Le sfide europee del presidente Hollande

Di Roberto Gualtieri Venerdì 08 Giugno 2012 10:14 Stampa

Il recente successo elettorale di Hollande può costituire un punto di svolta per l’intero continente e l’inizio di un percorso per la costruzione di un’Europa diversa, dotata di maggiori strumenti e orientata alla crescita e alla coesione sociale. Si apre una partita delicata, il cui esito sarà decisivo per il destino dell’Unione europea.

L’elezione del secondo presidente socialista della Quinta Repubblica non costituisce solo un evento di grande rilievo nella storia francese, ma può rappresentare un momento di svolta per l’Unione europea e per la difficile crisi che l’ha investita. Se, infatti, François Hollande è riuscito nell’impresa di sconfiggere il presidente della Repubblica uscente, ciò è stato certo per l’impostazione tattica davvero magistrale della sua campagna (che gli ha consentito di costruire una solida alleanza a sinistra e, al tempo stesso, di recuperare consensi al centro), così come per i demeriti e gli errori di Sarkozy e per l’impatto della crisi economica e finanziaria. E, tuttavia, quello che appare come l’elemento centrale e il principale tratto distintivo della vittoria socialista è il ruolo inedito che in essa ha svolto il tema europeo. Al di là del loro contenuto tecnico, su cui torneremo più avanti, le parole d’ordine della “rinegoziazione del fiscal compact” e del “riequilibrio” delle politiche europee hanno avuto la capacità di “dialettizzare” su un terreno tutto politico il rapporto con l’UE e di offrire una prospettiva di governo, credibile proprio perché non più soltanto nazionale, al disagio economico-sociale e allo smarrimento culturale indotti dalla crisi e dal repentino rafforzamento dei vincoli europei alle politiche di bilancio che essa ha determinato.

Nel referendum del 2005 sul Trattato costituzionale europeo, il Partito Socialista era uscito lacerato e indebolito proprio dalla spaccatura interna tra i sì e i no, che aveva aperto la strada al successo di Nicolas Sarkozy nelle presidenziali del 2007. Mentre quest’ultimo, infatti, aveva aperto la strada al successo di Nicolas Sarkozy nelle presidenziali del 2007. Mentre quest’ultimo, infatti, aveva proposto di “rinegoziare” il Trattato bocciato dagli elettori, per approvare un nuovo testo privo di riferimenti di natura “costituzionale” e capace di meglio tutelare dai rischi di dumping sociale, a causa delle irrisolte contraddizioni interne emerse con il referendum Ségolène Royal non aveva saputo offrire una visione credibile e coerente dell’Europa e del suo futuro. Sette anni dopo, il segretario socialista di allora (e principale esponente del fronte interno per il sì al Trattato costituzionale) ha ribaltato lo schema perdente Europa sì/Europa no, rovesciando quella contraddizione sul suo avversario (stretto tra il populismo di Marine Le Pen e l’europeismo di Bayrou, ma anche di settori importanti del suo partito) e facendo della battaglia per un’Europa diversa, dotata di maggiori strumenti ma orientata alla crescita e alla coesione sociale, uno degli elementi fondamentali della sua campagna e uno dei principali fattori del carattere espansivo della sua proposta politica.

L’iniziativa di Parigi “Renaissance pour l’Europe”, promossa dalla Foundation for European Progressive Studies (FEPS) insieme alle Fondazioni Jean Jaurès, Friedrich Ebert e Italianieuropei, costituisce un esempio emblematico di questa operazione e della volontà di Hollande di misurarsi in termini nuovi con la questione europea. Se, infatti, Sarkozy ha preferito rinunciare al promesso appoggio di Angela Merkel, il candidato socialista ha accettato di portare nel cuore della sua campagna elettorale il dialogo con i principali leader progressisti europei. In questo modo, l’opportunità di dare un respiro continentale alla sua proposta europea, mostrandone la dimensione sovranazionale, il carattere condiviso e lo spessore realistico, è stato ritenuto un obiettivo strategico, da perseguire anche correndo l’inevitabile rischio di un confronto potenzialmente dissonante, e quindi utilizzabile dall’avversario, con leader e partiti vincolati da contesti nazionali diversi da quello francese. Nonostante questo elemento abbia impedito di fare esplicitamente riferimento alla rinegoziazione del fiscal compact nel documento sottoscritto dalle Fondazioni, la dichiarazione di Parigi ha consentito di definire i contorni di un progetto comune dei progressisti europei, fondato non su un generico appello all’Europa sociale, ma su un insieme di proposte puntuali che definiscono il quadro di un vero governo economico europeo orientato alla crescita, alla solidarietà e alla democrazia.1

