Pandemia, società e politica in America Latina

Di Alfredo Somoza Martedì 14 Luglio 2020 15:18 Stampa
Pandemia, società e politica in America Latina ©iStockphoto.com/Oliver Kufner

La pandemia di Coronavirus, come tutte le situazioni di emergenza globale, è arrivata in America Latina leggermente in ritardo rispetto alla sua comparsa in Europa e negli Stati Uniti. Ed è diventata subito un elemento dirompente a livello sanitario, sociale ed economico. Covid-19 ha messo in luce ed estremizzato quasi tutti i mali del sub­continente, antichi e contemporanei. La pandemia sta anche impar­tendo diverse lezioni e premiando alcuni politici, spesso di secondo livello, che si sono distinti per trasparenza, serietà ed efficacia. Qual­cosa che non succedeva da molto tempo. Ad esempio, la ministra peruviana dell’Economia María Antonieta Alva, nominata dal “Wa­shington Post” «eroina della lotta contro le conseguenze sociali della pandemia». La trentacinquenne Alva ha scritto uno dei piani più am­biziosi dell’America del Sud per l’uscita dalla crisi economica, incen­trandolo sulla situazione dei più deboli. Anche in Argentina, paese la cui economia è di nuovo collassata, il neopresidente peronista Al­berto Fernández sta uscendo relativamente bene dalla sfida della pan­demia: tempestivamente e senza demagogie ha applicato misure re­strittive molto severe che sono state accettate dalla popolazione. Oggi i giudizi positivi sulla sua gestione della pandemia sfiorano l’80%, molto più delle preferenze elettorali ottenute da Fernández lo scorso ottobre, quando sconfisse Mauricio Macri. Le misure drastiche adot­tate in Argentina hanno sortito l’effetto di contenere la pandemia, almeno nei primi mesi, malgrado le frontiere comuni con il Brasile in crisi. Lo stesso si può dire dell’Uruguay, dove un altro neopresidente, il liberale Luis Alberto Lacalle Pou, ha scelto la via dell’appello al senso civico e al comportamento individuale responsabile, con gran­di risultati. Poi c’è il caso di piccoli paesi oggi considerati d’esempio a livello internazionale per l’efficacia delle risposte che hanno saputo dare alla pandemia. Cuba e Costa Rica hanno dimostrato al mondo l’importanza della medicina territoriale preventiva, capace di difen­dere la popolazione dal propagarsi del contagio. Ambulatori locali, paramedici in costante contatto con la popolazione, conoscenza dei metodi di protezione dai virus e bassa ospedalizzazione sono state le loro armi vincenti, mentre in Europa e negli Stati Uniti si assisteva al tracollo della medicina altamente specializzata, senza strumenti terri­toriali o quasi, e incentrata sull’ospedalizzazione.

L’altra faccia della medaglia è rappresentata dai paesi governati da regimi che riescono a nascondere le informazioni, come Venezuela e Nicaragua, per i quali non si hanno dati credibili, e soprattutto dal Brasile, vero focolaio del Covid-19 in America Latina e secondo pa­ese al mondo per numero di contagi: qui il presidente Jair Bolsonaro ha fatto tutto il possibile perché la pandemia si diffondesse, istigando i cittadini a sottovalutare l’importanza della prevenzione. Un’azione criminale, secondo i parametri di qualsiasi democrazia, che ha fatto pagare ai brasiliani un prezzo altissimo in termini di sofferenze e di lutti. I consensi di Bolsonaro sono precipitati e l’ex capitano dell’e­sercito ormai teme, a ragion veduta, la richiesta di impeachment che le opposizioni stanno preparando.

Competenza, serietà, capacità di governare: sono dimensioni che, in questo momento d’emergenza, sono tornate centrali agli occhi dei cittadini latinoamericani, qualità da richiedere alla politica che sem­bravano quasi scomparse. Invece, in questi mesi, la pandemia ha fatto dimenticare quella che fino a ieri era una delle principali fonti di consenso politico: la capacità del leader di bucare lo scher­mo “sparandola grossa”, di gestire le telecame­re urlando contro l’avversario, di dividere più che di unire. A uscire vincenti da questa sfida sono infatti quei politici che davvero riescono a immedesimarsi nei “problemi di tutti”, come si vantano di fare i leader populisti, e che adottano toni “popolari” non per protestare o attribuire ad altri le colpe, quanto piuttosto per dare risposte concrete. Questo bisogno di governanti autorevoli e all’altezza della situazione è trasversale: va a premiare sia politici eletti recentemente, come in Argentina e Uruguay, sia figure che fanno parte di governi provvisori, come in Perù. Covid-19 sembra dunque aver determinato una gigantesca morato­ria sulla demagogia e sulla politica da salotto televisivo o da piazza. Oggi il politico che va per la maggiore in America Latina è quello che traduce le promesse in fatti mostrando serietà nell’affrontare una crisi inedita, e che la gente riesce a sentire vicino. Da questo punto di vista la pandemia sta diventando un potente motore di rinnova­mento della classe dirigente latinoamericana. Se la politica torna a essere competenza, onestà e capacità, si rafforzano le deboli demo­crazie della regione, scosse spesso da crisi economiche e da ondate di populismo.

