Sul rapporto tra competenza e buon giornalismo

Di Massimo Mucchetti Martedì 15 Gennaio 2019 16:21 Stampa

“Italianieuropei” mi chiede come sia possibile ricostruire la credibi­lità della competenza in un tempo, il nostro, nel quale larga parte dell’opinione pubblica delegittima il sapere. La domanda è dettata dalla preoccupazione che l’incompetenza al potere, versione con­temporanea del sonno della ragione, generi mostri. Oltre trent’anni di lavoro in quotidiani e settimanali e una legislatura in Senato mi darebbero, secondo la rivista, una expertise adatta a individuare il contributo che il giornalismo può offrire alla nobile causa.

Che dire? Grazie, ma temo di non avere ricette vincenti da esibi­re. Naturalmente, non nego che il buon giornalismo possa aiuta­re a restituire dignità alla competenza in tante materie, politica ed economia in primis, nelle quali sembra averla persa. Ma se sapessi come potrebbe riuscirci, farei l’editore e non il giornalista, attività che, peraltro, ho cessato di coltivare alla fine del 2012. Il giornalismo – giova ricordarlo nell’epoca della star economy – si pratica all’interno di un’azienda editoriale, non nel chiuso di uno studio privato. E il cosiddetto “buon giornalismo” è sempre meno praticabile a causa della sempre più profonda crisi dell’industria editoriale. Pertanto, riuscire a produrre informazione responsabile, penetrante e reddi­tizia, mentre internet diffonde gratuitamente notizie e commenti di variabilissima qualità e genera dati infiniti su scala globale, base dell’intelligenza artificiale, costituisce certamente una sfida culturale di primissimo ordine, ma più ancora una immane e tuttora irrisolta sfida imprenditoriale. Ciò detto, segnalati i grandi limiti, qualche osservazione la azzardo comunque.

Per cominciare, consiglierei tanta cautela nell’uso del concetto di competenza tout court. Credo risulti fuorviante nelle attività dove le persone sono in grado di scegliere. Guidare un aereo esige un’abilità certificata, una competenza indiscutibile: nessuno affiderebbe un tale compito a un signore senza il brevetto di pilota. Invece, decidere se aumentare o diminuire le imposte rappresenta un’opzione politica sulla quale è ragionevole coltivare idee diverse. Parimenti discrezio­nale è decidere se il titolo di apertura del giornale debba essere la strage di ragazzi nella discoteca di Corinaldo o il grande corteo dei No Tav a Torino. Insomma, nelle materie opina­bili, e politica e giornalismo lo sono in misura somma, è fuorviante esaltare la competenza sen­za aggettivi, quasi fosse un valore univoco, per mettere a tacere i contestatori, squalificandoli ex cathedra come ignoranti o eterodiretti, ovvero deriderla, imputando difficoltà e disastri corren­ti ai “competenti” di prima, così, presi in blocco, per rendere irrilevante, anzi addirittura attraen­te, la propria palmare ignoranza.

In verità, la competenza non cancella l’eventua­lità dell’errore, la partigianeria, l’ideologismo, gli insulti dell’avversa fortuna, i gravami del conte­sto. Ma soprattutto la competenza, madre del merito, andrebbe considerata in relazione ai valori e ai fini che serve.

Quando un giornale persegue il fine di sostenere un regime politico, la competenza si esercita nel ricercare e nel presentare con modalità interessanti le notizie utili alla causa e pure nell’individuare e nel nascondere o ridimensionare le notizie imbarazzanti. Quando invece un giornale si propone di fare informazione indipendente, la compe­tenza si esercita senza altri vincoli che non siano quelli, assai larghi, dell’orientamento culturale generale della testata.

