Nodi e opportunità dell’economia circolare

Di Edoardo Zanchini Mercoledì 02 Ottobre 2019 08:01 Stampa
Nodi e opportunità dell’economia circolare Acquerello di Emanuele Ragnisco


Se ci si allontana dalla cronaca sulle emergenze rifiuti di Roma e Palermo, dalle polemiche su inceneritori e discariche, la situazione italiana nel percorso verso l’economia circolare appare piuttosto in­teressante da diversi punti di vista.

Innanzitutto perché il nostro paese, pur tra tante contraddizioni, è tra quelli più avanti in Europa per capacità di riciclo dei rifiuti pro­dotti e per i risultati di alcune filiere.1 Partiamo dai dati: attraverso sistemi di raccolta differenziata si intercetta ormai più della metà dei rifiuti urbani in Italia, con numeri in costante crescita. Le differenze rimangono rilevanti, con Veneto, Lombardia e Trentino-Alto Adige che superano il 70% e la Sicilia, invece, al 22%. Possiamo intanto dire che un primo risultato è stato acquisito: si è infatti dimostrato che ovunque in Italia è possibile raggiungere obiettivi ambiziosi di raccolta differenziata. Anche al Sud, come dimostrano la Sardegna e Comuni come Agrigento e Ragusa, che hanno numeri record tra i capoluoghi di Provincia.2 E persino nelle grandi città, con Mila­no che rappresenta un successo di livello internazionale con oltre il 62%.

Dunque non vi sono più scuse per i sindaci: ormai si tratta solo di replicare bene le tante esperienze positive per raggiungere risultati impensabili solo pochi anni fa anche nella riduzione della produzio­ne di rifiuti.3 Ma allora perché ci sono ancora tutti questi problemi? Semplicemente perché il nostro paese non ha ancora organizzato un sistema in grado di chiudere il ciclo di questi materiali con impianti capaci di recuperare materia ed energia dalle diverse filiere presenti nei territori. Conseguenza di ciò sono i costi sempre più alti per il trasporto e lo smaltimento4 – su cui da tempo hanno messo le mani le ecomafie –, con la beffa che se invece si puntasse su una corretta gestione del ciclo dei rifiuti si potrebbero ridurre le tariffe5 e creare benefici economici e occupazionali a livello locale. È dunque arriva­to il momento di superare le barriere che l’economia circolare trova nel nostro paese, e mai come oggi la risposta a queste sfide chiama in causa la politica.

Perché occorre riscrivere regole, innovare e ripensare il rapporto con il sistema delle imprese, costruire il consenso tra i cittadini. Il sentie­ro è tracciato dalle direttive europee in materia che fissano obiettivi sempre più ambiziosi,6 ma la strada non è in discesa e occorre avere una chiara idea delle questioni aperte e degli obiettivi che si vogliono perseguire.


COMPLETARE L’IMPIANTISTICA

II più grande ostacolo che il nostro paese deve affrontare sta nell’i­nadeguatezza della filiera degli impianti necessari al trattamento, recupero, riciclo di tutte le categorie di rifiuti.7 Dalla plastica al ve­tro, dai metalli alla carta, per arrivare a quelli necessari per trasfor­mare i rifiuti organici in biometano e fertilizzanti, come a estrarre preziosi materiali dai rifiuti elettrici ed elettronici e di materiali provenienti dalle demolizioni edilizie al posto di quelli provenienti da cave.8 È bene essere chiari, nel modello circolare servono molti più impianti. E servono per tutte le filiere,9 in modo da puntare a chiudere il ciclo in ambito provinciale o regionale a seconda del tipo di rifiuti e delle quantità in gioco. Proprio la mancanza di questi im­pianti produce enormi problemi nella raccolta e nello stoccaggio temporaneo dei rifiuti (emble­matico è il caso di Roma) e costringe a organiz­zare ogni giorno camion, treni e navi in partenza per impianti in giro per l’Italia e per il mondo, con costi enormi sia economici che ambientali. L’errore sta nel nascondere il problema e rinviar­lo, quando può invece essere affrontato e risol­to. In un modello diffuso è possibile ovunque in Italia individuare aree adatte, a partire dalle tante zone artigianali e industriali dismesse. Ma per superare pregiudizi e conflitti occorre fissare procedure trasparenti e criteri per l’individua­zione delle aree compatibili e per la valutazione dei diversi tipi di impianti. Proprio perché oggi nei territori esiste un problema di credibilità della politica, ma anche di fiducia nelle imprese, occorrono più trasparenza, più studi e informazione, più partecipazione. Non serve nascondere i progetti, piuttosto convie­ne dimostrare ai cittadini che si comprendono le preoccupazioni e si è disponibili a operare modifiche, perfino a cambiare le localiz­zazioni laddove necessario, ma non a tornare indietro sul fatto che gli impianti vadano fatti. Anche perché l’obiettivo è ambientale ma anche di riduzione della spesa per la gestione dei rifiuti e di rilancio dell’economia locale, che può avvenire coinvolgendo le competenze diffuse tra università, enti di ricerca e imprese della green economy.