Per l’America Latina, oltre chiaramente alle perdite di vite umane, i danni maggiori causati dalla pandemia riguardano l’economia. In particolare il settore del cosiddetto “lavoro informale”, che occupa dal 30 al 50% della popolazione attiva: venditori ambulanti, colf, giardinieri, muratori, badanti che lavorano in nero e vivono alla giornata. In Perù, ad esempio, il 43% dei lavoratori è fermo e non percepisce nessun reddito, e per l’80% si tratta di lavoratori infor­mali. La CEPAL (Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi, organismo economico delle Nazioni Unite) prevede che l’America Latina perderà 6 punti di PIL regionale, con un aumento di 15 milioni di unità nel numero dei disoccupati; in tutto, 40 mi­lioni di persone piomberanno nella povertà entro la fine dell’anno. A questo buio panorama si aggiunge il calo di entrate fiscali per via della scomparsa del turismo e del calo dell’export: di conseguenza ci saranno minori risorse per garantire sanità e sussidi. In aggiunta, si ha l’aumento esponenziale e generalizzato del debito pubblico, una delle piaghe più antiche dell’America Latina. Secondo gli esperti, dal punto di vista economico si tratterà della peggiore crisi della storia per la regione.

Il raffreddamento dell’economia cinese sta mettendo a nudo un pro­blema che da molti anni si ignorava, e cioè la debolezza strutturale di un’economia regionale ancorata all’andamento delle quotazioni delle commodities. Si tratta, in realtà, di un fenomeno che non coin­volge in modo contemporaneo tutti gli Stati di quest’area, per via dei bisogni diversi del mercato globale. In questo momento sono in grande sofferenza i produttori di petrolio, come Messico, Venezuela ed Ecuador, e di minerali come il rame o il litio, risorsa importan­te per Cile e Bolivia. Invece non soffrono particolarmente i grandi produttori di cereali e di soia del Mercosur (Argentina, Paraguay e Uruguay) perché, a causa degli incendi che hanno distrutto metà dei raccolti australiani e delle restrizioni imposte all’export di Russia e Stati Uniti per motivi strategici, le quotazioni dei cereali sul mercato mondiale sono in costante aumento. Tuttavia le esportazioni di ce­reali non basteranno a sostenere le economie in profonda recessione di questi paesi, con milioni di nuovi poveri e disoccupati da assistere. Anzi, è già iniziato il ricorso massiccio al debito, con l’emissione di moneta, causa di inflazione, e tutte le conseguenze sociali e l’instabi­lità politica che ne deriveranno.

La società latinoamericana uscirà ulteriormente divisa tra i ceti che rientrano nell’economia “formale” e nel mercato della casa, e che possono contare su sanità ed educazione private, e quelli che inve­ce ne sono esclusi, senza accesso alla casa né al lavoro regolare, utenti della sanità e della scuola pubblica, dalla qualità già bassa. Ciò vale anche nei paesi in cui l’esclusione di massa è un feno­meno relativamente recente, ad esempio l’Argen­tina del post default del 2001. La convivenza tra questi due pianeti che compongono la società latinoamericana è sostenibile in periodi di cre­scita economica: quando gli Stati sono in grado di erogare sussidi e aiuti di vario tipo, e quando l’economia in crescita genera impiego, anche se di natura informale, come il commercio ambulante. In periodi di recessione, e mai come ora, questo equilibrio salta. I ricchi si chiudono nei loro quar­tieri, dove vengono assistiti grazie alle assicurazio­ni mediche private, mentre tutti gli altri vengono abbandonati, come è successo nelle favelas brasiliane, ecuadoriane, peruviane o argentine: luoghi in cui – si scopre all’improvviso – non sono possibili nemmeno le misure minime di prevenzione sanitaria, per via della mancanza di acqua e perfino di spazio per distanziare le persone. Favelas nelle quali, come in Brasile o in Messico, a garanti­re un minimo di regole anti-contagio sono stati finora i cartelli del narcotraffico.

Le manifestazioni che si sono tenute in questi mesi in Bolivia, Cile, Ecuador, Brasile hanno avuto parole d’ordine contradditorie, alme­ no all’apparenza. Da una parte lavoratori informali che protestavano sotto lo slogan “abbiamo fame, vogliamo lavorare”, dall’altra manife­stazioni dai balconi dei quartieri ricchi di São Paulo o Rio de Janei­ro, dai quali si protestava contro il presidente Bolsonaro chiedendo norme più restrittive. Salute versus economia, insomma. È un dilem­ma che certo riguarda anche l’Europa, ma che in America Latina è diventato la cartina di tornasole di società locali fratturate che si sono riscoperte ancora più deboli, polarizzate, ingiuste di prima. Chi ha il reddito e la sanità garantiti vuole che tutti restino a casa; chi invece, dopo 48 ore senza lavorare, non ha da mangiare e non ha accesso nemmeno a servizi assistenziali vuole poter continuare a vivere come prima, anche a costo di rischiare la vita.

