Il “mio” Paolo VI: a margine della canonizzazione

Di Paolo Corsini Venerdì 16 Novembre 2018 12:10 Stampa


Molteplici sono le suggestioni che papa Paolo VI ha esercitato su di me. Ormai giunto alla soglia che conduce alla terza età, forse per­ché subisco la fascinazione della nostalgia, torno con rimpianto alla stagione degli anni Sessanta. Stagione che la mia generazione ha vis­suto tra sogni e speranze, entusiasmanti illusioni e cocenti smentite. Ebbene, la pubblicazione, il 26 marzo del 1967, della “Populorum progressio”, ha costituito per me allora, e continua a rappresentare oggi, l’espressione più significativa del magistero di un papa che si misura con l’impatto del Vangelo con la storia, con le condizioni po­ste alla Chiesa per una presenza efficace nel mondo contemporaneo. La giustizia, l’annuncio della “buona novella” ai poveri come cardine dell’evangelizzazione in un tempo, antecedente l’età post secolare, in cui inizia ad affermarsi il paradigma della modernità, soprattutto come mondanizzazione, come profezia che sembra autoadempiersi: lo spazio del sacro, del religioso destinato a restringersi, sino a scom­parire a fronte della pretesa di una piena autonomia del soggetto ormai svincolato da ogni rinvio alla trascendenza.

Significativo che per molti della mia generazione, quella nata subi­to dopo la guerra, formatasi in stagioni in cui il contesto religioso, l’educazione alle pratiche di culto, l’interiorizzazione dell’esperienza della fede hanno giocato un ruolo di indubbio rilievo, la pubblicazio­ne di un libro come quello di Sabino Acquaviva, “L’eclissi del sacro nella civiltà industriale”, abbia assunto il valore di una provocazio­ne non solo intellettuale, ma persino esistenziale e nel contempo di stimolo a un impegno di attualizzazione del proprio vissuto di cre­denti. Ebbene, sono molteplici i registri sui quali è possibile leggere il pontificato di Paolo VI a partire dal suo magistero e dalla scelta fondamentale per la storia della Chiesa, e non solo, di portare a com­pimento il Concilio Vaticano II, nonché di porre il proprio sigillo a innovazioni di straordinaria portata: il “popolo di Dio” in cammi­no, la collegialità episcopale nel governo della Chiesa, l’ecumenismo come espressione di fraternità, il riconoscimento del diritto alla liber­tà religiosa e della laicità dello Stato, il ripudio dell’antisemitismo, il rinnovamento liturgico, l’utilizzo della lingua volgare come sostegno all’inculturazione della fede a livello planetario, il dialogo con “l’intera famiglia umana”. E si po­trebbe continuare.

Un pontificato, quello di Montini, sul quale, so­prattutto a motivo della recente canonizzazione, la storiografia è ritornata a riflettere, sottolinean­done il rilievo per la storia della Chiesa e dello stesso secondo Novecento, nonché sottraendolo a una sorta di sottovalutazione dovuta al fatto che esso si situa tra quelli di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, due papi che, pur con fisio­nomia e profili diversi, comunque giganteggiano nella vicenda contemporanea. Peraltro, la stessa immagine di un Paolo VI incerto e amletico, come vuole una oleo­grafia di maniera la quale scambia per fragilità il travaglio interiore, la ricerca intellettuale, la finezza culturale, la trepidazione in più oc­casioni manifestata, subisce perentorie smentite, oltre che dalle scelte concretamente compiute, anche da nuove acquisizioni documentarie recentemente portate alla luce.

