La formazione degli insegnanti nella scuola che cambia

Di Elisabetta Nigris Giovedì 24 Settembre 2020 15:39 Stampa
La formazione degli insegnanti nella scuola che cambia ©iStockphoto.com/PeopleImages

Ragionare sulla formazione dei docenti richiede un pensiero e una vi­sione articolata e strategica, capaci di promuovere una scuola intesa come agenzia educativa a partecipazione universalmente condivisa, potenzialmente capace di raggiungere tutti, indipendentemente dalle proprie origini socioeconomiche e culturali, dalle proprie caratteristi­che personali così come dai propri valori. Come affermano Beatrice Ligorio e Clotilde Pontecorvo, infatti, «la scuola è prima di tutto un luogo culturale che da una parte rispecchia la società e dall’altra la mo­della. Non può limitarsi a svolgere un ruolo di mero contenitore di in­formazione, di trasmissione di conoscenze acquisite e definite, ma deve essere occasione per ripensare criticamente la cultura e offrire occasione per un avanzamento sia personale che culturale»1 a tutti e a ciascuno.

A fronte di questa sfida, purtroppo, i dati relativi alla scuola del nostro paese ci parlano di una realtà un po’ diversa, in cui il fenomeno della dispersione scolastica presenta un impatto ancora molto elevato: se i dati europei più aggiornati2 mostrano un valore medio del 10,6% re­lativamente ai 18-24enni che hanno abbandonato prematuramente la scuola (indicatore ELET), l’Italia occupa la quart’ultima posizione con una percentuale del 14,5%, subito prima di Romania, Malta e Spagna.3 Il fenomeno dell’abbandono si sovrappone e/o si intreccia con quello dei low skill learners e dell’analfabetismo funzionale, che risulta sempre più pressante nel contesto italiano.4 Considerando questi dati da una prospettiva più ampia, si può affermare che la scuola italiana ha visto in questi ultimi decenni diminuire l’interes­se degli studenti nei confronti dei contenuti proposti, che vengono percepiti come molto distanti dal mondo esperienziale degli allievi e da quelle che vengono definite le loro “enciclopedie”; allo stesso modo gli studenti percepiscono una forte estraneità rispetto alle mo­dalità con cui i contenuti vengono presentati loro, tendenzialmente cattedratiche, astratte e decontestualizzate, tanto da apparire sempre meno idonee a interloquire con le modalità comunicative e con gli stili di apprendimento dei giovani.5

Nel manuale statunitense “Research on Teachers and Teaching”,6 Margaret LeCompte riflette sul fatto che il progressivo attacco al si­stema pubblico da parte delle sempre più diffuse riforme neoliberiste ha indotto un disinvestimento ormai palese sulla qualità della scuola pubblica. «We submit that abandoning the idea of high quality pub­lic education for all would be a civic tragedy and a socio-economic disaster».7 Come afferma Ira Vannini: «tale rischio non è lontano dai sistemi scolastici europei e, anche in particolare, dal nostro stesso paese; ed è proprio all’interno di questo contesto sociale e politico che va pensata (o ri-pensata) la ricerca sulla professionalità docente e la formazione degli insegnanti».8 L’epidemia Covid-19 ha eviden­ziato questi limiti e queste contraddizioni mettendo «la scuola e gli insegnanti di fronte a scenari inaspettati e difficili» e ha chiamato tutti a trovare, e in breve tempo, nuove modalità del “fare scuola” nell’emergenza. Le difficoltà riscontrate e le proposte estremamente diversificate degli insegnanti, dalla costruzione di percorsi originali e non trasmissivi a basso impatto digitale, al solo invio di schede, hanno evidenziato ancor di più a scuole chiuse quanto la formazione dell’insegnante rappresenti un elemento di diseguaglianza nella ga­ranzia del diritto allo studio, che si aggiunge a quelli strutturali della scuola e delle politiche scolastiche (tempo pieno, numero di alunni per classe, attribuzione delle risorse, grado d’inclusione delle pratiche scolastiche, netta separazione fra i diversi cicli ecc.).9
Queste considerazioni richiedono un ripensamento del ruolo della scuola e della professione dell’insegnante in quanto i docenti, con la loro professionalità, vanno a costituire una comunità di apprendi­mento, grazie alla quale si può generare da un lato innovazione e qualità, dall’altro lato partecipazio­ne e condivisione rispetto alle scelte pedagogiche e formative da parte di tutti i soggetti coinvolti. Se vogliamo che la scuola diventi un’organizza­zione che apprende (learning organization) capa­ce di far leva, al suo interno, su soggetti consa­pevoli del proprio ruolo e direttamente coinvolti e responsabili dei processi dell’organizzazione stessa,10 allora dobbiamo ribadire che le risorse umane costituiscono il patrimonio più impor­tante di ogni organizzazione, poiché da esse può dipendere il successo o l’insuccesso.