Il “Corriere” fascistizzato mise l’eccellente professionalità della pro­pria redazione al servizio di un fine assai diverso da quello della pre­cedente direzione di Luigi Albertini; “la Repubblica” ha militato a favore di Matteo Renzi rinfoderando lo spadone brandito, e non senza motivo, contro Berlusconi e ora contro il governo gialloverde. Bene: quando la finalità di parte è dichiarata o comunque facilmente leggibile, nulla quaestio. Già nel primo dopoguerra, Luigi Einaudi giudicava pienamente legittimi i giornali di partito accanto ai pur prediletti quotidiani di informazione, indipendenti tanto dal potere politico quanto da quello economico, e tuttavia parti integranti della classe dirigente e complici dei suoi errori e perfino dei suoi delitti: basti pensare all’appoggio dato dal “Corriere” albertiniano alle offen­sive del generale Cadorna sull’Isonzo, sanguinose, fallimentari e con­trassegnate dalle criminali decimazioni di fanti e alpini. Il “Corriere” post Albertini non venne penalizzato all’edicola, mentre “la Repub­blica” post Scalfari e post Mauro ha perso copie più del concorrente a parità di offerta editoriale. Ne deriva che il mercato, ritenuto dalla saggezza convenzionale l’infallibile giudice di ultima istanza, si rivela un giudice parziale, talvolta distratto e comunque condizionato dal contesto: un conto è lavorare su un’unica piattaforma tecnologica com’era la stampa negli anni Venti e Trenta (questo spiega la tenuta del “Corriere” voltagabbana di allora su diffusioni enormi), un altro conto è lavorare su una piattaforma aggredita da altre piattaforme più moderne com’è accaduto in generale alla stampa con l’avvento delle televisioni e poi con la diffusione dei motori di ricerca e dei so­cial network (questa è una delle ragioni, ovviamente non la sola, che spiega le particolari difficoltà di “Repubblica” oggi).

A questo punto, ne sono sicuro, “Italianieuropei” mi fermerebbe os­servando come la crisi dei giornali sia ben più generale, come pure l’attuale “Corriere” perda ogni giorno lettori. E farebbe bene, per­ché in tal modo torniamo al nocciolo della questione: al perché non possiedo – e credo nessuno al momento possegga – ricette generali vincenti per fare del buon giornalismo la leva vincente per restituire credibilità alla competenza, causa nobile, ripeto.

In effetti, dagli anni Ottanta del Novecento fino al 2008, e in molti casi anche dopo, l’industria dell’informazione classica, parte inte­grante dell’establishment, si è proposta al pubblico come una fonte indipendente, plurale e autorevole, salvo poi ritrovarsi a servire so­stanzialmente all’unisono una causa – la globalizzazione finanziaria con tutti i suoi corollari di politica economica e sociale – favorevole agli interessi dei pochi e non dei più. Il crac Lehman ha fatto venire alla luce il limite politico e culturale delle pur vaste competenze di questa industria, considerata non a torto l’architrave della politica democratica e dell’economia di mercato. Un limite serio, che si ma­nifesta nell’assunzione delle convenienze e delle visioni del mondo di una parte ridottissima della società come se fossero universali. Un posizionamento editoriale largamente maggioritario, che certo ebbe le sue eccezioni in qualche brillante articolo dell’“Economist” ma che pure raggiunse punte di fideismo incredibili. Penso, per restare nel cortile di casa, all’entusiasmo manifestato da un famoso economista del “Corriere” alla notizia del fallimento della Lehman: vi scorgeva il trionfo della concorrenza, del Dio Mercato, dal quale tutto sarebbe ripartito per il meglio, e non già, come in effetti era, una scelta cata­strofica della Casa Bianca e fors’anche il frutto di una congiura dei concorrenti di Wall Street, due errori fatali che avrebbero dato inizio alla valanga. Quell’entusiasmo manifestato dal competente per ec­cellenza, per capirci, era frutto del pregiudizio ideologico nella valu­tazione dell’operato del presidente Bush e della supponente pigrizia che impediva al competente e alla direzione del giornale che avallava quella posizione di porsi le domande basiche del giornalismo investi­gativo: ha deciso la Casa Bianca da sola o, data la consuetudine delle porte girevoli tra personale politico e personale bancario, il Tesoro USA ha accolto i suggerimenti dei concorrenti che odiavano Dick Fuld, l’arrogante boss della Lehman? È saggio lasciar fallire una ban­ca enorme o è una follia che innescherà una reazione a catena su scala globale, che colpirà il risparmio e farà felici i coraggiosi ribassisti?

Del resto, accorgersi dei pericoli impliciti nella crescita delle disegua­glianze, l’altro lato della globalizzazione, quando ne scrive Thomas Piketty in un bestseller e non quando le diseguaglianze si andavano concretamente formando nei paesi occidentali, Italia dell’Ulivo com­presa, conferma sul piano sociologico e politologico quell’incapacità di scoprire e di comprendere che abbiamo appena registrato nell’in­formazione finanziaria. L’investigative journalism non è solo quello mitico del Watergate o quello assai meno alto delle veline di avvocati, magistrati e servizi segreti, ma è anche quello che sa leggere per tem­po le nuove tendenze dell’economia, della cultura e, più in generale, della società. La lettura perspicace dei bilanci delle banche italiane e di quelle nordeuropee avrebbe potuto scatenare una campagna di stampa preventiva contro il bail in. Il fatto che la Banca d’Italia qual­cosa avesse intuito e detto, ma in modo assai sommesso, sottolinea ancor di più la falla dei giornali e dei partiti, vecchi e nuovi, che quel­la campagna non hanno scatenato quando era il momento di farla.

