Il grand malaise della sinistra francese

Di Aldo Cazzullo Lunedì 09 Gennaio 2017 16:49 Stampa

La Gauche francese vive un momento di grande difficoltà, di cui la rinuncia di Hollande a ricandidarsi per la presidenza è solo il più eclatante e recente segnale. Il rischio concreto è che non riesca ad arrivare al ballottaggio e che i suoi elettori siano costretti a scegliere, per l’elezione del prossimo presidente, tra la destra popolare di François Fillon, la destra populista di Marine Le Pen e l’astensione. Quella del Partito Socialista Francese è una crisi grave, che va inquadrata nel contesto più ampio della crisi della sinistra mondiale, considerata a torto o a ragione da una parte crescente dell’elettorato corresponsabile dell’impoverimento provocato in Occidente dalla globalizzazione. E in quello del “grand malaise” di un paese che non riconosce più se stesso e la propria identità. Che sente di non contare più nulla e di non essere più nulla.

 

È la prima volta che un presidente della Quinta Repubblica francese rinuncia a ricandidarsi di propria volontà. Se François Hollande è giunto a questo punto, appare evidente che la crisi della Gauche è grave davvero.

«La sinistra non è fatta per governare; è fatta per gestire i sogni e le frustrazioni di chi entra in fabbrica a sedici anni e ne esce a sessanta» diceva André Frossard, figlio di uno dei fondatori del Partito Comu­nista Francese, nei giorni del 1993 in cui i socialisti di François Mit­terrand subivano una disastrosa sconfitta elettorale, che – insieme con le accuse mai provate di corruzione – spingeva il primo ministro Pierre Bérégovoy al suicidio.

Ovviamente la definizione di Frossard, che aveva svoltato a destra e teneva una rubrica su “Le Figaro” intitolata “Cavaliere solitario”, è riduttiva e ingenerosa. Ma gli appuntamenti della sinistra francese con il potere si sono spesso risolti in delusione e prove di impotenza. Mitterrand andò all’Eliseo con un programma di cambiamento ra­dicale. “Vivere altrimenti” era il suo slogan. Si parlava apertamente di superamento del capitalismo. Nei primi due anni attuò un pro­gramma di nazionalizzazioni che trasformò di fatto il sistema france­se in un’economia mista. Poi, dopo la drammatica crisi valutaria del marzo 1983, il presidente si affidò al piano di Jacques Delors: sva­lutazione del franco, tagli alla spesa pubblica; anche Parigi rientrava nei ranghi del “pensiero unico” monetarista, in un mondo percorso dal liberismo reaganiano e thatcheriano. Nel 1986 i socialisti perse­ro la maggioranza all’Assemblea nazionale, nonostante una riforma elettorale proporzionale che attenuò le dimensioni della sconfitta ma aprì le porte del Parlamento agli estremisti di destra di Jean-Marie Le Pen. Due anni dopo Mitterrand riuscì a tornare all’Eliseo, sconfig­gendo al ballottaggio Jacques Chirac e affidando la guida del governo al suo storico rivale Michel Rocard; ma il secondo settennato non è ricordato come il migliore.

La Gauche torna al potere a sorpresa nel giugno 1997: un anno dopo la vittoria dell’Ulivo in Italia, un mese dopo quella di Blair a Londra, un anno prima di quella di Schröder a Berlino. A Lionel Jospin, primo ministro in difficile coabitazione con Chirac (non a caso i due si accordarono per ridurre da sette a cinque anni il mandato presi­denziale, per evitare coabitazioni future), si deve l’ultimo tentativo di trasformazione della società. Le 35 ore dovevano essere l’inter­vento legislativo in grado di imporre un principio ampiamente con­diviso nell’era del lavoro fungibile: lavorare meno per lavorare tutti. Non hanno funzionato, anche se neppure Sarkozy le ha smantellate (promette oppure minaccia di farlo ora François Fillon). Nel crudele aprile del 2002 Jospin fu eliminato al primo turno da Le Pen; quasi per espiare, al ballottaggio gli elettori di sinistra, che al primo turno si erano divisi tra il gollista rosso Chevènement, il postino trotzkista Besancenot e la rivoluzionaria Laguillier, non fecero mancare un voto a Chirac.

Nel 2012 le presidenziali segnarono più una sconfitta di Sarkozy che una vittoria di Hollande. La “rupture” promessa da un presidente più agitato che dinamico, più nervoso che energico, più autoritario che autorevole non c’era stata. O forse i francesi, tutto sommato affezio­nati a uno Stato costoso ma efficiente, non la volevano davvero. Fatto sta che Sarkozy rimontò negli ultimi giorni, ma non abbastanza. Hollande è salito all’Eliseo con propositi ambiziosi: redistribuzione del reddito, anche attraverso la leva fiscale, con un’aliquota massima al 75%, tipo Unione Sovietica; aumento del potere d’acquisto; lotta alla disoccupazione. Presto ha capito che l’unico modo per arrivare ai suoi obiettivi era uno “choc liberale”, aggettivo quasi impronunciabile per la sinistra francese, per alleggerire le imprese dal fardello della burocrazia: una logica che ha ispi­rato anche la sua controversa riforma del lavoro, imposta al Parlamento senza un voto. La Quinta Repubblica non è una Repubblica parlamentare. I suoi meccanismi consentono al governo di fare quasi quello che vuole. Ma i governi di Hollan­de hanno perso molto presto la sintonia con il paese. Anche perché il maggioritario a doppio turno funziona bene per semplificare un quadro sostanzialmente bipolare; ma ormai in Francia i poli sono tre. E il ballottaggio, che consente di individuare un vincitore, crea una torsione tale da aprire inevi­tabilmente una distanza tra il Palazzo e i cittadini. Soprattutto se a Palazzo siede un uomo dal carisma vacillante.

