Riccardo
Già prima del Covid-19 l’Unione europea era in difficoltà. I principi liberali su cui il progetto d’integrazione è basato, la sovranità condivisa e la cooperazione multilaterale, mal si accordavano con le tensioni geopolitiche in aumento tra le grandi potenze, regioni sempre più frammentate a ridosso dei confini dell’UE, nonché la marea crescente di un nazionalismo nativista ed euroscettico. Ad aumentare il senso di isolamento degli europei concorreva anche un grado di estraniamento senza precedenti dagli Stati Uniti, governati fino a inizio 2021 da un presidente come Donald Trump che era non solo scettico delle alleanze di lungo periodo ma anche ostile all’integrazione europea.
Il Covid-19 ha aggravato questa situazione. Il disinteresse di Trump – nell’Europa ma anche nella lotta alla pandemia – ha vanificato ogni sforzo di gestione coordinata dell’emergenza sanitaria. Nel contempo, la crisi innescata dal Covid ha consolidato le tensioni tra Stati Uniti e Cina in una rivalità sistemica che ha indebolito il sistema di istituzioni multilaterali in cui l’UE vanta ancora una certa influenza. Insomma, nella prima metà del 2020 erano presenti tutti gli ingredienti per un’ulteriore e forse fatale crisi dell’Unione.
Eppure, il temuto collasso non si è materializzato. Al contrario, l’urgenza di rispondere alla potenziale catastrofe economica provocata dagli estesi lockdown adottati per arginare il contagio ha spinto gli Stati membri dell’UE a dare un’improvvisa accelerazione all’integrazione. Antichi tabù sono crollati. La Banca centrale europea ha espanso il programma di acquisto di titoli pubblici, che tante pro teste aveva provocato nel 2010-12, senza che si sia levata una voce contraria. Né si è protestato contro la sospensione del totemico limite del 3% al disavanzo di bilancio. Sono emersi invece i contorni di un’unione fiscale, che include non solo trasferimenti diretti agli Stati membri ma anche un’enormemente accresciuta capacità della Commissione di emettere titoli sui mercati. Insomma non è irragionevole aspettarsi che nell’altrimenti terribile eredità del Covid ci sia anche un’Unione europea più coesa. Grazie a Next Generation EU, il piano di rilancio di 750 miliardi di euro, le istituzioni europee avranno più spazio per conciliare la ripresa economica con un’ambiziosa agenda climatica e digitale.
Il quadro non è comunque roseo per l’UE. La dimensione della politica estera e di difesa, e più in generale del ruolo internazionale dell’Unione, è stata sacrificata nelle trattative che hanno portato a Next Generation EU. La tanto decantata “autonomia strategica” dell’UE, e cioè la capacità di ritagliarsi uno spazio d’azione internazionale indipendente, è rimasta più un’aspirazione che altro.
È qui che la relazione con gli Stati Uniti rientra in scena. Le ragioni principali per cui la crisi del Covid, così rilevante per la dimensione macroeconomica, non ha avuto lo stesso effetto rivitalizzante sulle ambizioni globali dell’Unione affondano proprio nell’alleanza atlantica. I perduranti benefici derivanti dalle garanzie di sicurezza offerte dagli Stati Uniti continuano ad alimentare nella stragrande maggioranza dei paesi europei una preferenza per una politica estera di allineamento con Washington. Tenere questa linea era senz’altro diventato più difficile durante la presidenza Trump. Tuttavia gli europei non hanno perso la speranza di una correzione di rotta, tanto più che Joe Biden in campagna elettorale aveva promesso il rilancio dell’alleanza atlantica.
La vittoria di Biden è stata pertanto accolta con enorme sollievo in Europa. Eppure, il fatto che alla Casa Bianca sieda un presidente così fermamente atlantista potrebbe accentuare, piuttosto che ridurre, la dipendenza europea dagli Stati Uniti. Per essere chiari: niente lascia suggerire che una seconda Amministrazione Trump avrebbe reso la vita degli europei più facile. Al di là dei contenuti delle politiche di Trump, spesso in contrasto con le preferenze dell’UE (dal clima all’accordo nucleare con l’Iran, per fare un paio di esempi), era l’approccio generale agli affari globali e specialmente alle relazioni transatlantiche dell’ex presidente che cozzava con la natura dell’integrazione europea. Trump avrebbe continuato a delegittimare soluzioni multilaterali a problemi internazionali a favore di misure ad hoc in linea con gli esclusivi interessi particolaristici americani (o quelli che lui definiva tali), da promuovere più attraverso la coercizione che la diplomazia. E avrebbe anche continuato a sentirsi più a proprio agio con leader autoritari piuttosto che con quelli democratici, anche se a capo di governi di paesi amici.