Che cos’è dunque la competenza? Esiste la competenza o esistono le competenze diverse e in competizione tra loro? La mia risposta è ovvia e mi porta a dire che l’uso della competenza, ossificato nel pregiudizio ideologico in questi ultimi trent’anni, pure nelle sinistre dell’Ulivo e della Leopolda, pure nel “Corriere” come in “Repubbli­ca”, costituisce a mio parere una ragione – certo non l’unica, forse nemmeno la principale, ma nemmeno l’ultima – dell’attuale crisi dell’editoria, del discredito dei “professoroni”, come li irrideva, se dissenzienti, un leader del PD, pseudo grillino a sua insaputa, della scarsa probabilità che sia que­sto giornalismo a riscattare le competenze.

Il variabile sex appeal delle diverse piattaforme tecnologiche – stampa, radio, TV, internet – e anche le vicende specifiche delle diverse testate differenziano i tempi e i luoghi dove si consuma la perdita di credibilità dell’industria dell’informazione; in qualche caso, questi elementi particolari possono frenare tale perdita, ma non la possono scongiurare. I bilanci non devono illudere. Chi con­frontasse le risorse dell’industria dell’informazione classica (giornali e televisioni) con quelle dei nuovi editori globali (social network e motori di ricerca) potrebbe scoprire che, mentre l’editoria classica piange miseria, il fatturato complessivo del nuovo settore allargato dell’informazione magari aumenta. E tuttavia l’andamento dei ri­cavi di questo settore allargato non cancella gli effetti negativi sulla credibilità (e sulle risorse) dell’industria dell’informazione classica, derivanti in larga misura dalla singolare omologazione che abbiamo appena descritto.

Un’omologazione, anche questo va riconosciuto, che prescinde dalla purezza o dalla non purezza delle imprese editoriali che di questi tempi torna di moda nella polemica politica. La questione conserva un rilievo assai grande, ma non tale da giustificare l’approccio del governo gialloverde, tanto generoso e datato negli enunciati a favo­re degli editori puri quanto semplicistico e ambiguo nelle proposte normative, e nemmeno tale da diventare il campo di battaglia per ricostruire la credibilità e l’incisività dell’industria dell’informazione classica, per quanto alta sia stata nel Novecento la cultura che ali­mentava la critica dei conflitti d’interesse.

Il fatto è che la nozione di editoria pura o impura va completamente ridefinita nell’era degli over-the-top. Facebook è un editore purissimo ma non per questo la sua straordinaria potenza di fuoco non merita attenzioni anche superiori a quelle consigliabili per un quotidiano di proprietà di una casa automobilistica o di un immobiliarista. E qui si arriva al punto: la crisi dell’industria dell’informazione – il suo deprezzamento reputazionale che presso molti la equipara alle fonti di fake news – marcia di pari passo con la crisi conclamata delle classi dirigenti dell’Occidente democratico e con la tendenziale presa del potere globale da parte degli over-the-top.

Paradossalmente, le crisi parallele di questi sog­getti, gli opinion makers e quelli che Tom Wolfe chiamava i master of the universe, traggono ori­gine da due peccati capitali di ignoranza. Sì, di ignoranza, alla faccia dell’esibita competenza.

Il primo peccato lo riassumerei nell’ingenua credenza che fosse vera la profezia di Fukuya­ma sulla fine della storia, determinata dall’e­stinzione del comunismo in Unione Sovietica, e sul conseguente, irreversibile trionfo del capitalismo globalizzante e della democrazia ovunque nel mondo. Si trattava, in realtà, di un wishful thinking delle classi dirigenti dell’economia e della politica occidentali, incuranti della storia e della geografia e pure della stessa evoluzione del pensiero economico, che avrebbero dovuto suggerire prudenza nel ritenere archiviabili millenarie civiltà come la Cina e l’India, vasti imperi come la Russia, grandi e antiche religioni come l’Islam e il Cristianesimo, ma anche più recenti teorie come quelle di Marx e di Keynes. Il mondo è troppo grande e vario per racchiuderlo nel pensiero di Milton Friedman e dei suoi nipotini della Silicon Valley.