Lucida, infatti, è in Paolo VI la percezione che «il mondo cambia in fretta, la Chiesa pure. Non bisogna essere in ritardo come talvolta». Così a uno degli ecclesiastici suoi collaboratori alla vigilia della pub­blicazione della “Populorum progressio”. La consapevolezza, quasi un assillo, di attraversare un’età di “tempeste e transizione” accompa­gna il papa sino alla conclusione dei suoi giorni, allorché nel giugno del 1978, dunque a poche settimane dalla scomparsa, ricapitola in una sorta di rivisitazione autobiografica gli aspetti salienti del pro­prio «ufficio (...) quello stesso di Pietro», tornando a sottolineare con insistenza che «il mondo cambia (…): cultura, costumi, ordinamen­ti, economia, tecnica, efficienza, bisogni, politica, mentalità, civiltà. Tutto è in movimento, tutto è in fase di mutamento (...) un golpe di qua, una rivoluzione di là». Montini non ne deriva tuttavia una disposizione al pessimismo e, per quanto non sottaccia a se stesso che la Chiesa sia alle prese con una «accentuata tendenza critica in ogni campo, filosofico, esegetico, etico, economico, disciplinare, so­ciale, politico». Piuttosto ribadisce la necessità di fare affidamento sulla «libertà dalle indebite e altrui suggestioni» e, soprattutto, su di una indefettibile fedeltà a Cristo. Fondamentale l’intuizione che per recuperare un rapporto con il moderno la Chiesa debba ricentrare il proprio messaggio e la propria presenza sul “progresso dei popo­li”. Se per quel che è sostanzialmente riconducibile alla sfera dell’au­todeterminazione del soggetto nelle scelte della propria vita, papa Montini vive un rapporto con la modernità di indubbia tensione – valga particolarmente il riferimento alla “Humanae vitae” –, nel caso dell’enciclica sulle condizioni persino tragiche che dividono Nord e Sud del mondo, sul divario sempre crescente tra paesi industria­lizzati e quelli del sottosviluppo, tra aree dell’opulenza e aree della miseria, il messaggio è dirompente, di valenza epocale nel momento in cui dà voce a una Chiesa «esperta in umanità». Una Chiesa che vuole proclamare la sua «verità su Cristo e sull’uomo, applicandola a una situazione concreta». La denuncia dei meccanismi dello scambio ineguale, degli squilibri da essi prodotti; la proclamazione che i beni debbano essere universalmente destinati; la sollecitazione alla ricerca di nuovi equilibri nella guida dei processi economici e nella alloca­zione delle risorse; la valorizzazione del lavoro da associare «all’opera redentiva di Cristo»; la disoccupazione come ferita al diritto-dovere di ogni persona di collaborare al mistero creativo di Dio, la pace «opera della giustizia» e l’impegno della Chiesa per uno sviluppo integrale dell’uomo; una Chiesa «povera e dei poveri» abilitata ad ascoltare la loro collera, e farsi paladina dei diritti umani: sono tutti temi che il papa sottrae al loro contesto antimoderno, non più richia­mandoli per ribadire un immobile ordine sociale cristiano, piuttosto per sollecitare il popolo di Dio, nel tempo della «nuova cristianità perduta», a vivere compiutamente la fedeltà a Cristo con l’apporto di un originale contributo di idee e di opere da intraprendere senza indugi. Nel segno di quel «fermento evangelico» che «ha suscitato e suscita nel cuore umano un’esigenza incoercibile di dignità» in vista di un «umanesimo plenario e planetario».

