Il paradosso dell’invecchiamento attivo

Di Laura Bazzicalupo Venerdì 08 Giugno 2012 10:34 Stampa

Il 2012 è – in aggiunta a una serie di altri lodevoli dediche/obiettivi – anche l’Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni. L’espressione “invecchiamento attivo” incuriosisce e inquieta a un tempo: nel suo adeguarsi all’immaginario diffuso cela, come tutte le rappresentazioni performative, ombre e fantasmi che suscitano il nostro interesse.

Che cosa significa invecchiare attivamente? C’è un ossimoro in questa descrizione-prescrizione, rivolta a chi ha superato la sempre più incerta soglia tra l’essere adulti, maturi e l’essere vecchi.

La qualifica di vecchio è stata a lungo riferita – nel tessuto di identificazioni sociali del welfare tutte imperniate sulla centralità assoluta del lavoro – alla fuoruscita dal lavoro e alla pensione (pensione di vecchiaia, appunto), godimento del giusto riposo. Perciò stesso però insieme al riconoscimento del contributo dato alla produzione, vecchio era il marchio dell’accantonamento del soggetto non più produttivo, ininfluente nella vita vera, fruitore passivo della previdenza sociale. Qualificava dunque una fragilità biologica che marcava una posizione sociale marginale e diritti ruotanti attorno alla debolezza: doveri, oneri che il patto sociale assumeva verso la vecchiaia. Il vecchio era ripagato del lavoro svolto, ma anche accantonato nella grande area degli assistiti, non ancora o non più utili.

Vorrei sottolineare, di questa categoria complessa, l’evidenza radicalmente biopolitica: diritti e identificazioni soggettive – diversamente dai classici soggetti giuridici astratti – sono tutti e totalmente imperniati sul dato biologico: il bios è governato dalla politica e a sua volta la orienta. Questa è una svolta importante che segna l’inclinazione governamentale del potere nella tarda modernità. Ed è importante perché la logica che regge i dispositivi biopolitici è una logica economica (già nel welfare postbellico lo era) orientata da saperi statistici, biomedici e manageriali e mirata all’efficienza, ai risultati, intesi prevalentemente come protezione della vita; una logica dunque diversa da quella politica dei diritti e della partecipazione, che mira all’espressione paritaria delle volontà e alla modalità democratica delle deliberazioni. Le vite, nella fattispecie quelle dei vecchi, in un assetto biopolitico devono essere “governate” in modo da essere protette, piuttosto che riconosciute nella loro istanza, paritaria, di partecipazione alle decisioni che le concernono. L’efficienza si ottiene attraverso percorsi tecnici nei quali saperi competenti ottimizzano i risultati riducendo i costi, non attraverso modalità deliberative paritarie. Il welfare è stato una forma ibrida: tra diritti democratici e gestione eteronoma e tecnica delle vite. La piega biopolitica ed economicista è coniugata con gli effetti delle lunghe lotte democratiche in termini di cittadinanza e di diritti, nella forma, appunto ibrida, dei diritti sociali. Tutto questo è noto ed è ormai storia passata, ma si tenga a mente, per un confronto con l’oggi, l’assetto eteronomo dell’assistenza, sia pur tutelato da diritti di cittadinanza.

Da trent’anni ormai è egemonico un discorso di verità che ha – come si disse nei primi anni Ottanta – rotto l’incantesimo del welfare, compromettendone ancor più che le prestazioni (indebolite dall’eccessiva pressione fiscale e dal peso della mediazione burocratica) l’ideologia o l’immaginario che lo sosteneva, erodendo così le identificazioni sociali e addirittura biologiche che quel blocco egemonico aveva prodotto. Decentralizzando il lavoro, sostituito da una nozione generale e generica di agency autonoma, certamente più seduttiva del lavoro dipendente e servile, il mercato come luogo di scambi di merci, ma anche e soprattutto di prestazioni d’opera, di relazioni, di servizi, diventa lo spazio aperto – democratico! – dove ciascuno e tutti vendono e comprano ciò che sono in grado di creare, offrire o ottenere. Così la economicizzazione (peraltro emancipativa per tante donne) del lavoro di cura degli anziani, ma così anche la libertà di questi ultimi di accedere al mercato per acquistare compagnia, relazioni, emozioni, salute e prestanza prolungate. Una profonda rivoluzione culturale delle identificazioni sociali e delle soggettivazioni!

Cosa significa allora quello che per il welfare era un ossimoro: invecchiare attivamente?

Bisogna guardare all’uso apparentemente innocente e invece molto significativo della parola attivo, che rinvia all’agency, attività del lavoratore e poi pensionato trasformato in soggetto attivo, responsabile di sé, capace di investimenti su se stesso, che scambia la sua opera o il suo capitale nel mercato aperto della società. Agency ricca di potenzialità, ma inevitabilmente diseguale e obbligatoriamente “forte” nello scambio, o perché dotata di creatività, di saperi, di doti relazionali, o perché dotata di danaro per comprarli. Il dato biologico, in questa prospettiva, è centrale, ma deve necessariamente essere un dato di forza, un capitale incarnato nel soggetto, che, nell’avanzare dell’età, è stimolato a curare la propria efficienza e salute, la propria prestanza e potenza: mai vecchio, piuttosto solido, arrivato, dotato di danaro, potente. Le debolezze, che si suppone non possano non emergere con l’età che avanza, sono compensate dal potere economico raggiunto e dalla disponibilità di danaro. Senza alcun bisogno del patto di solidarietà e dei vischiosi legami che esso induce: è il legame-slegame della società neoliberale.

