Senza i britannici, una svolta federale?

Di Andrew Duff Mercoledì 19 Maggio 2021 11:20 Stampa

L’Unione europea deve ancora fare i conti con la Brexit. Senza dub­bio la gestione della secessione del Regno Unito è stata molto costosa a livello di tempo e di sforzi a partire dal 2015, quando il primo ministro Cameron lanciò la sua rinegoziazione dei termini di ade­sione della Gran Bretagna. Queste vicende ci hanno lasciato molto su cui riflettere: l’uscita non sollecitata dall’Unione europea di uno Stato membro ricco e potente segna la fine della classica strategia di espansione e armonizzazione fra i paesi, formulata per la prima volta in occasione del vertice dell’Aia del 1969. La Brexit ha sconvolto la missione storica dell’Unione europea, quella di formare una «unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa», che sembra oggi impos­sibile. Il popolo britannico resta parte dell’Europa ma ha scelto la strada della disgregazione.

Durante i negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’UE, molti Bre­xiteers sostennero che sarebbe stato meglio non concludere alcun ac­cordo anziché raggiungerne uno a loro sfavorevole. Naturalmente era un’assurdità e infine, alla vigilia di Natale del 2020, è stata raggiunta un’intesa. Tuttavia, il Trade and Cooperation Agreement (TCA, ov­vero l’accordo sugli scambi e la cooperazione tra UE e Regno Unito), si è rivelato un cattivo accordo, che non è destinato a durare. Sulle merci non vengono imposti dei dazi, ma le catene di approvvigiona­mento subiscono pesanti interruzioni a causa delle norme più rigide sui requisiti di origine e dell’imposizione di verifiche alle frontiere su tasse e dazi e di controlli relativi a salute e sicurezza. Le difficoltà nel fare business tra le due sponde della Manica sono aggravate dall’isti­tuzione di una vera a propria frontiera tra la Gran Bretagna e l’Irlan­da del Nord, che rimane all’interno dell’unione doganale dell’UE. Il TCA non prevede praticamente nulla per quanto riguarda gli scambi di servizi, la mobilità delle persone o la cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza. I diritti di pesca rappresentano tuttora un motivo di contesa, soprattutto con la Francia.

Molto probabilmente, nel 2024 il Regno Unito chiederà all’UE una rinegoziazione generale del Trade and Cooperation Agreement. Pur ipotizzando che entro quell’anno i conservatori non saranno più al governo, non va sottovalutata la portata dell’incompetenza e delle divisioni interne in seno ai partiti dell’opposizione della Camera dei Comuni. Anche un nuovo governo conservatore dovrà ripresentarsi a Bruxelles in veste di demandeur. Il programma relativo alla rinegozia­zione sarà incentrato su misure atte a migliorare l’accesso della Gran Bretagna al mercato unico, processo paragonato da Michel Barnier a un inaccettabile “ordine alla carta”, prendo questo e scarto quello, durante le discussioni sull’articolo 50. La forte coesione di cui l’UE a 27 ha dato prova nel corso della Brexit I continuerà a essere tale con la Brexit II? Vi saranno altri Stati membri, come l’Ungheria e la Polonia, che tenteranno di emulare la Gran Bretagna cercando di ottenere termini più vantaggiosi di adesione all’UE?

La rinegoziazione farà riemergere le questioni spinose che hanno complicato la conclusione dell’accordo iniziale. Come saranno defi­niti la reciprocità e il mutuo riconoscimento e come verranno appli­cati agli scambi di servizi tra UE e Regno Unito? La Commissione potrà fare affidamento sul nuovo quadro normativo britannico per l’intero spettro delle tematiche relative al merca­to interno, dalla protezione ambientale agli aiuti di Stato? Vi sono ottime ragioni per ritornare al libero scambio con le vaste risorse di liquidità e i servizi finanziari avanzati della City londinese, ma il presupposto che non vi saranno contrac­colpi va verificata. Le arti e le scienze dell’Europa trarranno sicuramente beneficio da un ripristino dei precedenti legami con la Gran Bretagna, ma a quali condizioni?