DA RIFIUTI A NUOVI PRODOTTI

La seconda barriera che occorre superare riguarda il processo di tra­sformazione dei rifiuti in nuovi materiali da utilizzare per tutti gli usi compatibili. In Italia siamo in estremo ritardo sui decreti End of waste, ossia le procedure previste dalle direttive europee per certifi­care questo passaggio fondamentale. Purtroppo il percorso norma­tivo è incredibilmente lento e incerto quando siamo di fronte a una prospettiva di enorme interesse. Gli esempi di materiali in attesa di questi decreti sono i più diversi, dalle sabbie di fonderie, che oppor­tunamente trattate potrebbero sostituire quelle di cava nei cantieri, al polverino di gomma proveniente da pneumatici fuori uso da usare negli asfalti al posto di materiali di origine fossile, dagli oli di frittura agli aggregati da demolizione e ricostruzione. Proprio la loro artico­lazione dimostra un interessantissimo intreccio di interessi tra settori diversi che può consentire di trasformare il problema di un’impresa (lo smaltimento dei rifiuti) in opportunità per un’altra in cerca di soluzioni. Riguarda l’agricoltura come l’edilizia, la siderurgia come la farmaceutica e la chimica. Qui davvero si avverte il bisogno di scelte politiche lungimiranti e di una pubblica amministrazione preparata e formata rispetto a tematiche nuove dove si incrociano competenze diverse (dai limiti di emissione da rispettare perché i prodotti non siano nocivi per la salute alle prestazioni da garantire nei cantieri). Ma si tratta di problemi che possono essere affrontati e risolti, come già fatto in altri paesi europei. Non solo, lavorando in questa prospettiva si aprono opportunità importanti per spingere una ricerca applicata alle filiere di materiali oggi più difficili da trattare ma con enormi potenzialità di sviluppo: dai sistemi di accumulo energetico ai rifiuti ospedalieri, dalle plastiche non riciclabili ai composti cellulosici, per arrivare ai fanghi da depurazione e provenienti da processi industriali.


FAR CRESCERE IL MERCATO DEI PRODOTTI DA RECUPERO E RICICLO

Per chiudere il ciclo dell’economia circolare occorre dare uno sbocco di mercato ai materiali recuperati. In teoria il campo dei possibili utilizzi è vastissimo, perché si va dai capitolati stradali agli acquisti delle pubbliche amministrazioni (il green public procurement), dalle mense all’energia. Siamo davvero solo all’inizio di questo processo,10 per cui non solo occorre che quei materiali abbiano una certificazione per il possibile utilizzo – il tema dell’End of waste – ma occorre anche che siano riconosciuti da capitolati e bandi di gara.11 Anche qui la strada è segnata, con direttive europee che fissano obiettivi crescenti di recupero e utilizzo dei materiali. Inoltre, nel nostro paese sono stati introdotti dei Criteri ambientali minimi (CAM),12 ma il percorso è ancora lento, le stazioni appaltanti sono migliaia e ci sarebbe bisogno di un ben più incisivo ruolo di coordinamento e spinta da parte del ministero dell’Ambiente. Per procedere in questa prospettiva occorre modificare capitolati e bandi di gara per adottare un approccio pre­stazionale che permetta l’utilizzo di materiali provenienti dal riciclo, ma anche di introdurre nuovi CAM per tutte le categorie di appalti e di fissare obiettivi crescenti di utilizzo di materiali provenienti dal riciclo. L’aspetto positivo è che oggi non esistono ragioni economiche o tecniche che possano fermare questa prospettiva, tanto che sono di­verse le imprese private che hanno già investito in questa direzione.13 Mentre in edilizia si stanno sempre più dimostrando i vantaggi, ma anche l’apprezzamento da parte del mercato, di una progettazione capace di tracciare la filiera dei materiali utilizzati, la loro provenienza e salubrità, la loro riciclabilità.14

