Dietro l’acqua pubblica la rendita di monopolio

Di Claudio De Vincenti Martedì 24 Maggio 2011 17:14 Stampa
Dietro l’acqua pubblica la rendita di monopolio Illustrazione: Anna Sutor

La qualità e il costo del servizio idrico in Italia non reggono il confronto con la media europea: il monopolio pubblico non è la soluzione ideale. Il coinvolgimento di soggetti privati, invece, potrebbe garantire alla collettività servizi efficienti, inseriti nelle dinamiche competitive del mercato e al contempo sottoposti alla regolazione pubblica. Invece che l’abrogazione del decreto Ronchi-Fitto, sarebbero necessarie l’istituzione di un’Autorità indipendente e l’introduzione di criteri di regolazione rigorosi e validi su tutto il territorio nazionale.


Due i quesiti referendari in materia di servizi pubblici locali che saranno sottoposti al voto nel giugno prossimo: il primo abrogativo del decreto Ronchi-Fitto sulla liberalizzazione dei servizi di gestione dell’acqua, dei rifiuti e del trasporto pubblico; il secondo abrogativo della disposizione contenuta nel Codice ambientale che prevede il riconoscimento in tariffa di una «adeguata remunerazione del capitale investito»[1] nel servizio idrico.

Cominciamo dal primo, che dietro la bandiera dell’acqua pubblica punta a tornare, non solo nel settore idrico, ma anche in quelli dei rifiuti e dei trasporti, alla mera gestione diretta dei servizi da parte dei Comuni, peraltro tuttora prevalente. Dunque, nessun confronto concorrenziale tra imprese che si candidano a offrire al Comune in sede di gara le migliori condizioni di costo, tariffa e qualità del servizio, ma gestione attraverso enti pubblici sottratti alla verifica della concorrenza. Il referendum punta perciò a liquidare i tentativi avviati dai governi di centrosinistra – e ripresi nell’unico provvedimento di liberalizzazione varato dal governo di centrodestra – per portare i servizi pubblici locali a una gestione industriale orientata all’efficienza e superare finalmente forme di gestione dei servizi che sono finite nel vicolo cieco di un drammatico fallimento, generando costi e carenze qualitative che hanno a loro volta disastrato i bilanci degli enti locali e contribuito all’accumularsi del debito pubblico italiano. È prevedibile, nel caso di successo del “sì” al referendum, l’esultanza di quei gruppi di interesse, interni alle Amministrazioni e alle aziende locali in monopolio, che da una gestione imprenditoriale e dal confronto concorrenziale si sentono minacciati.

Il tutto dietro la copertura fornita dalla “Relazione introduttiva ai quesiti referendari” che accusa il decreto Ronchi-Fitto di privatizzare i servizi pubblici e la proprietà delle infrastrutture. Evidentemente agli estensori della Relazione poco importa che la legge contestata chiarisca in modo inequivocabile «la proprietà pubblica delle reti»[2] e che il regolamento attuativo ribadisca per il servizio idrico «la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, nonché la spettanza esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo delle risorse stesse »;[3] che quindi la riforma intervenga non sulla proprietà dell’infrastruttura ma sulle forme di gestione del servizio che attraverso quell’infrastruttura viene erogato. Come poco importa che, oltre alla gara per concessione a terzi, la legge preveda la possibilità di affidare il servizio a società miste in cui il Comune mantiene la maggioranza del capitale e il socio privato di minoranza viene selezionato tramite gara per svolgere funzioni di efficientamento della gestione (miglioramento della qualità e contenimento delle tariffe).

In realtà, quello che i promotori del referendum si ripromettono è di evitare la distinzione di ruoli prevista dalla legge tra il Comune come soggetto di governo e l’impresa che gestisce il servizio. Una distinzione che è invece essenziale affinché ognuno dei due svolga al meglio i propri compiti: da un lato il Comune, tenuto a rappresentare, come regolatore del servizio, gli interessi dei cittadini utenti; dall’altro l’impresa che, sottoposta a regolazione da parte del Comune, è chiamata a una gestione che riduca i costi e migliori la qualità. Si tratta di una distinzione che rafforza i Comuni come soggetti di governo effettivo del territorio, sottraendoli ai condizionamenti oggi posti dalla gestione di interessi corporativi interni all’azienda.

