Stati Uniti e Cina: una nuova strategia del “contenimento”?

Di Mario Del Pero Giovedì 08 Luglio 2021 11:03 Stampa
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La relazione con la Cina costituisce oggi la chiara priorità strategica, politica e in una certa misura elettorale che pare informare l’azione internazionale dell’Amministrazione Biden. Relazione, si afferma, nella quale vi sono spazi ancora possibili di collaborazione – pensia­mo ad esempio all’iniziativa globale e multilaterale contro il cambia­mento climatico – ma in cui l’aspetto competitivo e antagonistico sarebbe divenuto ormai predominante. E competizione, questa tra le due potenze superiori del sistema internazionale, che Washington sembra interpretare in chiave sempre meno amichevole e collabora­tiva; nella quale prevale (e si ostenta) il convincimento che si debba agire con fermezza nel contrastare Pechino, contenendone l’influenza e limitandone la capacità di condizionamento dell’ordine mondiale.

Quali sono le matrici di questa linea politica, che pur con alcune rile­vanti differenze presenta numerosi elementi di continuità con quella di Trump? Quali le iniziative politiche che ne conseguono? E, infine, quali le contraddizioni e i potenziali cortocircuiti?

Le matrici, innanzitutto. Che vanno contestualizzate, ossia inseri­te entro una trasformazione del quadro internazionale e di come questo viene letto e interpretato oggi a Washington. La condizione ambientale è quella di una crisi e delegittimazione di quei processi d’integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo nei quali la Cina e l’interdipendenza sino-statunitense hanno giocato un ruolo centrale. Le attuali difficoltà nelle relazioni tra i due paesi sono in larga misura il portato di una crisi, quella del 2008-09, che ha rivelato le tante fragilità della globalizzazione e sotto il cui cono d’ombra per mol­ti aspetti ancora ci troviamo. Implose allora la narrazione benevola che esaltava i benefici diffusi e condivisi dell’integrazione globale, occultandone gli inevitabili baratti e le numerose contraddizioni. Soprattutto, fu esposta la natura altamente ideologica di molti degli assunti che avevano definito la rappresentazione egemone di quella globalizzazione negli Stati Uniti. Si raggiunse allora il limite di una deregulation finanziaria su cui poggiava un modello di consumi a debito che per le famiglie statunitensi e per ampi pezzi di ceto medio impoverito agiva come indiretto ma potente ammortizzatore sociale. Il convincimento che alla apertura e all’integrazione economica della Cina sarebbe conseguita una sua graduale liberalizzazione politica si rivelò del tutto irrealistico. Così come irrealistico fu il credere che alla crescita della potenza economica di Pechino non sarebbe consegui­ta una intensificazione delle sue inclinazioni egemoniche nell’Asia- Pacifico. Infine, e più di tutto, si manifestò con forza lo scarto tra la profondità dell’integrazione globale e il deficit di governance di questa integrazione: tra globa­lizzazione e globalità, per usare un facile slogan.

Da quella crisi si sarebbe usciti sì grazie alla col­laborazione tra Cina e Stati Uniti, che su molte­plici dossier continuò intensa anche negli anni di Obama. Ma con certezze scalfite e un’ideologia, quella cosmopolita e globalista che aveva defi­nito la grammatica della mondializzazione con­temporanea, che negli USA veniva contestata o apertamente rigettata. Senza la crisi del 2008 non potremmo spiegare il ritorno, in forme estreme, di un nazionalismo razziale e unilateralista come quello di Trump; e nemmeno di quello, ben più progressista, civico, e inclusivo di Biden. E non potremmo spiegare come la Cina sia diventata il bersaglio primario di questi due nazionalismi: loro trait d’union in una delle poche con­vergenze bipartisan nell’America iper-polarizzata di oggi.