Dirimente è dunque la determinazione a procedere dal basso, dal vis­suto concreto di una deprivazione materiale e di una indigenza spi­rituale e non invece dall’alto, dai sistemi dottrinari, nel segno di una svolta teologico-antropologica che supera la tradizione della polemi­ca antimoderna coltivata dalla Chiesa e non più compatibile tanto con la realtà contemporanea quanto con una rinnovata coscienza missionaria, evangelicamente motivata. Non, quindi, l’adesione a una sorta di mito regressivo e neoromantico, piuttosto un giudizio critico su di un «sistema che considera il profitto come motore essen­ziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto senza limiti, né obblighi sociali corrispondenti». Analisi, denunce, linee di orientamento che l’enciclica di Montini propone a tutti gli «uomini di buona volontà» affinché colgano i segni dei tempi e che, in un’età in cui ancor più inasprite sono le con­traddizioni affrontate dal papa, continuano a costituire un perento­rio richiamo, fungendo da stimolo a mantenere fecondo il rapporto tra fede e storia. Come oggi testimonia papa Francesco. A maggior ragione in un tempo come il nostro nel quale, cadute per fallimen­to le grandi narrazioni, che comunque hanno sollevato domande e problemi largamente irrisolti, si viene affermando una ideologia che intronizza il presente, occultando ogni speranza di umanizzazione del futuro in nome di un egoismo acquisitivo e di un individualismo spesso anomico rispetto ai quali il magistero di papa Montini conti­nua a costituire una irrinunciabile riserva di criticità, un giacimento di valori, lo stimolo a un pervicace impegno di cambiamento nel segno, appunto, del progresso dei popoli.

C’è un secondo momento, tra i tanti, nel quale ho guardato a Paolo VI con profonda affezione: quando il papa, che sempre mi ha stimo­lato sotto un profilo intellettuale per la finezza della sua elaborazione teologico-dottrinale – pure in occasione di sue prese di posizione as­sai severe e critiche in rapporto a scelte politiche in passato anche da me assunte quali l’ingresso di autorevoli esponenti cattolici nelle liste elettorali del PCI, seppure da indipendenti, nel mio caso l’iscrizione al partito – ha fatto sentire alta la sua voce di fronte al rapimento di Aldo Moro e all’eccidio della sua scorta, sino all’orazione al funera­le dello statista democristiano brutalmente assassinato dalle Brigate Rosse. Non è questa la sede per ricostruire le molteplici iniziative, la fitta rete di relazioni, i tentativi promossi in sede vaticana al fine di contribuire alla liberazione dalla “prigione del popolo” dell’onore­vole Moro. Se ne è occupata ampiamente una pubblicistica che ha focalizzato la propria attenzione sui giorni che intercorrono tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, nonché la stessa Commissione parla­mentare d’inchiesta, di cui nella scorsa legislatura ho fatto parte, che al tema ha dedicato alcune audizioni, approfondendolo poi nelle re­lazioni finali dei lavori. È comunque largamente documentata l’azione di papa Montini intrapre­sa su diversi piani, peraltro non tutti appariscen­ti o, come comprensibile, di rilievo pubblico. Qualcuno ha addirittura parlato di “strategia del silenzio”, vale a dire limitare al massimo le ester­nazioni e, di contro, agire, seppure con grande riservatezza.

Il pontefice è mosso anzitutto da un sentimen­to di personale amicizia verso il leader della DC, che risale alle frequentazioni ai tempi del­la FUCI e certamente si sente in sintonia con i valori che sostanziano la cultura politica, di im­pronta cattolico-liberale e cattolico-democratica, di Aldo Moro. Valori secondo i quali Montini è cresciuto a partire dall’educazione famigliare – il padre Giorgio è deputato del PPI sturziano – e dalla formazione poi ulteriormente irrobustita nella frequentazione dei padri filippini dell’oratorio bresciano della Pace tra i quali spicca­no, fra gli altri, il cardinale-parroco Giulio Bevilacqua e il vescovo di Crema Carlo Manziana, figure di vertice della spiritualità italiana del Novecento. D’altra parte Paolo VI si pone in continuità con la tra­dizione della Santa Sede di stare in prima linea allorquando si tratta di compiere azioni umanitarie. Espressione di questa linea il corsivo dell’“Osservatore Romano” che interpreta l’orientamento montinia­no ribadendo come «il dolorosissimo caso dell’onorevole Moro non può lasciare indifferente la Santa Sede (…). In anni recenti (…) non sono state poche le occasioni in cui (…) il Santo Padre in persona [ha] interposto opera per la soluzione di casi, singoli o collettivi che coinvolgono persone umane violate nei diritti fondamentali».