Non a caso, l’OCSE11 chiede all’Italia di aumen­tare gli investimenti in programmi educativi ca­paci di tradursi in proposte didattiche diversificate che rispondano ai bisogni formativi di tutti gli studenti e non solo di quelli con maggiori possibilità cognitive e culturali. Naturalmente tale richie­sta impone un ripensamento del ruolo della scuola, della professio­ne dell’insegnante e, più in generale, del ruolo della cultura nella vita dei giovani, a partire da un’analisi delle disfunzioni del sistema educativo del nostro paese. Più specificamente già dall’anno 2013, una delle raccomandazioni della Commissione europea all’Italia in materia di istruzione e formazione mette in relazione la lotta all’ab­bandono scolastico con la necessità di promuovere maggiormente la formazione continua dei docenti, auspicando un maggiore sforzo «per scongiurare l’abbandono scolastico e migliorare qualità e risulta­ti della scuola, anche tramite una riforma dello sviluppo professionale e della carriera degli insegnanti».12

Molti dei paesi europei hanno cercato di rispondere alle raccoman­dazioni della Commissione europea, dove si chiede di «sostenere gli insegnanti e i dirigenti scolastici per raggiungere un ottimo livello di insegnamento e di apprendimento» e garantire dunque la qualità e la coerenza della formazione degli insegnanti. A fronte della risposta dei diversi paesi europei, come sottolinea Carlo Cappa, «le specificità del contesto italiano evidenziate dai due recenti volumi del rappor­to OECD-TALIS devono essere oggetto di grande attenzione. Nel­la “Country Note” italiana estratta dal volume del 2019 troviamo una sottolineatura della minore diffusione di pratiche didattiche che implichino l’attivazione cognitiva degli studenti e della scarsa pro­pensione a favorire l’autovalutazione (30% in Italia, 41% TALIS). È facile collegare questo dato alla minore presenza, nella formazione iniziale, di un costante intreccio tra contenuti disciplinari, scienze dell’educazione e tirocinio (64% in Italia, 79% TALIS). Solo il 25% degli insegnanti in Italia – TALIS 42% – inoltre, dichiara di aver partecipato a pratiche formali o informali d’inserimento formale o informale al momento del reclutamento. Praticamente inesistente, per di più, la figura del mentor (5%) per chi è all’inizio della carriera (meno di cinque anni di servizio)».13 Peraltro, il nostro paese, di fat­to, raccogliendo un lunghissimo dibattito internazionale del secondo Novecento, è arrivato solo nel 1990 ad avere una legge (la 341) che garantisse a tutti gli insegnanti una formazione all’insegnamento di tipo universitario. Tale formazione ha potuto prendere avvio solo nel 1999 con le Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario (SSIS), poi trasformate nel 2010 nei percorsi di Tirocinio Formativo Attivo (TFA), che hanno portato – pur con tanti aspetti da miglio­rare e le molte disparità fra le diverse sedi in Italia – gli insegnanti secondari a interrogarsi finalmente su come costruire le loro compe­tenze professionali. Queste esperienze hanno rappresentato un labo­ratorio di un inedito e proficuo dialogo fra docenti delle discipline e docenti delle aree pedagogico-didattiche. Come afferma Massimo Baldacci: «entrambi questi modelli, infatti, sono caratterizzati da una impostazione organica, che tiene conto delle diverse dimensioni della professionalità del docente e cerca di svilupparle attraverso un siste­ma capace di promuovere un rapporto unitario fra teoria e prassi».14