Nonostante l’evidente inadeguatezza della linea di rigore perseguita su impulso del governo tedesco, il deterioramento della situazione economica europea e il suo impatto sulla campagna elettorale americana abbiano progressivamente allargato il fronte dei sostenitori di un mutamento di indirizzo delle politiche dell’UE, rendendo sempre meno isolata la posizione di François Hollande, la sfi da della rinegoziazione del fiscal compact e del riequilibrio della governance economica europea si presenta assai complessa e insidiosa. Il primo nodo riguarda la questione dei tempi. L’introduzione, nel 2000, del quinquennato al posto del settennato e la successiva anticipazione delle elezioni presidenziali rispetto alle legislative attuata nel 2002 hanno rafforzato la figura del presidente e favorito la sua capacità di costruirsi una maggioranza, riducendo le possibilità della coabitazione. Allo stesso tempo, però, ciò ha fatto dell’elezione del presidente la prima parte di una lunga campagna elettorale, priva di sostanziale soluzione di continuità, che si concluderà solo il 17 giugno.

I socialisti partono con ogni evidenza favoriti e, tuttavia, la vittoria di misura di Hollande (che ha ottenuto il 28,6% dei voti validi al primo turno e il 51,62% al secondo) rende l’appuntamento delle legislative molto delicato e non scontato nell’esito. Hollande lo affronta con un governo che vede rappresentate tutte le anime del partito (oltre ai radicali di sinistra e ai verdi), ma per il quale egli ha scelto la guida non di Martine Aubry, bensì del suo fedelissimo (oltre che capacissimo) Jean-Marc Ayrault, capogruppo uscente all’Assemblea nazionale e popolare sindaco di Nantes. L’assenza della Aubry è, in qualche modo, compensata dalla nomina di Laurent Fabius, nel 2005 capofi la nel partito dei sostenitori del no al referendum sul Trattato costituzionale, al ministero degli Esteri, dove era previsto l’arrivo dell’europeista (ed ex sostenitore di Dominique Strauss-Kahn) Pierre Moscovici, che invece è stato nominato ministro dell’Economia. Tuttavia, la mancata attribuzione a Fabius del ruolo di “segretario di Stato” e la più generale tendenza in atto negli Stati membri dell’UE alla marginalizzazione dei ministri degli Affari esteri nella gestione della politica europea (avocata direttamente dal capo dell’esecutivo e con un ruolo sempre più determinante dei ministri dell’Economia e degli Affari europei) consente di interpretare la nomina al dicastero dell’Economia di Moscovici (che è stato il direttore della campagna elettorale di Hollande) come il segno più evidente del forte profilo europeista di un esecutivo che conta ben quattro deputati europei tra i ministri e che vede in Moscovici (a sua volta deputato a Strasburgo nella precedente legislatura) l’uomo chiave nella delicata partita della “rinegoziazione” del fiscal compact.