Si tratta, ripeto, di una metamorfosi che contiene potenzialità negative/ positive, ambigue a causa della sovrapposizione di una rappresentazione idealizzata e semplificante ormai divenuta senso comune.

L’espressione sulla quale stiamo ragionando – invecchiamento attivo – dunque non significa più soltanto lavorare più a lungo, andare in pensione più tardi: certo anche questo, ma non solo.

Si aprono prospettive non univoche, testimoniate anche da dati empirici molto differenziati relativi all’occupazione, al benessere, al mantenimento del domicilio, alla partecipazione sociale, alle attività comuni connesse all’invecchiamento nei contesti diversi. In ogni caso si conferma la pertinenza politica di questa nozione anomala all’interno delle tradizionali categorie formali della cittadinanza.

Se l’evoluzione demografi capone interrogativi alle organizzazioni politiche e al management “biopolitico” per gli effetti sui sistemi di assicurazione sociale e sul mondo del lavoro, a loro volta i cittadini maturano una coscienza condivisa che l’aumento della speranza di vita – espressione psicosociologica di grande effetto politico, ma poco formalizzabile in termini di diritti – implica un imperativo di auto responsabilizzazione: l’interesse di tutti e di ciascuno a dare senso e considerare in modo positivo e attivo questo pezzo di tempo vitale guadagnato rispetto alla morte. Il circuito del welfare legato a una visione della vecchiaia passiva, bisognosa di cure, fardello della solidarietà sociale, lascia il posto alla dinamica dell’assicurazione privata e alla responsabilità di autogoverno sulla propria vita biologica. Chiamati, prima di diventare vecchi, a investire in un futuro buono curando preventivamente la propria salute e rispettando la profilassi e l’igiene, due grandi categorie del governo biopolitico delle vite; chiamati, quando divengono vecchi, a non cessare la propria attività, prolungando al massimo il lavoro e quando questo divenisse impossibile, operando attivamente nel sociale, salvaguardando se stessi attraverso polizze personalizzate sui propri specifici rischi. Chiamati insomma a una responsabilità tutta individuale e personale sul proprio destino. Non c’è più un debito che la società contrae di fronte al lavoratore che si fa vecchio di fornirgli quello che a sua volta lui ha fornito alla generazione precedente. Ciascuno ha la sua vita e le sue potenzialità o capabilities e sta a ciascuno metterle a frutto.

Si avverte peraltro, in tutto questo, una paradossale impostazione pastorale, tanto più inquietante in quanto sorretta da un immaginario autonomistico: si parla di autonomia ma si intende che chi invecchia si debba affidare non più alla solidarietà pubblica, ma a expertise, competenze tecniche – dalla farmacologia alle agenzie di cura, alla gestione finanziaria dei fondi pensione – non controllabili dal singolo, e solo parzialmente controllate dal pubblico. Si parla di invecchiamento attivo e, al di là del brutale prolungamento dell’età lavorativa, viene fuori una gestione pseudo-autonoma della vecchiaia mediata da saperi ipertecnici che espropriano le decisioni. Viene meno completamente la partecipazione attiva e deliberativa degli interessati, che è il segno di un modus politico, democratico e non eteronomo di rapportarsi al bios.

Ovviamente cresce la diseguaglianza. La crisi ha reso visibili i fantasmi di quell’immaginario di eterni vincenti dove non è mai l’invecchiamento a venire in primo piano, ma sempre una prolungatissima efficienza biologica dei seniores, che giocano a tennis e frequentano donne fino all’età più avanzata, mimando in modo grottesco lo stereotipo del giovane. I vecchi, invece, sono vecchi: magari possono, se curati e se riconosciuti nella loro esperienza, mantenere un grado soddisfacente di relazionalità e di partecipazione, ma nel riconoscimento che la forma di vita declina nelle loro prestazioni fisiche, laddove acquisisce talvolta profondità, saggezza, ironia. D’altronde non sarebbe saggio ignorare la potenza liberatrice che c’è in quel mito di vita autogovernata. Chiunque vede avvicinarsi a gran passi la vecchiaia sa del terrore che prende quando si profila la dipendenza, la necessità di sottostare alle scelte di altri, l’umiliazione di essere considerati superflui e di vedersi erogare non ciò che si vorrebbe, ma cose – quando pure vengono date – che non sono state chieste, senza avere la forza di reclamare diritti sempre più evanescenti. Il mito della vecchiaia sempre differita – sostenuto da un mercato fiorentissimo di integratori alimentari, di palestre per anziani, nonché dalla proiezione fantasmatica su un leader vecchio ma iperpotente – ha sostenuto la trasformazione del governo della terza età. Per piegarsi oggi, sotto il peso della crisi, allo sgomento di dover prendere atto di una vulnerabilità del tutto privata di sostegni e di aiuti solidali. Invecchiamento attivo? La filosofi a politica non può che avanzare problematizzazioni e dubbi: il nostro compito è quello di smontare, decostruire il concetto e rimontarlo evidenziando i vettori di potere che lo determinano.

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