È grave però che, dopo questo percorso virtuoso, ci si sia trovati a mettere in discussione quanto era stato conquistato così faticosa­mente allo scopo di allinearsi con le aree più avanzate d’Europa: se, infatti, per ora viene garantita e difesa ancora la preparazione iniziale dei docenti della scuola dell’infanzia e primaria, l’orizzonte relativo alla formazione degli insegnanti della scuola secondaria rimane con­fuso e contradditorio. «La concezione complessa della professionalità docente è legata al superamento di immagini parziali dell’insegnante: come mero esperto dei contenuti, o come puro tecnico della didattica. Ci si è resi conto che la docenza implica una plu­ralità di competenze: culturali (relative ai saperi disciplinari); didattiche (inerenti alle metodolo­gie d’insegnamento); relazionali (concernenti il rapporto con gli alunni), e altre ancora. Diamo un cenno a queste competenze».15

In particolare, se entriamo nello specifico delle competenze che l’insegnante è chiamato a svi­luppare, anche proprio in relazione al quadro prima descritto inerente gli abbandoni e l’insuc­cesso scolastico che caratterizza il nostro sistema scolastico, la ricerca TALIS suggerisce di prepara­re gli insegnanti a lavorare in contesti multicul­turali, di multilinguismo e con livelli di abilità diverse, a partire già dalla formazione iniziale. La ricerca ci mostra inoltre come i risultati degli studenti siano correlati alle competen­ze docimologiche degli insegnanti.16 Infine, molta attenzione viene posta sul clima di classe e sull’importanza della formazione dei docenti nella gestione delle dinamiche relazionali (fra insegnanti e allievi, fra gli allievi o fra i docenti e le famiglie), mentre TALIS mostra come poco più della metà degli insegnanti italiani dichiari di non sentirsi preparato nell’ambito della gestione della classe. Queste sono alcu­ne delle evidenze dalle quali far emergere possibili raccomandazioni per un approccio sistemico e organico alla formazione insegnante. Quello su cui è necessario interrogarsi è come sia possibile rispon­dere a queste esigenze di formazione se la formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria è stata cancellata durante il ministero Bussetti, e se lo sviluppo professionale continuo è definito per legge come un “dovere professionale” degli insegnanti, ma non esiste un numero minimo di ore obbligatorie. Se si unisce questo elemento all’altro, molto noto, dell’età avanzata della nostra classe docente, il quadro si fa preoccupante e al tempo stesso mette in luce il ruolo cruciale svolto dalla formazione dei nuovi insegnanti, così come la centralità della formazione in servizio. Come sottolinea Giuseppe Bagni: «La formazione in servizio ha vissuto negli anni Ottanta e No­vanta un momento di crescita molto visibile (evidenziato anche dalle indagini), ma sta segnando fortemente il passo rappresentando uno degli indicatori più allarmanti delle ricadute negative che la politica scolastica in corso sta producendo e produrrà nei prossimi anni. La priorità oggi è la costruzione di un sistema nazionale di formazione iniziale e continua capace di attivare quel «processo attraverso il qua­le si sviluppano e si organizzano la ricerca e l’innovazione educativa, garanzia di costante miglioramento della dinamica tra insegnamento e apprendimento. È solo questo processo che connota le scuole come centri di ricerca e di sperimentazione».17

In particolare, diventa dunque sempre più urgente la progettazione di percorsi universitari di formazione iniziale «organici e finalizzati a sviluppare la professionalità docente, che contrastino la frammen­tarietà e provvisorietà dell’offerta formativa rivolta agli insegnanti, futuri e in servizio, che potrebbe giovarsi, sia di maggiore attenzione alla fase di avviamento alla professione e di uno scambio stabile con le istituzioni scolastiche accoglienti, sia della definizione di standard minimi per garantire un monitoraggio in itinere e una valutazione degli esiti di tali percorsi».18