L’Amministrazione Biden offre quindi un’opportunità di rilancio dell’alleanza con gli europei. Non è tuttavia una panacea a ogni male. Dopo tutto, anche col neo presidente gli interessi strategici degli USA saranno sempre più orientati verso il Pacifico piuttosto che verso l’Atlantico. Anzi, la cristallizzazione della rivalità USA-Cina renderà per certi versi più complicato il compito degli europei.
Il motivo principale è che Biden ha aggiunto una dimensione ideale – o ideologica, se si vuole – alla competizione geopolitica ed economica con la Cina dalla quale gli europei faranno fatica a distanziarsi.
Il presidente USA ha mostrato maggiore sensibilità agli abusi dei diritti umani in Cina, sia per quanto riguarda le restrizioni all’autonomia di Hong Kong sia per quanto concerne la sinificazione forzata imposta agli uiguri, una minoranza turcofona e musulmana che abita nello Xinjiang, nella Cina occidentale. Anche i diritti dei lavoratori e la difesa dell’ambiente, temi verso cui gli europei sono sensibili, sono entrati nella lunga lista dei contrasti sino-americani. A questo naturalmente si aggiungono le divisioni più classicamente geopolitiche, in particolare su Taiwan, della cui autonomia dalla Cina popolare gli USA sono una specie di garante. Né bisogna sottovalutare le controversie sull’uso politico da parte di Pechino delle tecnologie e degli investimenti all’estero, che Washington contrasta apertamente già dagli anni di Trump.
Gli europei hanno già fatto esperienza diretta degli effetti della rivalità sino-americana in un momento in cui dalla Casa Bianca si tende la mano verso l’Europa. La disapprovazione trapelata dall’entourage di Biden ha complicato l’iter di ratifica da parte del Parlamento europeo dell’Accordo complessivo sugli investimenti (Comprehensive Agreement on Investment-CAI), che Cina e UE hanno concluso nel dicembre 2020. In difficoltà rispetto alla nuova Amministrazione, gli europei hanno subito accolto la proposta di Biden di adottare sanzioni contro funzionari cinesi responsabili di violazioni di diritti umani nello Xinjiang. Quando la Cina ha reagito adottando contro-sanzioni su europarlamentari e accademici europei, la ratifica del CAI è stata congelata a tempo indeterminato.
L’esempio del CAI dimostra che, con Biden, la pressione sugli europei perché si allineino con gli Stati Uniti riguardo alla Cina è destinata a crescere. E questo comporta dei costi. Il CAI, dopotutto, ha lo scopo di proteggere meglio gli investitori UE che operano nel mercato cinese, o quanto meno di non lasciarli indietro rispetto agli investitori USA. Un discorso simile vale per l’uso di tecnologie cinesi 5G nei sistemi di telecomunicazione europei, che gli USA avversano ma che alcuni paesi europei trovano molto vantaggiosi economicamente.
Certamente va detto che le preoccupazioni americane riguardo alla Cina – soprattutto per quanto riguarda pratiche economiche scorrette e l’uso politico dell’accesso al mercato o degli investimenti diretti – sono condivise da molti in Europa. Tuttavia, le soluzioni proposte da Washington non sono sempre le migliori per gli europei e ritagliarsi uno spazio d’azione autonomo è più complicato con Biden precisamente perché il neopresidente avanza un’offerta di cooperazione transatlantica genuina. Nonostante le difficoltà, infatti, il potenziale benefico di un rilancio dell’alleanza transatlantica è innegabile. Con Biden alla Casa Bianca per gli europei diventa più facile affrontare controversie bilaterali ma anche promuovere soluzioni multilaterali a problemi globali. Commercio, imposta sulle grandi aziende e clima costituiscono tre importanti esempi in questo senso.
Partiamo dal commercio. Trump aveva trascinato una riluttante UE in una guerra di dazi, a partire dalle importazioni di acciaio e alluminio fino alle tariffe adottate da USA e UE dopo che l’Organizzazione mondiale del commercio ha dichiarato illegali gli aiuti di Stato concessi ad Airbus e Boeing. Con Biden le autorità di USA e UE si sono subito accordate per una sospensione delle tariffe in modo da aprire un negoziato che affronti la questione della sovrapproduzione mondiale di acciaio (di cui è responsabile la Cina) e ponga fine alla querelle Airbus-Boeing una volta per tutte.
