come una reazione “moderna” al timore di una omologazione culturale. L’intolleranza e l’odio religioso esplodono all’interno di un mondo – quello musulmano – che storicamente era stato relativamente tollerante. Basti pensare che tra i vari domi­natori che nei secoli si sono succeduti nel controllo di Gerusalemme l’unico a proteggere la libertà di culto delle tre religioni monoteiste fu Solimano il Magnifico. D’altro canto, questo ritorno a forme di integralismo e intolleranza etnico-religiosa non caratterizza solo il mondo islamico. Si pensi ad esempio al fondamentalismo cristia­no, in particolare a quello protestante, proprio della nuova destra populista e nazionalista che cresce anche nelle società occidentali o in America Latina. Siamo di fronte a un ritorno al nomos della ter­ra; a una reazione alla anomia di una globalizzazione in cui grandi potenze economiche e finanziarie, ma anche culturali, travalicano i confini nazionali e cercano di imporre il loro dominio. Non si com­prenderebbero questo ritorno al nazionalismo e questo bisogno di rimettere radici nella propria terra e nel proprio sangue – che ci fa pensare ai momenti più terribili della storia europea – senza pensarli come reazione a quell’incertezza esistenziale che è uno degli aspetti della condizione umana del mondo globalizzato di oggi.

Alcuni studiosi hanno messo l’accento sulle ambizioni e le insoffe­renze di nuovi protagonisti rispetto all’egemonia occidentale come fattori determinanti che portano alla crisi dell’ordine internazionale. In particolare Miles Kahler sottolinea che la global governance è sfida­ta dai rising powers. È interessante la tesi di questo studioso, ma an­che di altri, secondo cui l’ordine liberale può sopravvivere al declino dell’egemonia americana proprio per la forza della sua ragionevolezza che consente di inglobare, attraverso il negoziato, le nuove potenze emergenti. Personalmente però ritengo che queste analisi, mettendo l’accento sui fattori che minacciano dall’esterno l’ordine mondiale, finiscano per sottovalutare le ragioni che dall’interno l’hanno por­ tato all’attuale crisi. Henry Kissinger, nel suo “Ordine mondiale”, sottolinea che l’ordine internazionale si trovi davanti a un paradosso: la prosperità dipende dal successo della globalizzazione economica; ma tale fenomeno produce una reazione politica che agisce spesso in senso contrario. I gestori economici hanno poche occasioni di interazione con i processi politici internazionali mentre i responsa­bili politici non vogliono rischiare di perdere consenso per prevenire problemi economici e finanziari. È un’analisi che coglie un punto essenziale: quella separazione tra economia e politica che appare il punto più debole dell’assetto mondiale in cui viviamo. Gramsci, in carcere agli inizi degli anni Trenta del Novecento, all’indomani del­la crisi del 1929, scrisse che sarebbe diventata crescente la contrad­dizione tra il cosmopolitismo dell’economia e il carattere nazionale della politica. Una intuizione profetica e geniale. È interessante che Kissinger, un secolo dopo, colga lo stesso problema. L’ordine mon­diale liberale entra in crisi proprio per l’assenza di una politica forte in grado di conciliare la crescita economica con la difesa dei fonda­mentali diritti umani e sociali. Si potrebbe dire che vi sia un’assenza di governance efficace. Ma a ben vedere l’uso stesso di questa parola fa trasparire una sorta di pudore sul piano linguistico e concettuale, come se il riferimento alla necessità di una guida politica fosse sostanzialmente impronunciabile. Questo è l’approdo di un’egemonia neoliberista che ha teorizzato il primato dell’economia sulla politica, spingendo quest’ultima sempre più ai margini e a un ruolo ancillare. Come se l’azione politica non avesse ormai altri compiti se non quelli che l’economia e la finanza le assegnano, e cioè di rimuovere gli ostacoli al fine di consen­tire al mercato di dispiegare pienamente le sue potenzialità positive. Così, dopo una stagione relativamente breve in cui è sembrato prevalere un liberalismo democratico, si è affermata l’idea di un mondo il cui governo è affidato al dominio della finanza e dei mercati. Ogni forma di azione pubblica è stata vista come un ostaco­lo e un residuo del passato.

Questa nuova cultura si è imposta anche nel linguaggio, nel senso che la progressiva riduzione delle protezioni sociali prodotte dalle riforme del dopoguerra è stata chiamata “riformismo”. Nel senso che il pensiero neoliberista si è impadronito anche di parole e concetti che appartenevano alla tradizione socialdemocratica. La controrifor­ma si è definita “riformismo” e ha contribuito a generare un’enor­me insicurezza sociale. È il malessere che percorre le nostre società che indebolisce il ruolo del mondo occidentale. Il paradosso è che il disordine viene da quella parte di mondo che dovrebbe garantire ordine e stabilità. È il risorgente nazionalismo americano a mettere in crisi il sistema del commercio mondiale o gli accordi contro il cambiamento climatico. È la crisi del processo di integrazione euro­pea che genera insicurezza e incertezza, così come l’Europa ha con­tribuito a destabilizzare il mondo arabo senza poi mettere in campo alcun progetto condiviso o azione coerente per favorire una nuova stabilità sostenibile.

In realtà, quindi, l’ordine mondiale liberale, più che essere aggredito da fattori esterni di instabilità, sembra essere entrato in crisi per un cedimento che avviene all’interno dello stesso mondo occidentale. Cedimento che potrebbe essere definito in termini gramsciani come una vera e propria “crisi di egemonia”. Tale crisi investe la cultura che nel 1989 ha vinto e sembrava imporsi in modo incontrastato; una cultura che si potrebbe riassumere nella seguente formula: libe­raldemocrazia + economia di mercato. È la forza propulsiva di questa ideologia che sembra essere entrata in una crisi profonda e dramma­tica. Vi è molto da ripensare, salvare e riproporre a proposito dello straordinario patrimonio della cultura occidentale. Oggi non si può non prendere atto che la fiducia che questa visione del mondo era in grado di generare si è incrinata e si è aperta una fase di grande incertezza. Non a caso torna di attualità la categoria gramsciana di interregno: una fase in cui il vecchio ordine muore e uno nuovo non riesce a nascere; una fase carica di elementi di instabilità e pericolo. Ciò che si esprime nelle nostre società è un bisogno di protezione che impone di ristabilire il primato della politica sull’economia. In as­senza di forti istituzioni politiche sovranazionali, che in anni recenti non sono state costruite in modo adeguato, questo bisogno spinge a rivolgersi allo Stato nazionale, allo strumento politico. Se è vero che il cosiddetto “sovranismo” esprime un bisogno reale e legittimo, è anche vero che esso, sfociando nel nazionalismo, finisce per generare più conflitti che soluzioni dei problemi. È del tutto evidente che né la questione della crescita economica e del benessere sociale, né la sfida dei flussi migratori, né la questione ambientale possono essere affrontati facendo leva sul nazionalismo aggressivo. Al contrario, il nazionalismo finisce per rappresentare un ostacolo a quel processo di cooperazione e politica sovranazionale che rappresenta l’unica di­mensione nella quale possono essere costruite delle soluzioni efficaci. Torna un bisogno di politica, ma il paradosso del sovranismo è che esso rappresenta un ostacolo alla soluzione dei problemi da cui trae origine.