Il valore aggiunto determinato dall’individuare nell’università l’alveo preferenziale per la pianificazione e l’implementazione di tali percorsi potrebbe essere collegato a doppio filo con la necessità di fornire, al futuro insegnante, una familiarizzazione che potrà offrire utili stru­menti per individuare soluzioni originali e appropriate per i problemi professionali che gli si pongono dinanzi quotidianamente.19 «Non si auspica con questo di fare di tutti gli insegnanti dei ricercatori, bensì di renderli protagonisti autonomi della propria crescita professiona­le, impegnandosi per l’ottimale risoluzione di un itinerario di ap­prendimento centrato sulla rilevazione dei livelli di partenza, sull’a­nalisi degli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere, sulle evidenze prodotte dalla ricerca nel settore, sullo sviluppo delle capacità cogni­tive e tecnico-strumentali funzionali a intervenire efficacemente nel contesto di insegnamento-apprendimento e da ultimo aprendosi a un confronto sistematico sulla documentazione dei risultati del pro­prio agire educativo. Elemento determinante nel ripensamento alla formazione iniziale è quello riferito al rapporto tra università e scuola che incroci anche la formazione in servizio».20

Percorsi di formazione iniziale incentrati sul rapporto tra università e scuola, come mostra l’esperienza di Scienze della formazione pri­maria, sono in grado costruire sinergie virtuose con la formazione in servizio (attraverso il tirocinio dei futuri insegnanti, il rapporto con i tutor accoglienti e i tutor coordinatori e, in generale, attraverso un confronto continuo con il mondo della scuola) che contribuiscono all’innovazione delle pratiche scolastiche.

Come viene evidenziato dal numero di ottobre 2019 dell’“American Research Educational Journal” risulta strategico e decisivo, per la co­struzione della professionalità insegnante, lavorare sulla fase di inse­rimento a scuola (induction), che la ricerca indica come la più delica­ta e centrale: molte ricerche ci mostrano che – secondo il fenomeno del cosiddetto washing up –, la preparazione e le competenze acqui­site durante la formazione iniziale vengono ad annullarsi (a essere “sciacquate via”) se i neoassunti non sono adeguatamente sostenuti e monitorati durante i primi anni a scuola. In particolare, Simon Veenman ha coniato l’espressione “shock da realtà”21 per definire il processo secondo il quale i neo insegnanti, una volta sul campo, ab­bandonano quanto hanno imparato nella loro precedente esperienza formativa universitaria.

Le maggiori cause volte a spiegare il manifestarsi di questo fenomeno sono:22 a) il Feed-forward problem, ossia la resistenza nell’esporsi a determinati apprendimenti in fase di formazione iniziale, per poi lamentarne, una volta in servizio, una scarsa promozione in fase for­mativa.23 Tale processo è dovuto al fatto che, durante gli anni di formazione, gli studenti non percepiscono nelle teorie apprese un supporto cognitivo ed emotivo funzionale alla futura pratica didat­tica; b) l’incapacità di prendere decisioni efficaci in situazioni nelle quali non si ha tempo per pensare (problem finding; problem posing). La pratica dell’educazione implica, infatti, azioni e decisioni che gli insegnanti apprendono molto velocemente, così come rapida e im­mediata è l’interpretazione di quanto sta accadendo nella situazione specifica. Questo modo di procedere è molto differente dalla cono­scenza astratta e generale presentata durante la fase di formazione iniziale.24 Tale difficoltà fa riferimento alla condizione di semi pro­fessionalità dell’insegnante, sempre in bilico tra il dover rispondere a indicazioni prescrittive e operare in autonomia, libertà e responsa­bilità.25

Proprio nella sua capacità di riconoscere e valorizzare la parte vitale del sistema scolastico e sostenere gli insegnanti che stanno contri­buendo a un ripensamento della scuola, nella prospettiva della learn-ing community, la dimensione della formazione iniziale e continua deve essere vista come aspetto intrinseco e imprescindibile dello svi­luppo professionale che costruisce un processo innovativo da rimet­tere in movimento.


 

[1] M. B. Ligorio, C. Pontecorvo, La scuola come contesto, Carrocci, Roma 2013, p. 14.

[2] Eurostat, Early leavers from education and training, 2019, disponibile su ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Early_leavers_from_education_and_training.

[3] Ibid.