Forse mai prima d’ora c’è stata una presa di coscienza così veloce e profonda dei mali sociali di gran parte dell’America Latina. Ma quali potranno essere le risposte della politica? Le alternative sono poche e la situazione di partenza segna una grande differenza. Ci sono paesi che, anche se malconci, hanno un sistema di salute pubblica di tut­to rispetto, addirittura con capacità propria per quanto riguarda la ricerca; altri, al contrario, hanno sempre negato il diritto alla salute a chi non potesse pagarselo. E questi ultimi sono la maggioranza. Chi ha un sistema pubblico sicuramente investirà ulteriormente per adattarlo a questa nuova situazione globale, mentre chi ne è privo e dipende solo dalla sanità privata non potrà fare molto.

Sul piano dell’economia, per ora la crisi non ha insegnato niente di costruttivo. Anzi, l’unica esperienza di integrazione economica e creazione di un mercato regionale fuori dall’Unione europea, il Mercosur, è stata messa in discussione sia dal presidente brasiliano Bolsonaro, sia da quello argentino Fernández. Meno integrazione tra gli Stati latinoamericani significa più dipendenza dai grandi impor­tatori asiatici ed europei, e quindi maggiore dipendenza dall’export di materie prime. L’Argentina peronista è il paese sudamericano che più ha colto l’occasione della pandemia per stringere ulteriormente le relazioni con Pechino. La Cina è stata il fornitore esclusivo del materiale sanitario comprato dall’Argentina durante la crisi, e la di­plomazia di Buenos Aires sta lavorando per agganciarsi al progetto cinese di mega investimenti in infrastrutture all’interno della replica della nuova Via della seta per il Sudamerica, finora sottoscritta solo dal Cile. Il Fondo monetario internazionale ha pubblicato diversi documen­ti sulla regione, che dopo molti anni torna a essere sotto la lente degli analisti. Al centro dell’attenzione c’è il ritorno di due dei più preoccupanti fantasmi delle economie latinoamericane, l’inflazione e il debito estero. Al di là dei “casi patologici”, in tutti i paesi della regione l’inflazione, a seguito di emissione di moneta, sta salendo dopo 25 anni di stabilità. Esclusi Venezuela e Argentina, la media continentale è stata dell’8% nel primo quadrimestre del 2020. Re­sta, invece, relativamente basso l’indebitamento medio rispetto al PIL, anche senza considerare il Venezuela, che è fermo al 44%, con punte dell’80-90% per Argentina, Brasile o El Salvador. Sulla carta, dunque, la capacità di indebitamento sarebbe buona, ma il rating non brillante dei paesi mag­giormente indebitati li obbliga a emettere bond con tassi d’interesse consistenti. Questo perché l’America Latina è tornata a essere considerata “inaffidabile” da diversi punti di vista. Da quello economico perché, ancora una volta, si è potuta constatare la debolezza di una regione che vive sostanzialmente delle sue commodities: anche il Cile, paese che era considerato un esempio con­tinentale, oggi perde colpi. Da quello sociale, perché in gran parte dell’America Latina la frat­tura tra “inclusi” ed “esclusi” si è ulteriormente allargata, alimentando non soltanto situazioni di estrema povertà ma anche quei fenomeni criminali che sempre pro­sperano nelle situazioni disperate. Da quello politico, infine, perché dopo una stagione di grandi leader capaci di incidere sui mali antichi dei loro paesi, come fece Lula in Brasile, si è tornati ai populismi peggiori: Stati come Nicaragua, Bolivia e Venezuela già si colloca­no fuori dalla democrazia, altri rischiano di scivolare in quelle stesse condizioni, come il Brasile di Bolsonaro.

La pandemia, insomma, ha evidenziato le odierne “vene aperte” dell’America Latina, parafrasando Eduardo Galeano, ma ha anche messo a nudo l’incompetenza, la demagogia, il populismo fine a se stesso di una parte della classe politica. Tutti gli indicatori ci di­cono che, da diversi punti di vista, l’America Latina arretrerà nel suo insieme. D’altra parte, però, si percepisce che i cittadini stanno guardando con occhi diversi la politica e le istituzioni, rivalutando il tanto vituperato settore pubblico, denigrato per decenni dai gover­ni privatizzatori. Trasparenza, efficienza, democrazia e ripensamento del modello di Stato potrebbero essere gli elementi fondanti di una nuova stagione: e, se così sarà, potrebbe essere l’unico lascito positivo della pandemia.