La presenza di Montini nel caso Moro assume però ulteriori signifi­cati di più generale portata, che illuminano la personalità del papa e la sua visione del rapporto tra etica e Stato, la sua concezione stessa della civiltà umana. Come noto, dopo l’appello lanciato il 2 aprile da Regina Coeli in cui lascia intravedere una volontà di interme­diazione – «noi rivolgiamo tuttavia agli ignoti autori del terrificante disegno un appello vivo e pressante per scongiurarli di dare libertà al prigioniero» –, Paolo VI il 22 aprile fa pubblicare sull’“Osservatore Romano”, quando l’ultimatum delle BR sta per scadere, una lettera aperta ai rapitori in cui, rivolgendosi a «voi, uomini delle Brigate Rosse» – «io non vi conosco e non ho modo di avere alcun contatto con voi (…). Vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente senza condizioni» –, invoca un «vittorioso sentimento di umanità» e si congeda con un «pur sempre amandovi». In sostanza Paolo VI si spinge a un’umiliazione personale – lui che è il vicario di Cristo – sino a sottolineare un rapporto di evangelica fraternità e di amore cristiano verso dei terroristi e degli assassini, lasciando trasparire – nella citazione del «contatto» – l’interesse a una inter­locuzione diretta, ad allacciare una qualche forma di rapporto. La stessa sottolineatura «senza condizioni», oggetto di molte valutazioni e spesso fraintesa come una richiesta ultimativa, allineata alle posizioni più intransigenti e contra­rie a ogni forma di trattativa, vuole fare intende­re – qui una sopravvalutazione dell’intelligenza dei suoi interlocutori e una sottovalutazione del grado della loro ideologizzazione – che non agi­sce per conto dello Stato italiano – «io non ho al­cun mandato nei suoi confronti» – e quindi non può interferire sullo scambio di prigionieri proposto dalle BR. Un appello, quello del papa, che si pone, dunque, oltre il dibattito tra fermezza e trattativa e il cui fulcro sta nella sottolineatura del primato della vita, della dignità della persona, dell’essere umano sulla «ra­gione rivoluzionaria» e «sulla ragione di Stato»: «liberate l’onorevole Moro (…) in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità». Un richiamo alla «forza della vostra coscienza» ribadito afferman­do che «un vero progresso sociale (…) non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore». Come a dire che la democrazia non ha alternative ed è forma insuperabile della regolazione del conflitto. In sostanza papa Paolo VI interpre­ta il tragico evento che vede in Aldo Moro una vittima sacrificale come un banco di prova della sua visione della “civiltà dell’amore”, come opportunamente è stato osservato da Fulvio De Giorgi, il più autorevole biografo di Montini. Una metamorfosi della politica in violenza e sopraffazione quando rinuncia a essere «forma più alta ed esigente della carità». Una definizione della politica e nel contempo la sottolineatura del dover essere sulla quale Paolo VI è tornato in più di un’occasione. Ma c’è di più. Il 13 maggio in occasione delle esequie di Stato, del «funerale della Repubblica», papa Montini pro­nuncia un’orazione memorabile, una preghiera appunto, di timbro esclusivamente personale, religioso, ma capace di interpretare uno sgomento diffuso, un lutto nazionale, di dar voce al dolore di un intero popolo, di ribadire l’unità del paese. L’intensità della figura del pontefice, la sua figura di profeta biblico che, rivolgendosi diret­tamente al Signore, lo chiama in causa – «Tu o Dio della vita e della morte (...), Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro» – fa da contrasto con l’immagine di impotenza e vacuità della politica presente in San Giovanni in Laterano. E come ha avuto modo di osservare Nilde Iotti denota una «vera e propria egemonia spirituale». E ai miei occhi suggella di una sacralità auten­ticamente umana il ricordo che ancora coltivo di papa Montini.