“Detto tra compagni”. Dialogo tra Andrea Camilleri E Massimo D’Alema

Martedì 19 Dicembre 2017 16:35 Stampa


Massimo D’Alema
Mi ha colpito una tua dichiarazione di qualche tempo fa in cui confessi di non vederci quasi più, ma di continuare a sognare a colori. È un’immagine molto bella, anche da un punto di vista letterario, che però mi spinge a farti una domanda precisa. In questa fase di trasformazioni molto radicali e non sempre positive nell’economia e nelle relazioni internazionali, in quest’epoca di conflitti, intolleranze, razzismi, chiusure che noi venti o trenta anni fa non avremmo immagi­nato più possibili, tu il futuro lo vedi a colori? C’è, secondo te, uno spazio per la speranza?

Andrea Camilleri Questo è un dilemma che mi porto dentro da un po’ di tempo a questa parte. C’è un bellissimo episodio in cui Leonardo Sciascia racconta che, verso il 1922, chiesero a un contadi­no completamente cieco: «Compa’, ma voi questo fascismo come lo vedete?». E lui rispose: «Cu tutto che sugnu orbo, la vio nivura». La vedo nera. Ecco, io da orbo direi, come il contadino, la vedo nera. Però nutro anche una sorta di profondissima fede nell’uomo. Credo che nei momenti peggiori venga poi il tempo in cui le qualità mi­gliori dell’uomo riemergono. Sono come un fiume carsico: per un po’ scompaiono e poi ritornano. Quindi, da un lato sono pessimista, dall’altro non riesco a perdere questo mio innato ottimismo nell’u­manità. Malgrado l’età non ho quello che Alfieri chiamava “l’umor nero del tramonto”. Posso averlo avuto in passato, ma passeggero. Quello che però mi porto addosso in questi ultimi anni è piuttosto una specie di rimorso. Il rimorso di lasciare ai miei nipoti un’Italia con un futuro problematico. Mi sento come se la mia generazio­ne avesse fallito nell’impegno civile. Io appartengo alla generazione che aveva venti anni quando l’Italia è stata liberata dal fascismo e, come mi è già capitato di dire, sono stato educato male. Perché ai miei tempi la politica era fatta da gente come De Gasperi, Togliat­ti, Nenni, Sforza, Parri. Si riscopriva la politica democratica come una cosa nuova, si gioiva della possibilità di esporre liberamente le proprie idee e di confrontarsi con gli altri, che non erano nemici ma avversari. E c’era una gran voglia di rifare l’Italia. Ora, a 92 anni, sento come se mancasse un autentico slancio nel tentare di rifare l’Italia. Vorrei quindi che la mia eredità fosse presa con beneficio di inventario. Quando qualche tempo fa ho incontrato alcuni studenti di un liceo romano e abbiamo parlato di cosa è stato il fascismo, ho detto loro di non abbandonare la politica, ma di rifarla: non state ad ascoltare più noi, noi siamo già morti. Trovate parole nuove per la politica. Ridate alla politica quella “P” maiuscola che negli ultimi tempi ha perso.

M. D’A. La tua risposta alla condizione difficile e dolorosa starebbe quindi in una fiducia nell’uomo che potrebbe essere definita, in termini culturali, una sorta di “nuovo umanesimo”.

A. C. La speranza potrebbe essere il ritorno all’Uomo nel senso mi­gliore della parola. Il ritorno all’Uomo totale. Oggi si tende a di­mezzare l’uomo. Ho l’impressione che venga sezionato. Pensiamo al lavoro ad esempio. Ho l’impressione che il valore del lavoro non abbia più quel posto che gli era stato riservato nella Costituzione. Il lavoro era o no uno dei valori assoluti dell’uomo?