Cosa si imputa allora alla Cina per invocare un’aggressiva azione di contenimento nei suoi confronti? I due elementi fondamenta­li da cui partire sono le risorse di potenza del gigante cinese e il suo posizionamento dentro i meccanismi della globalizzazione. In un ordine internazionale contraddistinto da forme profondissime e ineludibili d’interdipendenza, e dalla presenza ancor oggi di un at­tore – gli USA – nettamente superiore e per molti aspetti egemone, la potenza relativa e assoluta della Cina è di molto cresciuta. Ce lo mostrano banalmente facili indicatori economici, dalla crescita alla percentuale del PIL mondiale agli investimenti esteri, così come più ambigui parametri militari, tecnologici o culturali, con la Cina che ha sì rinunciato a essere competitor nucleare degli USA, ma ha di molto aumentato i suoi investimenti nella difesa, e che promuove da tempo un’intensa attività di diplomazia pubblica e culturale. Nella gerarchia globale di potenza, la Cina sembra insomma collocarsi in una posizione mediana tra gli USA e gli altri; e Washington si trova quindi per la prima volta dalla fine della guerra fredda a confrontar­si con un attore-rivale capace di contestarne il primato, almeno su scala regionale nell’Asia-Pacifico. Ma le misurazioni della potenza, inevitabilmente parziali e artificiali, ci rivelano solo un pezzo di un mosaico assai più complesso. Perché la Cina non è stata, ed è, solo una potenza in ascesa, ma anche un soggetto che grazie al suo ruolo dentro la globalizzazione può condizionare fortemente l’economia mondiale ovvero mettere questo suo potere – questo suo capitale di condizionalità – al servizio di diversi obiettivi strategici e diploma­tici. Nei percorsi spesso lunghi e tortuosi delle catene transnazionali di produzione, le tappe cinesi sono quasi sempre centrali; gli investi­menti esteri di Pechino le offrono una significativa leva aggiuntiva; così come le sue politiche di aiuti in sviluppo o infrastrutture, quasi sempre promosse senza i vincoli a cui debbono sottostare invece gli Stati Uniti e i loro alleati.

Potenza, relativa e assoluta, e capacità di condizionamento – si affer­ma a Washington – rendono la Cina influente e pericolosa. Anche perché la Cina da un lato non gioca con le stesse regole, come evi­denziato dalle frequenti procedure d’infrazione riguardo brevetti, li­cenze e sussidi attivate nei suoi confronti al WTO, e dall’altro appare sempre più incline a fare uso di queste sue risorse per promuovere una politica estera ambiziosa e aggressiva, in particolare negli spazi marittimi che la mettono in rotta di collisione con gli Stati Uniti e i loro partner in Estremo Oriente, Giappone, Filippine e Vietnam su tutti. Secondo questa lettura, l’attivismo militare, la presenza di nodi fondamentali e ancora irrisolti – a partire ovviamente da Taiwan – e la volontà di mettere in asse potenza economica e influenza geopo­litica indurrebbero la Cina ad abbandonare le cautele del passato e a sfidare, o almeno testare, un ordine securitario nell’Asia-Pacifico centrato sulla rete di alleanze bilaterali e minilaterali costruite dagli USA negli anni, di cui a lungo Pechino aveva invece apprezzato l’ef­fetto stabilizzatore e informalmente normativo. Un ordine, questo, che in materia di sicurezza non ha però mai sperimentato le forme d’integrazione e istituzionalizzazione dello spazio atlantico e che ap­pare quindi più esposto e vulnerabile.