Piuttosto – ma non è questa la preoccupazione dei referendari, tesi a difendere gli orticelli di monopolio locale e non a promuovere regole omogenee sul territorio nazionale – la riforma ha bisogno di essere completata sul versante dell’assetto istituzionale di regolazione del settore, attraverso la creazione di un’Autorità indipendente o l’assegnazione delle relative funzioni all’Autorità per l’energia elettrica e il gas. È questo un passaggio ormai indilazionabile: sviluppo degli investimenti ed efficienza gestionale hanno bisogno di standard di qualità e di criteri di determinazione dei prezzi rigorosi e omogenei a livello nazionale, sulla cui base le Autorità d’ambito locali possano stabilire la tariffa coerente con le condizioni specifiche del servizio sul proprio territorio; gli enti locali, poi, hanno bisogno di essere supportati nella predisposizione dei bandi di gara e dei contratti di servizio da un’Autorità con competenze tecniche adeguate; infine, solo un’Autorità nazionale può fornire, attraverso la rilevazione dei dati delle diverse gestioni, le informazioni che possono aiutare ogni Autorità d’ambito a comparare, nel corso della concessione, la performance dell’impresa operante nel proprio territorio con quella delle imprese operanti negli altri.

E veniamo ora al secondo quesito referendario, quello riguardante la remunerazione del capitale investito, motivato dai promotori con la tesi che la liberalizzazione della gestione dei servizi idrici implichi inevitabilmente l’aumento delle tariffe a causa della ricerca del massimo profitto da parte delle imprese. Per cominciare, sarebbe il caso di ricordarsi che la rendita derivante da una posizione di monopolio può essere usufruita in tanti modi, non solo come profitto. La storia dei monopoli pubblici sottratti alla concorrenza è ricca di esempi al riguardo: sono forme di rendita di monopolio anche il sovradimensionamento degli organici, l’organizzazione del lavoro permissiva, i livelli salariali superiori a quelli in vigore nei settori dell’economia esposti alla concorrenza, la lottizzazione dei posti nei consigli di amministrazione. Fattori, questi, che hanno contribuito a tenere alti i costi di produzione dei servizi. Il ricorso alle gare e il rafforzamento del ruolo degli enti locali come regolatori del servizio hanno appunto l’obiettivo di erodere le rendite di monopolio in tutte le loro forme.

Non a caso, il regolamento attuativo del decreto Ronchi-Fitto prevede che in sede di gara debbano prevalere criteri di aggiudicazione basati su qualità del servizio e livello delle tariffe. La regola- zione tariffaria, poi, è affidata agli enti locali e l’impresa che gestisce il servizio non può stabilire le tariffe a proprio piacimento, ma deve attenersi alle regole da questi definite. Ed è prassi regolatoria – da rafforzare nella sua applicazione costituendo, come detto, un’Autorità indipendente di regolazione – che l’adeguata remunerazione del capitale consista nel profitto cosiddetto “normale”, quello, cioè, minimo necessario a remunerare l’interesse sul capitale proprio e il rischio imprenditoriale, con esclusione quindi di extraprofitti di monopolio.

Piuttosto, se da qualche anno assistiamo nel nostro paese a un trend di aumento delle tariffe idriche, questo non ha nulla a che fare con la pretesa privatizzazione del servizio, dato che siamo tuttora in presenza di una larghissima prevalenza di gestioni pubbliche. Laddove (come in Toscana) si registrano tariffe elevate in presenza di società miste, ciò è dovuto alla scelta fatta dai soggetti pubblici di governo locale di imporre tariffe elevate per massimizzare gli introiti derivanti dalla cessione delle quote di minoranza nelle società di gestione del servizio (per inciso, grazie al decreto Ronchi- Fitto i criteri di gara non consentiranno più di privilegiare il valore delle quote a scapito del contenimento delle tariffe).