[4] MIUR, Gli alunni con cittadinanza non italiana. A.S. 2016/2017, marzo 2018, disponi­bile su www.miur.gov.it/documents/20182/0/FOCUS+16-17_Studenti+non+italiani/be4e2dc4-d81d-4621-9e5a-848f1f8609b3?version=1.0. Con analfabetismo funziona­le, Alberici distingue i diversi livelli di competenza che separano le persone appena ca­paci di leggere e scrivere (analfabeti di base) da quelle che padroneggiano tali capacità in misura insufficiente rispetto agli standard richiesti dalla società contemporanea. Si veda A. Alberici, Imparare sempre nella società della conoscenza, Mondadori, Milano 2002.

[5] D. T. Willingham, Perché agli studenti non piace la scuola?, UTET, Torino 2018.

[6] L. J. Saha, A. G. Dworkin (a cura di), International Handbook of Research on Teachers and Teaching, Part One, Springer international, New York 2009.

[7] M. LeCompte, Trends in research on teaching: an historical and critical overview, in L. J. Saha, A. G. Dworkin (a cura di), op. cit., p. 51.

[8] I. Vannini, Introduzione, in G. Asquini, La Ricerca-Formazione. Temi, esperienze, pro­spettive, FrancoAngeli, Milano 2018, p. 15.

[9] A. D’Auria, G. Cavinato, Formazione iniziale degli insegnanti: l’araba fenice, in M. Baldacci, E. Nigris, M. G. Riva, Il problema della formazione degli insegnanti, Franco­Angeli, Milano 2020, in corso di stampa, pp. 58-67.

[10] V. Grion, Insegnanti e formazione: realtà e prospettive, Carocci, Roma 2008, pp. 15- 16.

[11] OCSE, Education at a Glance 2016, OCSE, Parigi, disponibile su dx.doi. org/10.1787/eag-2016-en.

[12] Talis 2013 Results: an international Perspective on Teaching and learning, OCSE, Pari­gi, disponibile su dx.doi.org/10.1787/9789264196261-en.

[13] F. Cappa, Gli insegnanti e la loro formazione iniziale: prolegomeni tra istituzione e sapere, in M. Baldacci, E. Nigris, M. G. Riva, op. cit., p. 43.

[14] M. Baldacci, Quale modello di formazione del docente. Ricercatore e intellettuale, in M. Baldacci, E. Nigris, M. G. Riva, op. cit., p. 31.

[15] M. Baldacci, op. cit.

[16] R. J. Marzano, Classroom Assessment and Grading that Work, Association for Supervision and Curriculum Development, Alexandria 2006.

[17] G. Bagni, Sulla formazione dei docenti, in M. Baldacci, E. Nigris, M. G. Riva, op. cit., pp. 24-26.

[18] G. Agrusti, Il protagonismo dei futuri insegnanti nei processi di sviluppo professionale all’università, in M. Baldacci, E. Nigris, M. G. Riva, op. cit., p. 15.

[19] G. Mialaret (a cura di), Introduzione alle scienze dell’educazione, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 145.

[20] G. Agrusti, op. cit.

[21] S. Veenman, Perceived Problems of Beginner Teachers, in “Review of Educational Rese­arch”, 54/1984, pp. 143-78, disponibile su doi.org/10.3102/00346543054002143.

[22] B. Balconi, Beginning Teachers: difficoltà e bisogni formativi, in P. Magnoler, A. M. Notti, L. Perla (a cura di), La professionalità degli insegnanti: la ricerca e le pratiche, Pensa Multimedia Editore, Lecce 2017, pp. 103-28.

[23] R. V. Bullough, J. G. Knowles, N. A. Crow, Emerging as a teacher, Routledge, Lon­dra 1991; Katz e altri, Program Evaluation and Program Development in Teacher Edu­cation: A Response to, in “Journal of Teacher Education”, 1/1981.

[24] F. A. J. Korthagen, P. A. M. Kessels, Linking Theory and Practice: Changing the Peda­gogy of Teacher Education, in “Educational Researcher”, 1/1999.

[25] F. Erdas, Didattica e formazione. La professionalità docente come progetto, Armando Editore, Roma 1991.