Il secondo peccato consiste nella fede cieca nella tecnologia digitale che ha generato il contesto adatto all’eclisse delle competenze, alla delegittimazione del sapere, al dilagare dell’opinione senza verifiche nel quadro degli over-the-top. Quasi un’eterogenesi dei fini. La fiducia nella scienza e nella tecnologia è una delle chiavi che spiegano il suc­cesso dell’Occidente negli ultimi secoli, come ben illustra lo storico conservatore Niall Ferguson. Ma altro è la fiducia, altro è la fede cieca nella tecnologia, incurante degli effetti sociali (li riassumiamo nella job polarization che da almeno un decennio va erodendo lo status dei ceti medi, operai compresi) e incurante perfino degli esiti politico-istituzionali (li riassumiamo nella formula dell’uno vale uno, poiché le barriere d’accesso a internet sono in effetti infinitamente più basse di quelle per l’accesso ad altre piattaforme tecnologiche di diffusione dei dati: una formula che rilancia un egualitarismo straccione degno di Pol Pot e che, come tale, mina la democrazia rappresentativa).

Una spia degli effetti di questa fede cieca sul giornalismo – una fra mille – l’ho ritrovata nel Tg3 e nel “Corriere” che dedicano ampio e sdegnato spazio agli insulti postati sui social contro la cooperan­te Silvia Romano, rapita in Kenya, rea di essersela cercata. Quelle esecrabili parole fanno il paio con le giustificazioni date dai bigotti alle violenze sessuali perpetrate ai danni di una bella ragazza perché vestita con modalità da loro medesimi reputate provocanti. Sono una schifezza. Ma sono una schifezza nuova o sono la solita schifezza dei soliti quattro gatti scemi, dunque, sostanzialmente, una non notizia? Secondo Stefano Balassone, già braccio destro di Angelo Guglielmi a Raitre, sono una non notizia che diventa notizia perché fatta oggetto di un servizio televisivo di ampia audience e di un commento di pri­ma pagina del “Corriere”. Il rapimento è la notizia. Il chiacchiericcio variamente orribile dei social no. Ma stampa e TV, sempre più deboli nel giornalismo investigativo a largo spettro, riempiono il loro spazio commentando le schifezze di quattro gatti come se fossero il segno nuovo del paese. Il fatto diventano i social e non il fatto vero. Non è questo il segno di un’egemonia dei social sull’industria dell’informa­zione classica? E tale egemonia può essere paragonata a quella a suo tempo esercitata dalla televisione sui quotidiani o è un’egemonia di tipo nuovo, essendo il rapporto TV-quotidiani un rapporto tra indu­strie mentre quest’altro è un rapporto tra il nulla o il quasi nulla (da un punto di vista aziendalistico) e un’industria già succube della TV?

Certo, restano sempre l’“Economist” o il “New York Times” o, rigo­rosamente online, “Pro Publica” che cercano di informare in modo originale e robusto sulle questioni importanti. Hanno le risorse, pro­prie o dei benefattori, per evitare la subalternità ai social. E, aggiungo, hanno la cultura per risalire la china della grande illusione liberista senza venir meno all’originaria impostazione liberal. Sfortunatamen­te, l’opinione pubblica italiana non si forma in inglese. D’altra parte, John Elkann vende “La Stampa” e investe nell’“Economist”, ultimo esponente di una classe dirigente cosmopolita che, avendo scelto di non avere patria, lascia i tanti che questa scelta non vogliono e so­prattutto non possono fare in balia di chi si incarica di rappresentarli alla faccia delle competenze. Ah, le osservazioni di Antonio Gramsci sul cosmopolitismo degli intellettuali e dei militari italiani dei secoli passati... Ma lasciamo Gramsci nella riserva della storia. Oggi, dire­mo in conclusione che la svolta, la riscoperta del buon giornalismo, come chiave di volta di nuove e plurali competenze, verrà, se mai verrà, dalla patria del pensiero unico. Dalle sue università, dai suoi movimenti giovanili, forse dalla riscoperta di una coscienza di classe di tipo nuovo anche dentro il mondo degli over-the-top. Questa volta l’Italia non fornirà primi ministri e condottieri di eserciti ai grandi paesi. La povera Italia andrà, se andrà, a rimorchio. Nel frattempo, la competenza resta centrale all’interno di taluni regimi politici autori­tari e tuttavia meritocratici per secolare tradizione come quello cine­se. Ma forse il mio pessimismo è eccessivo. E allora auguri, auguri di cuore a quanti, qui da noi, avranno cervello e muscoli per dare una risposta diversa dalla mia all’invito di “Italianieuropei”.