Al di là di questi casi, il trend generalizzato di aumento delle tariffe ha a che fare con la necessità di finanziare programmi di investimento che sono ormai indilazionabili, se si vogliono colmare i gravi ritardi infrastrutturali accumulatisi nel settore sotto forma di reti acquedottistiche con elevate percentuali di dispersione, reti fognarie da completare e riqualificare e, soprattutto, impianti di depurazione insufficienti a soddisfare standard ambientali degni di un paese civile. Si tratta di ritardi che derivano dalla carenza di investimenti nel passato, dovuta sia a tariffe eccessivamente basse – in media nazionale insufficienti a coprire i costi, in particolare del servizio di fognatura ma in certi casi anche di quello di acquedotto, e comunque inferiori a quelle in vigore negli altri paesi europei che, appunto, sull’idrico stanno investendo – sia a inefficienze gestionali delle aziende pubbliche in monopolio, che hanno ridotto le risorse a disposizione degli investimenti. Al punto che, in alcune situazioni di gestione pubblica (si veda la Puglia), assistiamo al paradosso di alte tariffe a fronte di pesanti ritardi nella realizzazione degli investimenti.

La tensione all’efficienza – che può realizzarsi solo ove i gestori siano vere e proprie imprese, sottoposte alla pressione di una selezione tramite gara e di una regolazione pubblica efficace (scevra dai conflitti di interesse che caratterizzano la commistione tra Amministrazioni pubbliche e gestori dei servizi) – è condizione necessaria affinché gli investimenti possano essere finanziati con il minor aumento possibile delle tariffe: esattamente il contrario di quanto sostengono i promotori del referendum. A ciò si aggiunga che nelle aree del paese dove gli investimenti necessari siano di portata tale che tariffe in grado di coprirne per intero i costi risulterebbero non sostenibili per gli utenti, dovremo prevedere anche l’intervento di risorse di bilancio pubblico: il che, oltre a richiedere di saper tagliare altre spese o di ricorrere a imposte, impone a maggior ragione la ricerca della massima efficienza gestionale.

Infine, è il caso di sottolineare come, anche nel caso di una gestione pubblica del servizio da parte di una azienda di proprietà dell’ente locale, il riconoscimento in tariffa di un profitto “normale” sia necessario a tutelare gli interessi della collettività amministrata. Il fatto è che il profitto “normale” è condizione necessaria per: a) consentire all’azienda pubblica di scegliere la combinazione migliore delle fonti di finanziamento degli investimenti, senza dover ricorrere forzatamente alla sola leva dell’indebitamento che, in assenza di capacità di autofinanziamento, può rivelarsi molto costosa in termini di tasso di interesse da pagare o di garanzie collaterali da offrire sui beni patrimoniali dell’azienda e quindi anche dell’ente locale proprietario; b) coprire per l’azienda pubblica il rischio di modifiche del contesto gestionale – ad esempio variazioni nelle condizioni di domanda e di costo – che altrimenti finirebbero per scaricarsi per intero sul soggetto proprietario, cioè l’ente locale, con effetti di contrazione delle spese di quest’ultimo per altri servizi o di aumento della pressione fiscale sui cittadini. In altri termini, ai fini di una allocazione delle risorse che risponda agli interessi della collettività, le regole del calcolo economico non possono che applicarsi anche ai soggetti pubblici. 

È sconfortante dover constatare come il quesito referendario, contraddicendo questo principio fondamentale, costituisca un ritorno a concezioni ingenue risalenti all’infanzia della sinistra e di cui già Marx aveva fatto giustizia[4] nonché, dopo di lui, gli economisti che negli anni Trenta del Novecento hanno chiarito il ruolo del calcolo economico nel socialismo.

Per concludere, quanto più un bene è pubblico, tanto più è essenziale per tutti che esso sia prodotto e consumato in forme economicamente rigorose: la questione del governo pubblico della risorsa idrica passa quindi non solo per il mantenimento della risorsa e delle reti nella proprietà pubblica, ma anche per il disegno di meccanismi di regolazione e di un assetto del mercato che spingano le istituzioni pubbliche a governare nell’interesse delle collettività amministrate e i gestori dei servizi a comportarsi come imprese e non come burocrazie autoreferenziali. Da questo punto di vista, l’iniziativa referendaria è un triste esempio di disinformazione, sia riguardo ai contenuti reali delle norme in discussione, sia riguardo alla situazione effettiva in cui versa il settore idrico nel nostro paese, sia, soprattutto, riguardo all’interesse pubblico.

 

 


[1] Articolo 154, comma 1 del decreto legislativo 152/06.

[2] Articolo 23-bis, comma 5 della legge 133/08.

[3] Articolo 1, comma 2 del decreto del presidente della Repubblica 168/10.

[4] Si veda ad esempio K. Marx, Critica del programma di Gotha, Massari, Bolsena 2008 (ed. or. 1875).

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