L’esito più probabile della Brexit II sarà un ac­cordo di associazione sul modello ucraino, ba­sato su uno spazio di libero scambio globale e approfondito. Con il passare del tempo, tuttavia, questa potrebbe rivelarsi una base troppo debole per la partnership fra Gran Bretagna e UE, soprattutto se aumenterà il desiderio di una cooperazione po­litica più stretta in materia di sicurezza e difesa. Il Regno Unito non presenterà domanda di riammissione nell’UE in veste di Stato mem­bro a pieno titolo, ma non è improbabile che cerchi una nuova forma di affiliazione all’Unione che comporti almeno un parziale coinvolgi­mento nelle istituzioni europee. Dal momento che gli attuali trattati non prevedono una simile forma di adesione, la richiesta da parte di Londra accrescerebbe la pressione sull’Unione affinché intraprenda una nuova procedura di modifica dei trattati.

Qualora il Regno Unito introducesse il concetto di paese affiliato, sicuramente altri paesi terzi, tra cui la Norvegia, seguirebbero il suo esempio. L’adozione di una forma alternativa di partecipazione all’UE risulterebbe allettante per i Balcani occidentali, per l’Ucraina e, infine, per la Turchia. Poiché un ulteriore allargamento dell’U­nione è già diventato praticamente e politicamente impossibile, l’al­ternativa di un’affiliazione permetterebbe all’Unione di risolvere più agevolmente i problemi con alcuni paesi vicini.

Per l’Unione, la prospettiva di una modifica ai trattati è terrificante. Ma l’uscita dei britannici, irriducibilmente euroscettici, rende più fattibile per altri avanzare in direzione di una riforma in senso fe­derale. L’affiliazione fungerebbe da porto sicuro, come una sorta di uscita di sicurezza, per qualsiasi attuale Stato membro che scelga di non intraprendere la strada del federalismo.

L’UNIONE FISCALE

L’altro principale elemento trainante verso un’unione federale è la politica fiscale comune, la cui necessità ha cominciato a emergere in maniera evidente in seguito alle conseguenze devastanti della pan­demia di Coronavirus sull’economia europea. La decisione dell’UE di accrescere il debito comune su larga scala per aiutare la ripresa economica non ha precedenti e va gestita con cura. Sia gli aspetti relativi alle entrate che quelli riguardanti le spese del programma per la ripresa, Next Generation EU, dovrebbero essere gestiti quanto più possibile in termini federali. In particolare, il Dispositivo per la ripresa e la resilienza da 672,5 miliardi di euro (tra cui 312,5 miliardi che saranno erogati sotto forma di prestiti a fondo perduto) dovreb­be essere destinato dalla Commissione solo per investimenti mirati a generare un reale valore aggiunto su scala europea. L’esperimento di emissione del debito comune perderà rapidamente attrattiva se la Commissione si accontenterà di progetti prociclici a breve termine caldeggiati dai politici di turno dei partiti nazionali. Sebbene l’ini­ziativa del debito sia stata proposta agli Stati “frugali” come misura eccezionale, da non ripetersi, se il lancio degli eurobond su vasta scala avrà successo non ci sarà alcuna ragione per non riproporli in futuro.

Idealmente, inoltre, i detentori degli eurobond dovrebbero essere pagati non tramite entrate de­rivanti dai contributi nazionali di Reddito nazio­nale lordo (RNL) al budget dell’UE, bensì con vere risorse proprie, ottenute mediante la tassa­zione dell’UE. Ciò richiede una compartimen­tazione del budget dell’UE in sezioni federali e confederali, una riforma che non solo farà risparmiare denaro alle tesorerie nazionali, ma collegherà direttamente il cittadino europeo contribuente al governo dell’unione fiscale europea. All’interno della Commissione verrà quindi istituito un ministero del Tesoro dell’UE, il che logicamente comporterà altre riforme necessarie per consoli­dare l’unione bancaria e del mercato dei capitali, compresa la piena integrazione del Meccanismo europeo di stabilità. La Commissione avrà il compito di attuare una politica economica comune dell’Unio­ne e non semplicemente quello di cercare di coordinare le politiche economiche nazionali.

