L’economia circolare, quello che serve. Un piano verde per l’Italia

Di Rossella Muroni Mercoledì 02 Ottobre 2019 08:01 Stampa
L’economia circolare, quello che serve. Un piano verde per l’Italia Acquarello di Emanuele Ragnisco

L’economia circolare, la vogliamo veramente? Direi di sì. Dobbia­mo dire di sì. È quello che serve per trasformare l’attuale modello economico, che punta al consumo delle risorse, in un modello che le risorse invece non soltanto le recupera ma prova anche a usarle in modo più razionale.

Oggi, la prima emergenza mondiale è rappresentata dai cambiamenti climatici. Una sfida per salvaguardare la vita del pianeta, per come l’ab­biamo conosciuto finora. Una sfida che ognuno di noi, nel suo picco­lo, può contribuire a vincere. Ebbene, l’economia circolare può essere lo schema migliore, forse l’unico da applicare in un’ottica più ampia di sviluppo sostenibile; perché soltanto con l’intreccio dell’ecologia con l’economia si può riuscire a rispondere alle richieste della società, a dissolvere le crisi in atto, come quella dei migranti (sempre più spesso profughi ambientali, persone senza più terra e acqua), ad abbattere gli alti e spessi steccati delle diseguaglianze. Ed è per questo che il nostro paese deve finalmente, e obbligatoriamente, mettere al centro della sua azione la crisi climatica come vera emergenza sociale ed economica.

I cittadini sono pronti: la loro sensibilità è anni luce avanti rispetto alle dichiarazioni di intenti che la politica prova a lanciare di volta in volta, pensando che l’ultima sia quella buona. Basterebbe mettere in fila una serie di misure non più rinviabili. A cominciare, ad esempio, in modo concreto, da un pacchetto di misure ad hoc che dovranno trovare il giusto spazio nella stesura della prossima legge di bilancio. Misure che potrebbero innescare, davvero, tutta la filiera industriale dell’economia circolare. Ci sono dei punti da cui non si può prescin­dere, e che sono contemplati in un piano che può essere in grado di accendere la miccia dell’economia circolare, tenendo fermo il princi­pio, dal respiro europeo, del “chi inquina paga”. Partiamo da una corretta gestione dei beni pubblici per non “stressa­re” le risorse naturali e garantire un sano equilibrio del territorio; si va dal tema delle concessioni (autostrade e aeroporti, che sono nella discussione pubblica oggigiorno: e allora perché non avere pedag­gi autostradali che premiano le auto che hanno basse emissioni di CO2? E perché non cogliere l’occasione per fare di Alitalia la prima compagnia ecologica dei cieli a livello mondiale?) a quello dell’atti­vità estrattiva delle cave (che dovrebbero avere un canone minimo in tutto il paese), alle spiagge (per onorare con un giusto prezzo le concessioni balneari), alle acque minerali, fino all’eliminazione di tutte le esenzioni dalle royal­ties sulle trivellazioni.

L’economia circolare, come detto, non spreca le risorse e soprattutto punta sul recupero delle materie prime, per reimmetterle nel ciclo pro­duttivo. Una questione a cui l’Italia deve prestare molta attenzione dal momento che è un paese storicamente povero di materie prime, e che già nel tempo – grazie alle capacità e all’ingegno no­strani – ha imparato a recuperare, ad esempio, con l’industria cartacea e con quella tessile.

Il capitolo principale – in questo eco-piano – ovviamente spetta alla gestione dei rifiuti; un tema che, dopo il via libera europeo alle nuove misure, è diventato un elemento essenzia­le anche per giudicare la bontà dell’amministrazione politica terri­toriale. Una specie di termometro in grado di misurare la qualità di sindaci e governatori. Una virtuosa gestione dei rifiuti – pensata come una scala discendente che prima di tutto punti alla riduzione della produzione della spazzatura, poi al recupero, al riuso, e al ri­ciclo – deve porre al suo servizio “mille impianti”. Mille impianti di quelli “buoni”, che non significa termovalorizzatori o discariche ma, ad esempio, impianti in grado di metabolizzare l’organico per farne fertilizzante per i nostri campi, o apparati che dagli scarti di lavorazione della depurazione possano generare biogas e biometano per nuovi mezzi di trasporto (che, guarda un po’, già circolano sulle nostre strade).

