Tra i molti pregi che l’attività sindacale nella FIOM-CGIL ha per chi la svolge uno appare particolarmente significativo: il contatto con il mondo del lavoro permette di sottrarsi alle mistificazioni del senso comune liberista che, presentato come “buon senso”, da anni orienta gran parte delle scelte di politica economica e sociale ed è dominante nel dibattito pubblico. La condizione materiale dei lavoratori, l’interazione con le controparti imprenditoriali, i rapporti tra capitale e lavoro, le conseguenze delle cosiddette “riforme” (per i più il termine è ormai sinonimo di sventura) sulla vita delle persone con cui si hanno rapporti quotidiani mettono a nudo la realtà che la costruzione ideologica neoliberista ha prodotto, camuffandola da “modernizzazione”, in decenni di egemonia culturale e politica.
Nel dibattito politico-economico italiano si sta affermando l’idea, sbagliata se non caricaturale, che alla modernità corrispondano la fine del conflitto tra interessi diversi e contrapposti e il conseguente svuotamento della funzione di rappresentanza e mediazione tra questi. Applicate al mondo del lavoro, la disintermediazione e la disarticolazione delle forme di rappresentanza implicano non solo l’indebolimento generico dei lavoratori nei luoghi di lavoro, ma lo svilimento stesso del lavoro inteso come dimensione rilevante della libertà della persona nella sfera collettiva. Viene insomma messa in discussione l’idea che il conflitto possa uscire dai singoli luoghi di lavoro per esercitarsi nel condizionare, indirizzare, contestare le scelte del governo nel percorso di costruzione del futuro del paese.
I mutamenti economici, politici e sociali prodotti dalla globalizzazione impongono una ridefinizione del ruolo del sindacalismo confederale, che deve oggi confrontarsi con la sfida posta dalla trasformazione dell’individuo in soggetto e dalla conseguente constatazione che la rappresentanza collettiva è rappresentanza di persone e non più di moltitudini.