Alle dimensioni dell’integrazione economica e della sicurezza va infi­ne aggiunta quella che per comodità potremmo definire politico-ide­ologica (e, di riflesso, elettorale). La Cina è oggi invisa a una maggioranza ampia e politicamente trasversale di americani. I sondaggi ci dicono che mai da quando i due paesi riallacciarono le rela­zioni diplomatiche alla fine degli anni Settanta, l’immagine di Pechino è stata così negativa negli Stati Uniti. A determinare tutto ciò contribui­scono vari fattori. Opera la summenzionata crisi della globalizzazione e il convincimento diffuso che pratiche commerciali sleali, élite economi­che spregiudicate e pronte a delocalizzare la loro produzione e doppi standard nell’applicazione delle regole abbiano finito per colpire e danneg­giare settori economici centrali negli USA, dal manifatturiero al commercio al dettaglio (con la devastante crisi dei centri commerciali in tanta parte del paese); che le difficoltà di un pezzo d’America e la crisi della middle class statunitense siano cioè da attribuire primariamente a una Cina trasformata in facile capro espiatorio di dinamiche e processi ben più opachi e complessi. Inci­de la virata neo-autoritaria della leadership di Xi Jinping e l’orrore suscitato dalle rivelazioni sulla violenta repressione degli Uiguri o dal giro di vite in atto a Hong Kong. E, sullo sfondo, agisce il retaggio di pregiudizi antichi che alimentano una critica nei confronti della Cina incline talora a tracimare in vera e propria sinofobia.

Se la Cina è un avversario strategico e ideologico degli USA e dei loro alleati, e se la globalizzazione per come è stata costruita non offre uno spazio neutrale e imparziale a questa competizione, quali azioni l’Amministrazione Biden ritiene debbano essere attivate e con quali finalità?

La prima deve essere quella di ridurre la capacità di condizionamento cinese, disancorando gradualmente uno spazio economico integra­ to, ma americanocentrico, dalla Cina (con l’obiettivo collaterale di ridurre l’accesso cinese a tecnologia “sensibile”). Frutto di un’azio­ne, e di un accordo, pienamente bipartisan, la revisione del trattato di libero scambio con Messico e Canada, lo United States-Mexico- Canada Trade Agreement (USMCA, di fatto un NAFTA 2) del 2018 ci offre un chiaro preceden­te e modello. Le clausole relative alla percentuale crescente di componentistica prodotta nello spa­zio UCMCA necessaria all’industria automobi­listica per poter godere delle tariffe zero indicano chiaramente la volontà statunitense di ridurre la presenza della Cina nel ciclo di produzione e, contestualmente, il suo potere di condizionali­tà. Quello che Washington propone, ora anche ai suoi partner europei, pare essere un modello d’interdipendenza al tempo stesso più profondo, collettivo e multilaterale e meno aperto o globa­lizzato. Una forma d’interdipendenza regionale o, come l’ha definita lo storico Jeremy Adelman, “tribale”,1 funzionale appunto a esclu­dere e segregare la Cina, erodendo le fondamenta della sua forza e influenza.

A ciò deve corrispondere uno sforzo coordinato tra Stati Uniti e loro alleati nell’attivare un meccanismo di contenimento strategico della Cina, da perseguirsi riorientando le priorità delle politiche di difesa nazionali, bilaterali o, nel caso di Europa e USA, transatlantiche. Come abbiamo visto anche in occasione del viaggio europeo di Bi­den, è questa la sollecitazione giunta ai partner europei e alla NATO. La sicurezza collettiva dell’Alleanza Atlantica, ha affermato il Presi­dente americano, va definita in forma più estesa, sia in termini di contenuti – nei quali centrale è ormai la cybersicurezza, ambito nel quale la Cina, come del resto gli USA, primeggia – che di spazio. Non è solo l’ordine securitario dell’Asia-Pacifico che va puntellato, aumentando l’impegno statunitense e approfondendo le tante alle­anze che già esistono e le garanzie statunitensi sulle quali esse si fon­dano. La portata della sfida, si sostiene a Washington, impone una risposta ben più ampia che coinvolga anche le democrazie europee.

E questo ci porta all’ultimo elemento, quello politico-ideologico. Il rilancio di un atlantismo declinato in funzione del contenimento della Cina va di pari passo con l’enfasi posta sul collante democratico e liberale di questa comunità, guidata dagli USA, internazionale ma non globale. La “lega delle democrazie” che Biden invoca costitui­rebbe la risposta politica a un autoritarismo, quello cinese, capace di esercitare una fascinazione diffusa per i risultati che è riuscito a ottenere e gli strumenti d’influenza e condizionamento di cui esso dispone. Per Biden, le democrazie debbono raccogliere questa sfida, ripensandosi e rilanciandosi – e questo rimanda agli ambiziosi piani di riforme interne proposti dal presidente statunitense – e collabo­rando dentro spazi ampi e integrati, ma deglobalizzati e finanche “tribali”. E lo possono fare rimettendo sul tavolo il tema e l’ideologia di quei diritti umani e di quelle libertà politiche che Pechino viola sistematicamente.