M. D’A. Era anche la forma della cittadinanza. Era il modo in cui l’uomo diventava cittadino.

A. C. Il lavoro era il modo di partecipare alla vita e al benessere comu­ne. Ma l’uomo conferma sempre di avere una sua innata positività. Qualche anno addietro, quando il nostro paese si era venuto a trovare con un debito pubblico enorme e una disoccupazione spaventosa, ho avuto paura che la gente così in difficoltà potesse perdere le staffe. Al­cuni hanno detto che si è trattato di un momento di rassegnazione. Io invece credo che abbiano capito che una sollevazione avrebbe potuto addirittura peggiorare le cose. E ho individuato in questo compor­tamento una certa dose di saggezza, una qualità. Ma a questo punto bisogna fare, secondo me, delle restituzioni. È stato tolto troppo. Io non mi intendo di economia, ma quando sento dire che si comincia a intravedere una crescita nell’economia, rimango perplesso. Se non cresce l’occupazione, come fa un paese a crescere? Non riesco a capire come si possa, con un quadro del genere, parlare di crescita.

M. D’A. Non è solo la mancanza di lavoro che dovrebbe preoccuparci, ma anche la sua scarsa valorizzazione. Il lavoro oggi appare svalorizzato innanzitutto perché si guadagna di meno, perché i salari sono bassi, per­ché è precario. Aumenta il numero di occupati ma diminuisce il numero delle ore lavorate. Sembra un paradosso ma è così, perché molti sono i la­voratori part-time, a chiamata, quelli che lavorano solo poche ore. E poi per i giovani ci sono i contratti da stagisti, che consentono di guadagnare appena 300 o 400 euro al mese.

A. C. Ma non è una condizione miserabile questa? Per l’uomo, per il lavoro, per tutto?

M. D’A. Certo è così. Anche perché contemporaneamente la ricchezza nazionale si concentra in poche mani. Nel frattempo, infatti, aumenta­no i profitti e le rendite finanziarie.

A. C. Allora non mi vengano a parlare di crescita del paese. Ancora una volta parliamo di una parte del paese, che sta meglio, che guada­gna di più. Sento che nel 2017 su quattro famiglie una è in povertà assoluta e due sono a rischio povertà e subito dopo viene detto che il paese procede. Ma in che senso? Procede all’inverso. È pazzesco che oggi si possa constatare che ci sono famiglie che vivono in assoluta povertà. Mi sembra di ritornare agli anni della guerra, quando si era un po’ tutti poveri perché le cose mancavano. Con la differenza che oggi le cose non mancano.

M. D’A. Essere poveri in una società in cui tutti sono poveri è diverso dall’essere poveri in una società in cui ci sono anche alcuni molto ricchi, perché la povertà a quel punto viene vissuta come una colpa e alimenta una forma tremenda di emarginazione e di frustrazione personale.

A. C. Il fatto che la povertà venga vissuta come una colpa rientra in un modo di concepire la società che non ci apparteneva. È proprio della società anglosassone, dove chi non riesce a fare soldi è conside­rato un incapace. Era un po’ l’idea che si aveva degli Stati Uniti d’A­merica quando i nostri emigranti andavano lì a far soldi. E chi tor­nava dall’America senza aver fatto fortuna era considerato un fallito.

M. D’A. Noi siamo cresciuti in una società in cui il mondo cattolico e la sinistra avevano fatto affermare e vincere alcuni valori di solidarietà: che non ci potevano essere quelli troppo ricchi accanto a quelli troppo po­veri, che le diseguaglianze andavano ridotte, che bisognava avvicinare le persone. Purtroppo il logoramento di queste grandi culture democratiche ha portato al prevalere dell’individualismo.

A. C. Da questo individualismo mi sembra discenda la posizione che abbiamo oggi di fronte all’accoglienza, il rifiuto totale che nu­triamo rispetto a questo grande e prevedibilissimo fenomeno che è l’immigrazione. Anche su questo noi italiani, che ci definiamo brava gente, facciamo un bel po’ di omissioni. Mi ricordo che, negli anni Sessanta, quando mi trovavo a Torino per lavorare alla TV nella sede di quella città, ho visto con i miei occhi – allora che c’era la migra­zione interna – i cartelli sui portoni che dicevano: “Non si affitta a meridionali”. E non è razzismo quello? Figurati se oggi si affitta agli iraniani, ai magrebini ecc. Non si affitta a nessuno. Per qualcuno questi poveri disperati non dovrebbero mettere piede in Italia. Mi inquieta che l’Europa allargata abbia al suo interno paesi dove si eri­gono frontiere, quando invece il grande sogno europeo era quello dell’abbattimento di tutte le frontiere. Come in Austria, dove per vincere le elezioni il partito di centrodestra si è dovuto spostare tutto a destra, garantendo che gli immigrati non metteranno piede nel paese. Se così si vincono le elezioni provo terrore, perché capisco quanto sia diffuso l’individualismo. Il “particulare” emerge su tutto.