Tuttavia, il governo potrà rimanere inalterato nella sua composizione e considerarsi pienamente operativo solo se le urne gli daranno in Parlamento una corrispondente maggioranza, il cui conseguimento costituirà quindi, fino al 17 giugno, il principale obiettivo di Hollande. Il mancato accordo tra il Partito Socialista e i partiti raggruppati nel Fronte di sinistra riguardo alle candidature uniche nelle circoscrizioni in cui la sinistra rischia di non andare al ballottaggio mostra che, come era prevedibile, il PS punta a una maggioranza autosufficiente (e, specularmente, che il Fronte di sinistra vuole essere determinante), ma proprio per questo è difficile immaginare scelte definitive sul versante europeo da parte di Hollande prima delle elezioni. D’altronde, proprio l’annunciata sostituzione dei ministri che non risulteranno eletti nei rispettivi collegi potrebbe avere ripercussioni non secondarie sul profilo e sulla composizione dell’esecutivo, visto che tra i ministri che si dovranno misurare con una elezione non scontata (essendo candidati in circoscrizioni in cui alle presidenziali Sarkozy ha battuto Hollande) ci sono fedelissimi del presidente, come Stéphane Le Foll, Aurélie Filippetti e, soprattutto, Pierre Moscovici.

In attesa di vedere se le elezioni legislative daranno a Hollande e al Partito Socialista una maggioranza autosufficiente e se la compagine di governo risulterà confermata, è dunque difficile determinare il carattere e l’esito della sfida europea del nuovo presidente francese. In occasione dell’evento parigino organizzato dalla FEPS e dalle altre Fondazioni progressiste, Hollande ha chiarito alcuni aspetti politici e procedurali della sua sfi da sulla “rinegoziazione” del fiscal compact, affermando che avrebbe bloccato la ratifica del Trattato in assenza di un suo completamento nella direzione della crescita. Effettivamente, nonostante per l’entrata in vigore del fiscal compact siano necessarie, sulla carta, solo dodici ratifiche, si tratta di una posizione negoziale efficace se a prenderla è un paese come la Francia, soprattutto dopo il rafforzamento delle spinte alla crescita negli altri paesi europei, che stanno inducendo a rinviare il voto parlamentare sul trattato fiscale, e alla luce del fatto che la stessa Merkel non può procedere alla ratifica senza il concorso dell’SPD. Restano, però, da precisare il contenuto delle misure per la crescita e la solidarietà, che saranno oggetto del negoziato con Berlino e con Bruxelles, e la forma politico-istituzionale che Hollande e i suoi alleati vorranno dare loro.

Per quanto riguarda il primo aspetto, nella bozza di memorandum per i leader dell’UE circolato informalmente all’indomani dell’elezione di Hollande figuravano quattro punti: il rafforzamento del ruolo (e l’aumento del capitale) della BEI, i project bond, la tassa sulle transazioni finanziarie (Financial Transaction Tax, FTT) e un utilizzo più finalizzato alla crescita dei fondi strutturali e del bilancio dell’Unione. Si tratta di obiettivi importanti e, al tempo stesso, realistici. Tuttavia, di fronte al precipitare della crisi, resta da vedere se essi da soli sarebbero in grado di determinare un arresto della spirale recessiva. La proposta di project bond avanzata dalla Commissione e su cui è stato raggiunto l’accordo tra Parlamento e Consiglio costituisce, infatti, un semplice “progetto pilota” volto a finanziare con titoli europei un fondo di garanzia per gli investimenti privati, che, pur rappresentando un’importante innovazione, ben difficilmente potrà avere un impatto macroeconomico apprezzabile. A sua volta, l’idea di utilizzare meglio i fondi strutturali potrà arrecare dei benefici, che, tuttavia, non saranno particolarmente rilevanti in assenza di un aumento, ad oggi assai improbabile, del bilancio per il 2013 (oltre che del successivo quadro pluriennale 2014-20), anche a causa dell’annunciata carenza di risorse per i pagamenti dei progetti già avviati. Infine, se alcuni paesi si oppongono alla ricapitalizzazione della BEI (che peggiorerebbe la situazione dei loro conti pubblici), occorre sapere che, poiché le procedure di armonizzazione fiscale richiedono l’unanimità mentre il Regno Unito si ostina al veto, la FTT, nell’attesa di una svolta politica a Londra, potrà verosimilmente essere realizzata solo mediante una procedura di cooperazione rafforzata o attraverso provvedimenti “gemelli” nei diversi paesi dell’eurozona e, quindi, senza la copertura della piazza di Londra (dove avviene il 75% delle transazioni finanziarie europee) e senza la possibilità di utilizzare direttamente le sue risorse per alimentare il bilancio dell’UE, come invece prevede la proposta della Commissione su cui il Parlamento europeo ha appena espresso il suo parere positivo.