Disaccoppiare l’economia globale, e quella statunitense, dalla Cina; riorientare in chiave di contenimento della Cina una politica di dife­sa intesa in senso esteso e nella quale centrali sono gli alleati in Asia e in Europa; rappresentare la competizione come una sfida ideologica molto binaria fra democrazia e autoritarismo, tutela della libertà e repressione del dissenso e del pluralismo.

La Cina ha indubbie e pesanti responsabilità rispetto al deteriora­mento dei rapporti con gli USA e alla nuova linea adottata da Wa­shington nei suoi confronti. Linea nella quale vi sono però molteplici potenziali cortocircuiti e, probabilmente, un deficit fondamentale di realismo. Rispetto alla dimensione economica, il decoupling solleci­tato da Washington è complesso e comunque immaginabile solo su tempi lunghi difficilmente compatibili con i cicli elettorali senza tre­gua della politica statunitense. Quattro anni di guerre commerciali e feroci scambi di accuse reciproci hanno intaccato solo parzialmente alcune delle dimensioni cruciali dell’interdipendenza sino-americana (si pensi solo al deficit statunitense), pur in un contesto di riduzione degli investimenti cinesi in Europa e Nord America e con un pri­mo, forte alleggerimento del debito americano in mani cinesi. Infine, molti partner europei – lo si è visto bene in occasione del primo viaggio di Biden in Europa – pur condividendo il desiderio di Wa­shington di usare con più incisività i meccanismi sanzionatori del WTO nicchiano di fronte alla declinazione bideniana di un atlanti­smo sempre più pensato in chiave anticinese. Perplessità, queste, che si estendono anche alla sfera della sicurezza, dove anzi Emmanuel Macron e Angela Merkel sono stati ancor più espliciti nell’obietta­re alle proposte statunitensi e alla retorica da neo guerra fredda del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. La cybersecurity costituisce certamente una frontiera securitaria nuova, che azzera, o comunque obbliga a ripensare, le logiche e lo spazio delle politiche della comunità atlantica. Di qui a lanciare un’offensiva atlantica (e atlantista) contro la Cina ne corre, a maggior ragione in un momen­to in cui già la NATO è divisa su come relazionarsi alla Russia.

L’ideologia e la retorica, infine. Gli schemi molto binari di una rin­novata sfida tra democrazia e autoritarismo fanno riecheggiare il les­sico e i topoi dello scontro tra “mondo libero” e totalitarismo, libertà e schiavitù, della prima guerra fredda. Se anche allora essi semplifica­vano un quadro molto più complesso e opaco, oggi – in un contesto di crisi delle democrazie e di profonda e ineludibile interdipendenza globale – offrono una bussola ancor più inadeguata per orientarsi nel complesso ordine internazionale. Una democrazia come quella statunitense – paralizzata dalla polarizzazione, ferita dai quattro anni di Trump culminati nello sfregio del rifiuto del risultato elettorale e nello sconcertante assalto al Congresso, e avvelenata da un inarresta­bile degrado del discorso pubblico e del confronto politico – difficil­mente può ergersi a modello o offrire lezioni. Ovvero le può offrire, più che con gli slogan e l’ideologia, rilanciando il suo impegno a rispettare e rafforzare le regole della governance globale, rinunciando alle dispense che, in quanto egemone, ha spesso unilateralmente ri­vendicato e ottenuto, e mettendo quindi finalmente in asse retorica e comportamenti.


[1] J. Adelman, The Globalization We Need, in “Institut Montaigne”, 26 maggio 2020, disponibile su www.institutmontaigne.org/en/blog/globalization-we-need.