M. D’A. È il brutto modo di invecchiare dell’Europa, perché il para­dosso è che l’Europa, al di là del giustissimo sentimento della solidarietà, ha bisogno di questi immigrati. Se guardiamo alle tendenze demogra­fiche, se noi vogliamo avere di qui a venti anni un numero adeguato di persone giovani che lavorano accanto a persone anziane che vivano della loro pensione, abbiamo bisogno di immigrati. Già oggi in Italia grazie agli immigrati si riescono a pagare gran parte delle pensioni. Noi abbiamo cinque milioni di immigrati, molti dei quali lavorano e ver­sano all’INPS i contributi con cui si pagano le pensioni degli italiani. Però, malgrado ciò, c’è un sentimento irrazionale di paura. Se infatti tra i mali della società di oggi vi sono da un lato l’impoverimento e la povertà, dall’altro vi è la paura. Mentre l’Italia che hai evocato prima, quella dei tuoi venti anni, si lasciava alle spalle la paura e guardava al futuro con speranza, oggi noi viviamo in una società che invece guarda al futuro con paura. E non è facile sconfiggere la paura. I messaggi più forti a sostegno dell’accoglienza, della solidarietà, del coraggio e contro la paura in questi anni li ha lanciati la Chiesa cattolica. In particolare l’attuale papa.

A. C. Infatti credo che gli rimproverino questo sguardo più attento al sociale che alle cose dell’anima.

M. D’A. È vero che nella Chiesa c’è un animo conservatore. Però guardo anche con una certa invidia alla tensione sociale della Chiesa di Bergo­glio, perché nella sinistra italiana sento poche voci che hanno la stessa sensibilità. Ma poi, cosa è diventata oggi la sinistra italiana?

A. C. Mi sembra che in questo momento parlare di centrodestra e di centrosinistra sia un po’ un modo di barare al gioco. Perché il cen­trosinistra in realtà è centro, ed è già tanto che non sia solo destra. Anche se continua a spacciarsi per centrosinistra. A un certo punto avevo sperato veramente che si riuscisse in Italia a ripetere il miracolo che in Grecia fece Tsipras quando riuscì a riunire vari gruppi della sinistra. Ma la vedo difficile.

M. D’A. Non è facile, ma penso che oggi sia l’unico tentativo che vale la pena provare a fare. Perché oggi la realtà del Partito Democratico è quella di una forza che appare prigioniera di una guida personale. È diventato il partito di una persona.

A. C. Si adegua a una tendenza. Come il partito di Grillo è di Grillo e il partito di Berlusconi è di Berlusconi. Si è adeguato anche il PD.

M. D’A. Bisognerebbe cercare di fare emergere in Italia una possibilità diversa. È lo sforzo di queste settimane, di questi mesi: mettere in campo una possibilità diversa. Incontro molte persone che mi dicono: datemi qualcosa per cui votare, perché altrimenti rimango a casa.

A. C. Per la prima volta, a 92 anni, per poter votare al referendum sono dovuto andare alla ASL, dove ho dovuto sostenere una visita medica per avere la possibilità di farmi accompagnare in cabina da una persona di fiducia. Ho passato due visite per andare a votare. Ora, farei fatica a rifare tutta la trafila, perché non saprei onestamen­te per chi votare.

M. D’A. Stiamo cercando di offrirti una possibilità, una ragione che ti dia la voglia di rifare la trafila. La sinistra ha bisogno di rinascere, e questa esigenza scaturisce da un bisogno della società. Una sinistra che deve venire dal basso come risposta alla povertà e alla diseguaglianza. Ma c’è anche la sfida di una modernità che se non viene governata può produrre effetti perversi. Come la finanza, che è nata per essere un gran­de strumento al servizio dello sviluppo e del lavoro ed è invece diventata padrona, producendo guasti enormi, anche l’innovazione tecnologica, nata come strumento, potrebbe trasformarsi in padrone e sconvolgere la vita e il lavoro.