Per rilanciare la crescita potrebbe, quindi, divenire necessario affiancare al rafforzamento della BEI l’introduzione di una qualche forma di golden rule, che scorpori una parte degli investimenti dal Patto di stabilità, come richiesto dal governo italiano e dal gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo: un obiettivo ambizioso, che costituirebbe una effettiva revisione del fiscal compact e che attualmente appare molto osteggiato sia dal governo tedesco che dalla Commissione europea; è probabilmente per questo motivo che Hollande non lo ha sinora menzionato pubblicamente. A sua volta, una manovra anticiclica fondata sul rilancio degli investimenti pubblici renderebbe necessario il rafforzamento sia dei meccanismi di stabilità per la gestione della crisi dei debiti sovrani (attraverso l’istituzione di un Fondo per la redenzione del debito che sostituisca una parte del debito europeo con eurobond) che del ruolo di “prestatore di ultima istanza di fatto” della BCE (che appaiono entrambi, peraltro, sempre più urgenti per far fronte al deteriorarsi della situazione greca e alla crisi delle banche spagnole). Nel Consiglio europeo informale del 23 maggio Hollande ha lanciato con forza la proposta di eurobond, mostrando al tempo stesso una cauta apertura nei confronti di Monti sulla golden rule, mentre alla vigilia del vertice la bozza di memorandum è stata ufficialmente ritirata. Al di là del prevedibile duro scontro con la Merkel che ciò ha determinato, è evidente che la vera e propria trattativa non è ancora iniziata e che occorrerà attendere le elezioni legislative francesi (e anche quelle greche) per una effettiva definizione della piattaforma di Hollande della “rinegoziazione”.

L’altro aspetto cruciale è quello politico-istituzionale. In sostanza, occorre vedere se Hollande privilegerà l’idea di un growth compact, ossia di una integrazione del fiscal compact sul suo stesso terreno (cioè quello intergovernativo), ad esempio attraverso un protocollo aggiuntivo da allegare a esso, o se verrà scelta la strada di un growth pack, ossia di un pacchetto di misure legislative dell’UE volte a emendare e integrare il quadro normativo attuale come definito da ultimo dal cosiddetto six pack (cioè il pacchetto di regolamenti e direttive che, nel novembre 2011, ha riformato il Patto di stabilitàrafforzando considerevolmente i meccanismi di controllo preventivo e di correzione della disciplina di bilancio). Graziesoprattutto all’azione svolta dalla Commissione e dal Parlamento europeo nel corso dei negoziati, il fiscal compact (che, giuridicamente, è un trattato internazionale esterno al sistema giuridico dell’UE) ha finito per limitarsi a prescrivere dei particolari meccanismi attuativi di norme già definite a livello della legislazione dell’UE. Proprio per questo, esso può essere di fatto emendato anche senza modificarne il testo, ma solo le corrispettive norme del diritto dell’UE; nel momento in cui scriviamo, un tentativo in tal senso, che punta a inserire in due nuovi regolamenti sulla disciplina e la sorveglianza di bilancio attualmente in discussione (il cosiddetto two pack) proprio la golden rule sugli investimenti e il Fondo per la redenzione del debito, è in atto da parte del gruppo SD al Parlamento europeo. Al di là del possibile contenuto di un growth pack, la questione della natura giuridico-istituzionale del negoziato sulla crescita è assai meno bizantina di quanto possa apparire e investe la prospettiva, i caratteri e il tasso di legittimazione democratica di un futuro governo economico europeo. Anche per questo, la sfida lanciata da Hollande per una svolta della politica economica dell’UE è assai impegnativa e al contempo aperta a risultati differenti. Dai suoi caratteri e dal suo esito dipenderà probabilmente non solo il futuro politico della seconda presidenza socialista di Francia, ma anche il destino dell’intera costruzione europea.


[1] Il testo della dichiarazione è disponibile su www.italianieuropei.it.
Acquista la rivista

Abbonati alla rivista