NON AVER PAURA DI UTILIZZARE LA LEVA FISCALE

Nel nostro paese l’economia circolare trova ostacoli anche in una fi­scalità che penalizza l’innovazione tecnologica e la sostenibilità am­bientale. Ad esempio nel settore delle costruzioni, dove l’utilizzo di materiale proveniente da recupero e riciclo va avanti troppo lenta­mente rispetto ad altri paesi europei (la media è di oltre il 70% men­tre da noi siamo al 9). Le ragioni sono semplici. Nel Regno Unito i canoni per l’estrazione sono pari al 20% dei prezzi di vendita dei materiali cavati, mentre in Italia sono in media al 2% e in alcune Regioni non si pagano affatto.15 Inoltre, in quei paesi lo smaltimento in discarica è reso poco conveniente da una tassazione elevata che dunque spinge le imprese ad attrezzarsi per recuperare direttamente i materiali o ad aderire a consorzi.16 Se lo sperpero di risorse am­bientali è evidente, rimangono sottovalutati i vantaggi di una filiera del recupero e del riutilizzo in termini di posti di lavoro. Proprio guardando in questa direzione la Svezia ha deciso di introdurre una innovazione fiscale interessante, con un’IVA ridotta per la riparazione di indumenti, biciclette, frigoriferi e lavatrici. Un incentivo che pun­ta a ridurre l’impatto ambientale degli articoli acquistati e a spingere l’industria delle riparazioni, che oltre a essere un tassello importante dell’economia circolare è ad alto tasso di lavoro interno.17


L’ECONOMIA CIRCOLARE BUSSOLA DEL CAMBIAMENTO E DEL RILANCIO DEL PAESE

Da tempo in Europa si è compreso che l’economia circolare non è uno slogan ambientalista o una questione per tecnici, ma piuttosto una chiave per affrontare i cambiamenti in cor­so nell’economia e per spingere una riorganiz­zazione industriale diffusa. Assumendo questa prospettiva si può infatti ripensare completa­mente l’approccio ai materiali per creare valore aggiunto non da una maggiore produzione, ma da un’efficiente gestione del loro intero ciclo di vita, e dunque da un design capace di ridurre gli imballaggi, da soluzioni capaci di farli durare di più e riciclarli, dalla capacità di creare nuove si­nergie tra settori nei possibili riusi. Per un paese manifatturiero come l’Italia questo scenario appare di enorme interesse, proprio perché siamo storicamente importatori di materie prime e di energia e al contempo possiamo contare su un sistema di piccole e medie imprese capace di innovare proprio nella trasformazione dei prodotti. In un mercato sempre più globalizzato si aprono opportunità rilevanti di rilancio industriale, da un lato per rispondere alla sfida dell’econo­mia circolare dentro i confini nazionali (riducendo le importazioni di materiali)18 e dall’altro per esportare soluzioni di cui tutto il mondo è in cerca per la gestione di miliardi di tonnellate di rifiuti. Per ren­dere possibile questo cambiamento occorre però comprendere la più grande novità, ossia che questo modello mette al centro i territori, of­frendo opportunità di rilancio ma anche responsabilità. Chi non sarà capace di trovare soluzioni per i propri rifiuti troverà sempre mag­giori difficoltà e costi più alti per lo smaltimento. La seconda sfida riguarda la politica, perché questa prospettiva potrà produrre risultati solo se si sarà capaci di eliminare le barriere e di innovare le regole, ad esempio con controlli capaci di tenere fuori criminalità ed ecomafie. In alcune realtà può sembrare oggi una montagna troppo difficile da scalare, ma dobbiamo convincerci che rappresenta una straordinaria opportunità per il rilancio economico e ambientale del paese.