A. C. A seconda dell’uso che ne facciamo. Certo che internet e la rete sono una grossa, enorme possibilità di comunicazione e di conoscen­za, ma se viene usata male diventa devastante. Io di fronte alla tec­nologia non mi spavento, mi spavento per l’uso che se ne fa. Come l’invenzione dell’aereo, che è stata una cosa meravigliosa, ma poi è servita per sganciare la bomba su Hiroshima. Bisogna che la politica futura si interessi al corretto uso della tecnologia. Non so come potrà farlo, ma è una questione molto seria.

M. D’A. Dovrà certamente interessarsi dell’uso della tecnologia, ma an­che occuparsi di accompagnare la rivoluzione tecnologica con una politi­ca sociale, come nel caso della robotizzazione. Siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione industriale che renderà sempre meno necessario in molti settori l’apporto umano. Ma questo dovrà essere accompagnato da un’azione politica che, se il lavoro umano diviene meno necessario, im­pone di ridurre l’orario di lavoro, offre la possibilità alle persone di avere più tempo da dedicare alla cultura, alla società, agli altri. Dovremmo chiedere al lavoratore, a chi lavorerà solo 4-5 ore al giorno, di dedicare una parte del proprio tempo alla società, al lavoro di cura.

A. C. È una bellissima idea. Ed è un’idea rivoluzionaria. Ma bisogna pensarci per tempo, già da ora. Perché se arriva un robottino che sostituisce dieci operai, oggi abbiamo solo dieci disoccupati in più. Temo che siamo già in ritardo. Perché la velocità con cui la tecnolo­gia ha progredito negli ultimi anni è spaventosa. C’è stata una grande accelerazione. E quindi mi chiedo: siamo noi che siamo fermi e l’ac­celerazione ci passa davanti oppure noi stiamo, contemporaneamen­te, dal punto di vista sociale, arretrando di fronte a questa accelera­zione? Poco fa dicevamo che sembra di essere tornati anni indietro dal punto di vista del lavoro e del salario. Già bisogna recuperare ciò che è andato perduto prima di prevedere quello che succederà nel futuro. È un compito immane. Forse in Europa si trovano delle intelligenze politiche in grado di affrontare la questione. Non vorrei che fossimo presi in contropiede, come è stato per l’immigrazione, quando era prevedibilissimo che il fenomeno non si sarebbe fermato a poche decine di migliaia di unità. A questo proposito poi non ca­pisco la divisione che si fa tra quelli che vengono qui per fame, e che rimandiamo indietro, e quelli che sono rifugiati politici, che invece accogliamo. Forse la fame non è materia tale da poter giustificare una fuga dalla propria patria? Milioni di italiani non sono forse emigrati negli Stati Uniti o in Nord Europa in passato per sfamare i figli e la famiglia?

M. D’A. C’è una differenza giuridica ma effettivamente, dal punto di vista umano, non c’è differenza, e se non ci fermiamo nell’azione di distruzione del pianeta che stiamo portando avanti avremo sempre più persone che scappano per gli effetti del cambiamento climatico e della desertificazione.

A. C. Mi sembra pazzesco trovarmi di fronte a un presidente degli Stati Uniti che mentre i tornado devastano la sua terra, nega che ci sia il cambiamento climatico. Il compromesso raggiunto faticosamente a Parigi viene ributtato in aria. Noi stessi stiamo vivendo gli effetti del cambiamento climatico, come dimostra il caldissimo autunno di quest’anno. La gente che non può coltivare la terra che fa? Fugge a Nord. E noi non possiamo dirgli che non li accogliamo perché non sono perseguitati politicamente. È la stessa cosa.