Hollande ha scelto come primo ministro un suo amico, Jean-Marc Ayrault. Poi, di fronte a sondaggi sempre più negativi, si è affidato al leader della destra del partito, l’energico Manuel Valls. Questo ha provocato una rottura con l’ala sinistra, guidata da Arnaud Monte­bourg – che ora sfida Valls alle primarie di gennaio – e dalla sua com­pagna Aurélie Filippetti. Sullo sfondo, le perplessità dei “dinosauri”, in particolare di Martine Aubry, figlia di Delors ma decisamente più radicale del padre.

A complicare ulteriormente il quadro, Hollande e Valls hanno af­fidato le Finanze a Emmanuel Macron, un uomo che si definisce orgogliosamente “non di sinistra”: non a caso, dopo essersi costruito un forte profilo mediatico, Macron ha abbandonato il governo per candidarsi direttamente all’Eliseo, senza passare dalle primarie socia­liste. Tenuto conto che i Verdi non hanno rinunciato a presentare il proprio candidato al primo turno, e che Jean-Luc Mélenchon – il leader del Front de Gauche appoggiato anche dai comunisti – sarà regolarmente in corsa, nulla di più facile che la Gauche non sia pre­ sente al ballottaggio, e che i suoi elettori al secondo turno debbano scegliere tra la destra popolare di François Fillon, la destra populista di Marine Le Pen, e l’astensione.

Ma come si è giunti a tanto? La crisi dei socialisti francesi va inqua­drata in un contesto. Che è quello della crisi della sinistra mondiale, considerata a torto o a ragione da una parte crescente dell’elettorato corresponsabile dell’impoverimento provocato in Occidente dalla globalizzazione. Ed è quello del “grand malaise” di un paese che non riconosce più se stesso e la propria identità. Che sente di non contare più nulla e di non essere più nulla.

Non è un caso che, a ogni elezione, vinca l’opposizione. Nel 1981 il socialista Mitterrand sconfigge Giscard. Nel 1986 i socialisti per­dono la maggioranza all’Assemblea nazionale e di conseguenza la guida del governo: primo ministro diventa Chirac. Nel 1988 Chi­rac è nettamente battuto da Mitterrand. Nel 1993 il PS riperde la maggioranza: primo ministro è Balladur. Nel 1995 Balladur (al cui fianco si schiera lo scalpitante Sarkozy) è eliminato al primo turno dal redivivo Chirac, che al ballottaggio sconfigge Jospin. Nel 1997 Jospin va al governo; ma nel 2002 finisce nel modo ignominioso che abbiamo detto, e con la rielezione plebiscitaria di Chirac. Ma nel 2007 la Francia si affida all’uomo che Chirac detesta più al mondo: Sarkozy. Non a caso, nel 2012, il vecchio presidente farà sapere di aver votato Hollande.

La Gauche è dentro questa dinamica. Ed è za­vorrata da altre difficoltà. A cominciare dal suo ritardo storico nel fare i conti con la realtà. Mit­terrand non era certo un estremista, veniva dai governi liberalsocialisti della Quarta Repubblica, a lungo gli vennero rinfacciate le esecuzioni dei patrioti algerini quand’era ministro della Giusti­zia e degli Interni; però costruì la sua vittoria del maggio 1981 su suggestioni marxiste di trasfor­mazione della società. Jospin riunificò la sinistra con la formula della Gauche plurielle, che includeva il partito comunista più dogmatico dell’Occidente, proprio negli anni in cui Blair e Giddens teorizzava­no la Terza via. Hollande ha oscillato tra sistemi e slogan discordanti. È stato sin dall’inizio impopolare. Paradossalmente, il suo indice di gradimento è risalito nelle ore più drammatiche: gli attentati contro Charlie Hebdo (7 gennaio 2015), il Bataclan (13 novembre 2015) e sulla Promenade des Anglais a Nizza (14 luglio 2016). Ma nessun uomo politico può costruirsi una statura solo con le disgrazie. In Africa la Francia socialista si è mossa bene, schierando l’Armée in difesa dei diritti umani e a protezione dei tesori di Timbuctù, ricon­quistata alle milizie islamiste. Ma la politica mediorientale di Hol­lande, nei giorni in cui l’ISIS si riprende Palmira, appare velleitaria e pericolosa, incapace sia di stroncare le milizie del sedicente Stato Islamico, sia di garantire la sicurezza interna.

Ora tocca a Valls. Personaggio interessante. Un francese mediterra­neo: di origini catalane, parla perfettamente l’italiano. Un profilo simile a quello della sindaca di Parigi, Anne Hidalgo. Rispetto a lei, però, Valls è considerato più a destra. Da ministro dell’Interno si è presentato come rigorista. Da primo ministro ha insistito sull’in­compatibilità tra le due sinistre, quella riformista di governo e quella radicale d’opposizione. Ora però dovrà tentare di riunirle o almeno di riavvicinarle, sottraendo voti a Mélenchon, per avere una chance di arrivare al secondo turno. Contro Marine Le Pen vincerebbe; con­tro Fillon probabilmente perderebbe. Ma in queste condizioni essere rappresentata al ballottaggio, per la Gauche, sarebbe già un successo.