Veniamo poi all’imposta minima internazionale sulle grandi imprese. La questione origina dalla difficoltà degli Stati – compresi quelli europei – di assicurarsi che i giganti del digitale (come Apple, Amazon, Facebook o Google) paghino maggiori imposte nei paesi in cui fanno profitti. Per ovviare al problema diversi paesi europei, tra cui l’Italia, hanno adottato una “tassa digitale”, che gli USA e le compagnie high tech avversano in quanto, a loro parere, discriminatoria. Già emersa con Obama, la controversia stava assumendo proporzioni considerevoli sotto Trump. Biden ha proposto un approccio diverso, promuovendo in seno al G7 un accordo per una tassa minima globale del 15%, che dovrebbe limitare la capacità delle multinazionali di sfruttare regimi fiscali esteri più generosi e assicurare un gettito fiscale maggiore agli Stati europei – il tutto, naturalmente, disinnescando una disputa transatlantica.
Anche il clima è un fronte su cui l’avvento di Biden prelude a un rilancio del dialogo transatlantico. È vero che gli USA non appoggiano i piani dell’UE per un aggiustamento del prezzo dei beni importati in base alla loro “impronta carbonica” (se cioè provengono da paesi senza credibili piani di riduzione delle emissioni). Tuttavia, il rientro di Washington nell’Accordo di Parigi ha galvanizzato gli europei in vista della conferenza sul clima di Glasgow e creato il potenziale per un consenso transatlantico su questioni come la trasparenza sui rischi climatici e i finanziamenti per le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici.
Né bisogna dimenticare fondamentali questioni di sicurezza, come il rilancio della NATO in protezione da una Russia sempre più ostile o la ripresa degli accordi di controllo degli armamenti e non proliferazione nucleare. Biden ha subito concordato col presidente russo Putin l’estensione di cinque anni del Trattato New Start sulla riduzione delle testate atomiche. Ha anche rilanciato, grazie alla mediazione degli europei, la diplomazia nucleare con l’Iran con l’obiettivo di riattivare l’accordo del 2015 da cui Trump era uscito unilateralmente.
I paesi europei sono generalmente ben disposti a collaborare con l’America di Biden. Divergono però riguardo alla valutazione se questo sia da farsi allineandosi a Washington oppure rafforzando le capacità d’azione autonoma europea – la suddetta autonomia strategica. In linea di principio, tutti gli Stati membri concordano che l’UE debba essere maggiormente capace di resistere a pressioni esterne, anche se applicate attraverso tariffe e sanzioni extraterritoriali (due strumenti di cui Trump ha fatto largo uso). Sono anche d’accordo sul fatto che l’UE debba adottare regolamentazioni capaci di definire standard tecnologici, climatici, sanitari ecc. globali. Quello che manca è il consenso se ciò debba trasformarsi nel perseguimento di un ruolo globale tout court dell’Unione. Paesi come la Francia indicano nell’autonomia strategica l’orizzonte nel quale sviluppare una capacità di proiezione di forza comune. La Germania, tuttavia, la vede come del tutto supplementare all’alleanza atlantica, e la Polonia come una pericolosa illusione, visto che nemmeno decenni di investimenti produrrebbero garanzie di sicurezza paragonabili a quelle americane.
Con Biden alla Casa Bianca, la riluttanza dei pae-si europei a investire nel progetto di autonomia strategica può crescere, precisamente perché la prospettiva di un estraniamento di lungo termine dagli USA, molto concreta se Trump avesse rivinto, si è ora allontanata. Eppure, il livello di autonomia raggiunto dall’UE in materia commerciale e regolamentare mostra come, dopotutto, un’Unione più coesa non pregiudica la cooperazione transatlantica. Al massimo, la bilancia un po’ meno a sfavore degli europei, mentre gli americani ottengono i benefici di avere un partner più forte e credibile.
L’autonomia strategica europea è un progetto il cui esito sarebbe una partnership transatlantica rafforzata piuttosto che indebolita. Per i suoi fautori, com’è chi scrive, questa è la principale lezione geopolitica della crisi del Covid-19. L’Europa ha bisogno di diventare più coesa e autonoma per meglio influenzare le scelte di un’America il cui orientamento transatlantico di lungo periodo è incerto. Dopotutto, Trump è stato battuto ma non sconfitto, e nel 2024 lui o un altro con le sue idee potrebbe vincere la presidenza. Il modo migliore per prepararsi a un altro eventuale presidente ostile è per l’Europa quello di approfittare della benevolenza di Biden per dare un po’ più di concretezza al suo progetto di autonomia strategica.