A. C. Ma dimmi, Massimo, tu pensi che l’Europa reggerà a tutti questi strappi?

M. D’A. L’Europa, intesa come le istituzioni dell’Unione europea, regge perché nessuno ha il coraggio di smontare questo sistema, che ha portato comunque grandi vantaggi. Il problema vero, però, è se l’Europa avrà la capacità di rilanciare il suo progetto, di riprendere slancio. E su questo dubito di più perché non vedo una classe diri­gente europea che abbia la forza politica e il coraggio di decisioni forti. In fondo, quando Kohl decise di unificare la moneta tedesca dando ai tedeschi dell’Est un marco vero per ognuno dei marchi finti che avevano in tasca, prese una decisione che era contraria a ogni lo­gica economica ma che aveva la forza della politica e il coraggio della leadership. Era un investimento sul futuro: fare qualcosa che in quel momento non sembrava ragionevole ma che, garantendo la pace, ri­unificando la Germania, creava le condizioni per il futuro. Oggi una classe dirigente europea che abbia questo coraggio e questa visione io non la vedo. E questa è la debolezza dell’Europa, che sopravvive, con le sue istituzioni e le sue regole. Nessuno avrà il coraggio di uscire dall’euro perché sarebbe una follia, un suicidio. Tuttavia, ci sarà la forza di fare il salto di qualità? Perché così com’è l’Europa vivacchia. Ma questo non basta, non offre una prospettiva, soprattutto in un mondo nel quale tornano la politica di potenza e, fortissimi, il nazio­nalismo americano e russo. Se l’Europa non si unisce e non è in gra­do di proporsi come un grande soggetto politico rischia di diventare sempre più marginale, secondaria, una parte del mondo dove si sta bene, ci sono i musei, la cultura, i monumenti, visitata dai turisti, ma poco rilevante a livello internazionale. L’Europa è la più grande piat­taforma di valori che esiste nel mondo, quella dove si sono sviluppate le libertà civili e i diritti sociali nel modo più alto. Questo insieme di valori siamo in grado di metterlo al servizio dell’umanità? Altri­menti, inevitabilmente, i valori deperiscono. Ciò a cui assistiamo è proprio questo deperimento. Un certo modello americano di indi­vidualismo comincia a penetrare anche da noi perché si indebolisce la difesa data da quei valori. E progressivamente la società europea tende a uniformarsi a modelli che non sono i suoi. Questo è il rischio maggiore. Penso che la sinistra dovrebbe fare proprio, in un progetto di rinascita, il tema dell’unità europea. Non dovrebbe lasciarlo ad altri. Non dovrebbe ripiegare in una visione nazionalistica. Questo sarebbe un errore enorme. Ritornano persino le piccole patrie. Tutti abbiamo simpatia per la Catalogna, ma l’idea che possa diventare una nazione per conto suo è un’idea arcaica.

A. C. È un’idea che non hanno nemmeno i Catalani. Perché a guardare i risultati del referendum sono solo il 32% coloro che hanno votato sì. Non è un po’ pochino per proclamare l’indipendenza?

M. D’A. Sì, infatti quanti hanno proclamato l’indipendenza sono un gruppetto di avventurieri. Il paradosso della situazione in Spagna è che il conflitto è stato creato da due destre, i nazionalisti catalani, che sono la destra in Catalogna, e i nazionalisti spagnoli, che sono la destra spagnola, che hanno reagito con estrema durezza anziché apri­re un dialogo. Una soluzione poteva esserci nella forma di un dialogo che riconosca alla Catalogna una maggiore autonomia preservando l’unità nazionale della Spagna.

A. C. In questa situazione vedo prevalentemente uno scontro titani­co tra fesserie.

M. D’A. Ma tu te lo ricordi il tuo primo incontro con Manuel Vázquez Montalbán?

A. C. Fosti tu a farci conoscere. Mi telefonasti proponendo un in­contro. Lui aveva pubblicato “Cesare o nulla” e facemmo un primo incontro alla Festa dell’Unità. Era, credo, il 1995.

M. D’A. All’epoca ero segretario del partito, ma volli in quella occasione condurre il dialogo tra voi due. Ci fu un successo di pubblico clamoroso. Montalbán era iscritto al Partito Socialista Unificato di Catalogna, che erano gli eurocomunisti della Catalogna. E per questo l’avevo conosciuto: un uomo simpatico, con una travolgente passione per il buon cibo e per le donne. Diciamo che mentre il tuo Montalbano è un uomo fondamen­talmente casto, i suoi eroi erano dei gran puttanieri.