Se dovessimo definire il nostro paese sulla base della gestione dei rifiuti dovremmo dirci ritardatari, confusi, incapaci di mettere in si­ curezza le nostre eccellenze e di risolvere i problemi. Un paese che potrebbe eccellere in economia circolare e che invece, pur potendo vantare alcuni primati nel settore, non ha ancora raggiunto il di­saccoppiamento tra crescita economica e crescita dei rifiuti. Lo cer­tificano ISPRA e SNPA con l’edizione 2019 del “Rapporto rifiuti speciali”.1 In Italia aumenta la produzione di rifiuti speciali: nel 2017 sfiora i 140 milioni di tonnellate, quasi il 3% in più rispetto al 2016, crescono soprattutto gli speciali non pericolosi (+3,1%) mentre quel­li pericolosi restano pressoché stabili (+0,6%, ossia 60.000 tonnella­te). Il paese anche in questo settore è leader nel riciclo, con un +7,7% della quantità di rifiuti speciali avviata al recupero di materiali e un –8,4% di quella mandata a smaltimento. Il recupero di materia, arri­vato al 67,4% del totale gestito, è la forma prevalente di gestione dei rifiuti speciali. I numeri ci dicono che l’Italia deve recuperare terreno sul fronte della prevenzione dei rifiuti e accelerare la transizione verso un modello di sviluppo circolare, in cui si consumano meno risorse ed energia e dove gli scarti di un’impresa diventano la materia prima di un’altra. Obiettivi che possono essere utilmente perseguiti gra­zie all’ecodesign – ovvero attraverso la progettazione di prodotti che arrivati a fine vita possano essere disassemblati e le cui componenti possano essere riutilizzate – e con forme di fisca­lità ambientale che penalizzino lo smaltimento in discarica rispetto alla prevenzione e al riciclo.

Ma soprattutto vanno emanati rapidamente i cosiddetti decreti End of waste (EOW) che defi­niscono quando e secondo quali criteri un rifiuto smette di essere qualificato come tale per poter essere riutilizzato come materia prima secon­da. E proprio questo è il tasto dolente. Perché l’economia circolare è un fronte avanzato su cui le imprese, almeno quelle che guardano al futuro, sono presenti e ri­spetto al quale è la politica a essere in ritardo. Attualmente esiste una norma assolutamente inadeguata, adottata dalla scorsa maggioranza, che nelle more dell’adozione di linee guida nazionali da parte del ministero dell’Ambiente riporta in capo alle Regioni le autorizzazio­ni per gli impianti EOW per il recupero dei rifiuti e che soprattutto blocca gli investimenti e l’innovazione. La misura fa infatti riferi­mento al decreto ministeriale del 5 febbraio 1998 e successivi, senza tenere conto di quanto è successo negli ultimi vent’anni in questo paese in termini di innovazione e di brevetti. Un ritardo che rivela un problema culturale. Sull’End of waste non si riesce a normare, tanto che ancora mancano i criteri per molti materiali, però il Parlamento ha già avviato due indagini conoscitive: la prima per far conoscere ai legislatori questo settore, la seconda per indagare sui falsi End of waste. Che è un po’ come dire che nasce prima la truffa dell’origi­nale. Una situazione a sua volta figlia della cultura del sospetto che pervade un pezzo del mondo ambientalista e che purtroppo si salda alla diffidenza, più giustificata, con cui i cittadini guardano all’arrivo di nuovi impianti sul territorio.

E qui arriviamo a un’altra caratteristica fondamentale dell’economia circolare: richiede consenso sociale. Peccato che la politica abbia da tempo rinunciato a essere l’arte della mediazione tra interessi diversi, e che nella campagna elettorale permanente affrontare le dinamiche territoriali per realizzare gli impianti che servono, come quelli per il riuso o per il trattamento dell’organico, non convenga. Perché rischia di far perdere consensi.

Investire sull’economia circolare invece conviene a tutti: più riciclo e meno rifiuti, sprechi, emissioni. Contemporaneamente nuovi po­sti di lavoro e investimenti. Per sbloccare questo passaggio, che rap­presenta il cuore dell’economia circolare, servirebbe – e servirebbe nell’immediato – l’approvazione dei decreti End of waste, necessari a più impianti per il riciclo e il riuso, la tariffa obbligatoria, e quella puntuale, l’ecotassa per la discarica disincentivando questa forma di smaltimento, il ricorso ad appalti più verdi (sia per la pubblica am­ministrazione che per le imprese), e controlli obbligatori per combat­tere la concorrenza sleale.

Investire sull’economia circolare conviene poi al bilancio dello Stato perché riduce le importazioni di materie prime; conviene all’ambien­te, e alla salute dei cittadini. Per arrivare a questo risultato è però indispensabile rimuovere quegli ostacoli normativi – come la bu­rocrazia in alcuni casi inutile o semplicemente il mancato consenso sociale – che frenano il decollo di questo modello di sviluppo econo­mico che trasforma i rifiuti da problema a risorsa.