 


 

[1] Secondo i dati Eurostat l’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti (urbani, industriali ecc.), con il 76,9% avviati a riciclo, il doppio della media europea. I flussi più rilevanti riguardano carta, metalli (con il 100% di impiego dell’alluminio riciclato), plastica, vetro, legno.

[2] In Sardegna, nel 2018, la raccolta differenziata ha raggiunto il 62% del totale dei rifiu­ti, ed è sopra il 70% ad Agrigento e Ragusa, come in tanti Comuni piccoli e medi del Sud.

[3] Si veda Legambiente, Dossier Comuni Ricicloni, disponibile su www.ricicloni.it/dossier, in cui tra gli altri sono raccontati i risultati positivi dei Comuni che hanno scelto di puntare su una tariffazione puntuale – per cui si paga in funzione dei rifiuti prodotti – e di quelli dove si è ridotta, grazie alla raccolta differenziata, la produzione pro capite di rifiuti indifferenziati avviati a smaltimento (oltre 500 Comuni con meno di 75 chili di secco residuo all’anno a persona).

[4] La spesa complessiva per la gestione dei rifiuti in Italia è pari a 28 miliardi di euro, quasi due punti di PIL.

[5] La tassa sui rifiuti presenta differenze assai rilevanti in Italia, con ai due estremi Belluno (dove si pagano in media 153 euro a famiglia) e Trapani (571), e in generale i Comuni del Sud in cui è molto più cara. La ragione sta nei ritardi della raccolta differenziata e dei sistemi di smaltimento locale, anche perché il Sistema dei consorzi permette ai Comuni di essere rimborsati per la quantità di carta, plastica, vetro por­tati a riciclo mentre al contrario questi devono pagare per il conferimento dei rifiuti indifferenziati in discarica o agli inceneritori. E meglio è fatta la raccolta differenzia­ta, ad esempio con sistemi porta a porta (che riguarda a Como, Brescia e Chieti tutte le utenze) e tariffazione puntuale, più vengono pagati i materiali conferiti.

[6] È il caso del nuovo obiettivo obbligatorio per il trattamento dei rifiuti municipali negli Stati membri: almeno il 65% dovrà essere riciclato entro il 2035, con obiettivi inter­medi al 55% nel 2025 e al 60% nel 2030; un obiettivo di riduzione dello smaltimento in discarica che, sempre nel 2035, non dovrà riguardare più del 10% dei rifiuti muni­cipali. Direzione dettata anche dalla recente EU Plastics Strategy, che pone obiettivi di riduzione dell’utilizzo e il 100% di riciclo al 2030.

[7] In tutto 165 milioni di tonnellate di rifiuti tra urbani, speciali e pericolosi.

[8] Per quanto riguarda gli inceneritori, se il nostro paese sarà in grado di rispettare gli impegni europei in termini di raccolta differenziata e riciclo, gli impianti esistenti po­tranno essere sufficienti, ma occorrerà valutare i risultati e le differenze tra le Regioni. Il problema è che l’attenzione politica e mediatica nei confronti di questa tipologia di impianti e gli interessi economici in gioco stravolgono i termini del confronto e ren­dono difficile capire come la valorizzazione energetica del residuo del trattamento dei rifiuti sia in ogni caso da preferire alle discariche.

[9] Gli impianti su cui i ritardi sono più rilevanti sono quelli di digestione anaerobica e compostaggio per il trattamento della frazione organica, che rappresenta il 40,3% del quantitativo raccolto con la raccolta differenziata (6,6 milioni di tonnellate su 16,4 totali). Considerando che nei prossimi anni la raccolta differenziata dell’umido au­menterà ancora, soprattutto al Centro-Sud, è evidente la carenza impiantistica che abbiamo di fronte, con una forte disparità tra Nord, dove è concentrata la quasi totalità degli impianti, e Centro-Sud dove questi sono praticamente assenti. Senza considerare che tale rete impiantistica consentirebbe la produzione di biometano, da immettere in rete o destinare come carburante, e compost di qualità.