A. C. Dopo quella Festa dell’Unità ci siamo visti diverse altre volte. A Mantova, a Brescia. C’era anche l’idea di scrivere un romanzo in­sieme. Conservo ancora i dialoghi preparatori a questo romanzo. Ri­cordo bene la mattina in cui seppi della morte di Manolo. Eravamo rimasti d’accordo che ci saremmo risentiti al ritorno dal suo viaggio e invece quella mattina, entrando nel mio studio, appresi che era mor­to all’aeroporto di Bangkok. Mi assalì la malinconia. Avevo chiesto di non vedere nessuno. Non avevo voglia di mangiare. Verso l’ora di pranzo bussarono alla porta. Era il postino, con un pacco: l’ultimo libro di Manuel Vázquez Montalbán, intitolato “Happy end”. Ho pensato: «Manolo, messaggio ricevuto. Ciao».

M. D’A. Tu invece esageri un po’ con le sigarette, mi sembra.

A. C. In mia difesa, vostro onore, posso dire che fumo sigarette con il doppio filtro, e a metà le spengo. In realtà io sono un dissuasore del fumo, ribadisco sempre la stupidità di questo vizio, un’imbecil­lità a cui non riesco a sottrarmi. Un po’ di tempo fa, una mattina, alle 9:00, mia moglie entrò in studio quando erano già due ore che ero lì al lavoro. E mi chiese perché avessi rotto tutte le sigarette che avevo nel posacenere. Sigarette che ero convinto di aver fumato e che invece erano lì, spezzate senza essere state accese. Mi resi quindi conto che mentre scrivevo al computer pigliavo la sigaretta, provavo ad accenderla e mi convincevo di averla accesa, ma l’accendino non aveva gas. Io non me ne ero accorto. Non è che non ci vedessi. Non me ne accorgevo e basta. Avevo il portacenere pieno di sigarette non accese, ma io erano due ore che fumavo. Il che dimostra l’imbecillità e, al contempo, l’importanza del rituale della sigaretta.

M. D’A. Anche io, che sono stato in passato un fumatore, rispettavo il rituale della sigaretta, che si completava con il caffè qualche volta. Que­sto è tipicamente meridionale. La sigaretta, il caffè. Ma dimmi un po’, il cambiamento tecnologico ha cambiato qualcosa nel mestiere di scrittore?

A. C. Tante cose sono diventate più facili. Molte ormai si fanno sen­za muoversi di casa, lavorando con la rete, da remoto. Per me è stato così. Mi sono dovuto organizzare in un’altra cosa, invece, nel dettare. Perché quando scrivi tu direttamente basta alzare lo sguardo per ve­dere quello che hai appena finito di scrivere e quindi riesci a collegare con il periodo successivo. Non vedendo, questo non è più possibile farlo. Quello che viene detto vola via immediatamente. Allora mi sono organizzato facendo ricorso alla mia esperienza teatrale. Prima di cominciare a dettare mi organizzo i personaggi e me li vedo come se fossero in palcoscenico. Chi è sistemato seduto, chi in piedi, chi a destra, chi a sinistra. Metto così dei punti fermi da cui posso ripartire per scrivere la frase successiva. Naturalmente, dopo avere scritto tre o quattro periodi chiedo di rileggere così da riprendere il filo.

M. D’A. È un bell’esercizio. Tutto di memoria.

A. C. Ho ancora una buona memoria e invecchiando ho acquisito quella che Sciascia chiamava la “presbiopia della memoria”, per cui ti ricordi le cose di quando avevi cinque anni con una chiarezza e ricchezza di dettagli straordinaria. La cosa più atroce, invece, è non riuscire più a leggere, perché una cosa è quando leggi tu direttamen­te, e si instaura un rapporto tra te, la pagina e la parola che suona col tuo suono dentro di te. Diverso è quando altri leggono per te. Devo farmi leggere le cose e il fatto che la voce mi arrivi dalle orecchie e non siano gli occhi in diretto contatto dalla parola è una disdetta.

M. D’A. Questo perché tu usi una scrittura che è consustanziale alla tua voce. Perché tu usi un tuo linguaggio.

A. C. Altra cosa terribile è la perdita del colore. Allora io cerco di ripassarmi le immagini. L’altro giorno ho ripassato la Flagellazione di Piero della Francesca. Mi son ricordato che ci sono tre figure, che una di queste, quella centrale, ha il mantello candido, e così via. La mattina dopo ho chiesto di controllare e i colori corrispondevano. Non me li ero persi.