In questa nuova economia, più sostenibile e a basso impatto ambien­tale, bisogna poi includere la fiscalità ambientale: occorre intervenire sulle esenzioni dalle tasse per centinaia di milioni di euro che attual­ mente premiano le fonti fossili, spostando la fiscalità in favore delle fonti con minori impatti ambientali. È giunto il momento di mette­re un punto al finanziamento dei combustibili fossili. Bisogna invece appoggiare un programma dedicato alle energie rinnovabili, all’effi­cienza energetica, all’innovazione, alle infrastrutture di trasmissione, alle reti intelligenti, alla mobilità elettrica, a un sistema di trasporto sostenibile grazie a una potente dose di investimenti per le infra­strutture della città, e alla generazione elettrica diffusa, all’accumulo, e alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente insieme con una rigenerazione urbana coordinata e innovativa. A livello europeo sarebbe anche necessario sollecitare l’adozione di una carbon tax co­munitaria, sulla scia della web tax, da applicare a determinati settori, nonché prevedere una tassazione sul carburante degli aerei.

Un piano per l’economia circolare deve necessariamente prevedere la salvaguardia dell’agricoltura e dell’agroindustria, prestando attenzio­ni ai processi delle filiere locali di qualità, biologiche, ridisegnando le aliquote IVA (anche in base agli effetti ambientali e sociali di quei prodotti o servizi) per premiare l’innovazione ambientale e l’efficienza dei processi, le eccel­lenze dei territori e il made in Italy. Premiando chi tutela e difende i nostri servizi ecosistemici. Le imprese che hanno puntato sulla sostenibilità ambientale, in particolare nel settore manifat­turiero e nell’agroalimentare di qualità, sono al centro di un nuovo protagonismo dell’economia italiana. La sfida oggi consiste nell’accompagna­re quel tessuto imprenditoriale italiano lungo questo sentiero di politiche e scelte europee al 2030. Ciò significa anche creazione di nuovi posti di lavoro, ricerca, innovazione, sicurezza dei cittadini, maggiore partecipazione e, in generale, sviluppo.

Ampliando il ragionamento in un’ottica internazionale, una guida per scegliere la strada da percorrere è contenuta nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite dedicata allo sviluppo sostenibile. Con i suoi 17 obiettivi da raggiungere, l’Agenda è una spinta per scrivere il pre­sente in modo tale che sia più facile leggere il futuro. La presidenza del Consiglio, ad esempio, dovrebbe avere un forte coordinamento su tutte queste politiche, e sul rispetto degli Accordi di Parigi per la lotta ai cambiamenti climatici; in questo modo si dovrebbe riuscire a orientare una serie di investimenti pubblici in linea con un modello di decarbonizzazione dell’economia.

Il nostro paese, partendo dalla madre di tutte le crisi, i cambiamenti climatici, deve realizzare un Green New Deal, una nuova strada “ver­de” declinata nella prospettiva di un’azione riformatrice coraggiosa e innovativa. Il sistema produttivo dovrà promuovere atteggiamenti socialmente responsabili per rendere più efficace la “transizione eco­logica” e indirizzare il sistema economico. I temi legati all’ambiente, al clima e alla giustizia sociale devono accompagnarsi con la difesa dei nostri territori. E con il miglioramento della qualità della vita delle persone.

La crescita economica, da sola, non è in grado di rispondere alle sfide presenti e a quelle future; è necessario guardare a un concetto più ampio di tutela e di benessere collettivo: cosa che può essere garantita soltanto dallo sviluppo sostenibile, cioè da scelte economiche e socia­li che nell’economia circolare piantano le proprie radici.

Una riflessione sul futuro del pianeta è necessaria. Per salvarlo. E un’economia, come quella circolare, che recupera le materie prime e non le spreca reimmettendole nel ciclo produttivo, è la chiave per aprire tutte le porte. Il sistema da perseguire rappresenta una linea di confine che dobbiamo varcare, per imparare che l’ecologia può essere una risposta anche per i diritti civili, i bisogni sociali, il benessere delle persone. Cominciamo dall’Italia, con questo Piano. Dedichia­mogli del tempo, dedichiamogli il nostro impegno.

 


[1] ISPRA, SNPA, Rapporto rifiuti speciali, luglio 2019, disponibile qui.

 

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Acquerello di Emanuele Ragnisco