[10] Secondo i dati dell’Osservatorio sugli appalti verdi di Legambiente e della Fondazione Ecosistemi su un campione di 1048 Comuni italiani solo il 27,5% adotta i Criteri ambientali minimi (CAM) nelle gare d’appalto per la gestione dei rifiuti, il 24,4% nella carta, il 18,5% nell’illuminazione, il 18,4% nelle pulizie e il 15,9% nelle mense. A fronte di Regioni virtuose come la Sardegna e il Trentino-Alto Adige e di Comuni eccellenti (l’unica città capoluogo di provincia ad adottarli sempre per tutte le spese è Bergamo) il 29,4% di quelli campionati non adotta mai i CAM.

[11] Il paradosso è che ancora oggi in diversi capitolati si obbliga all’utilizzo di materiali di cava, vietando quelli provenienti dal recupero malgrado possano essere certificati nelle prestazioni.

[12] Con decreto del ministero dell’Ambiente (24 dicembre 2015) sono stati introdotti i Criteri ambientali minimi, ai sensi della legge 296/2006, per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici e per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione. I criteri inseriti nel documento si suddividono in criteri ambientali di base e criteri ambientali premiali. Il documento specifica che un appalto può essere definito “verde” dalla PA se include almeno i criteri di base. I problemi ancora presenti sono evidenti. Ad esempio, i CAM riguardano solo gli appalti pubblici e comunque prevedono percentuali obbligatorie ridottissime di materiale riciclato per i singoli materiali (5% per i calcestruzzi, 5% per il gesso, 10% per i laterizi per murature e solai). Il secondo problema è l’assenza di rife­rimenti chiari e controlli, con il rischio che continui quanto già avvenuto quindici anni fa, quando il decreto ministeriale 203/2003, che prevedeva, per le società a prevalente capitale pubblico, di coprire il 30% del proprio fabbisogno annuo di beni e manufatti con prodotti da materiale riciclato, non portò a nessun cambiamento.

[13] Si vedano i treni Rock prodotti da Hitachi per Trenitalia, con tassi di riciclabilità supe­riori al 90% e la percentuale di utilizzo di metalli provenienti dal riciclo nei tralicci di Terna.

[14] Si veda T. Rau, S. Oberhuber, Materials matter. L’importanza della materia, Edizioni Ambiente, Milano 2019.

[15] Si veda Legambiente, Rapporto Cave, febbraio 2017, disponibile qui.

[16] In Italia, al contrario, la tassa per il conferimento in discarica è bassa e la conseguenza è che ogni anno, invece di essere riciclati, finiscono sotto terra oltre 30 milioni di ton­nellate di inerti provenienti dalle demolizioni delle costruzioni e che si continuano ad avere in funzione oltre 4000 cave.

[17] Una scelta di questo tipo si motiva con il vantaggio duplice di ridurre il consumo di materiali, e quindi l’inquinamento, la produzione di rifiuti, e al contempo di aiutare gli investimenti da parte di imprese tradizionali e nuove nella riparazione di una vasta gamma di beni con beneficio occupazionale ed economico. D’altronde non si com­prende perché debbano pagare la stessa aliquota IVA un prodotto che proviene dal rici­clo e uno nuovo che proviene da paesi lontani, che ha percorso migliaia di chilometri e magari nato in fabbriche dove le condizioni dei lavoratori e l’inquinamento ambientale prodotto sono ben lontani dai nostri standard.

[18] Il paradosso italiano è che siamo uno dei pochi paesi europei importatori di materie prime seconde, che vengono utilizzate nell’industria siderurgica e del legno. Anche questo dato conferma le potenzialità di una raccolta differenziata ben organizzata che coinvolga i settori industriali.

 

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