La Brexit è riuscita a concentrare il potere esecutivo nelle mani del­la Commissione e questo trend dovrà essere portato avanti anche in campo fiscale. La modifica dei trattati è necessaria per codificare i cam­biamenti già in corso e per riformare le regole fiscali dell’eurozona. Gran parte dei progressi compiuti finora sono stati realizzati durante il mandato di Paolo Gentiloni presso la Commissione, e nessuno meglio di Mario Draghi può assolvere al ruolo di fautore del completamento della riforma della politica fiscale nel Consiglio europeo.

IL CONSIGLIO DI SICUREZZA EUROPEO

Da sole, l’UE e la NATO non si sono dimostrate in grado di offrire la sicurezza efficace e intelligente di cui l’Europa ha bisogno, e fino ad oggi, inoltre, la divisione tra le due organizzazioni, pur entrambe con sede a Bruxelles, ne ha reso impossibile la cooperazione. Sono in molti a dubitare che l’UE possa mai sviluppare una politica este­ra e di sicurezza comune coerente. La NATO è alla ricerca di una prospettiva strategica sin dai tempi della fine della guerra fredda e fatica a conservare il coinvolgimento degli americani. L’elezione del presidente Biden e l’uscita del Regno Unito dall’UE offrono un’op­portunità per rimodellare l’architettura della sicurezza del mondo occidentale. La necessità di dotarsi di nuove istituzioni è evidente: se l’espansione dell’UE si è fermata, occorre creare nuovi legami al fine di rispondere alle necessità in materia di sicurezza di tutti i paesi europei.

Il presidente Macron è stato il primo a formulare una critica intelli­gente degli accordi attuali. Se sarà rieletto nel 2022 sarà in grado di proporre una strategia di sicurezza globale che abbatta le barriere tra UE e NATO. Da una riunione congiunta del Consiglio atlantico e del Consiglio europeo potrebbe nascere la decisione di stabilire un sistema di incontri periodici dei ministri della Difesa, inclusi quelli di Stati Uniti e Regno Unito. Considerando che Jens Stoltenberg terminerà il proprio mandato di segretario generale della NATO nel 2022, il suo successore dovrebbe essere un ministro della Difesa eu­ropeo nominato presidente permanente con duplice ruolo nel nuovo organismo ministeriale.

LA MODIFICA DEL TRATTATO

Innovazioni di questo tipo per l’Unione europea a livello di adesione, unione fiscale e politica di difesa richiederanno la modifica del Trat­tato di Lisbona. Questa operazione deve essere preparata con cura. Si sente molto parlare della Conferenza sul futuro dell’Europa, ma in realtà non esiste un chiaro accordo tra le istituzioni europee, per non parlare di una visione concorde sulle finalità, l’organizzazione o la leadership di tale Conferenza. È sempre affascinante perdersi in discorsi di principio, ma non si può che provare rammarico per il fatto che il Parlamento europeo non riesca a essere più coerente, concreto o ambizioso su questioni di natura costituzionale, come lo fu invece nei gloriosi giorni di Giorgio Napolitano. Ursula von der Leyen, una conservatrice, non ha intenzione di assumere la guida nella Conferenza. Va da sé che le restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19 non aiutano e che fino a quando non potremo tornare a incontrarci di persona la politica avrà poca incisività. Inoltre quest’anno la Ger­mania attraversa una fase di transizione. Si spera che il successore di Angela Merkel dia la priorità a una riforma radicale piuttosto che a un’unità di facciata. L’Europa ha bisogno di un altro Cancelliere te­desco della statura di Adenauer, Brandt e Kohl, tutti personaggi che hanno saputo cogliere le opportunità al momento giusto.

In ogni caso, prima della modifica del trattato dovrà esserci una Con­venzione, ed è qui che la pressione da parte dei federalisti si farà sentire maggiormente. Il 2029 sembra una data ragionevole per l’en­trata in vigore dell’accordo costituzionale; in quell’anno ricorrerà il cinquantesimo anniversario dell’introduzione delle elezioni dirette al Parlamento europeo. È troppo sperare che per celebrare tale occasio­ne alcuni eurodeputati siano eletti utilizzando liste transnazionali per un collegio elettorale paneuropeo? C’è un grande bisogno di partiti politici federali per realizzare il sogno di Altiero Spinelli e affinché il nostro nuovo sistema politico europeo sia meglio governato e com­pletamente legittimato.

Più in generale, dobbiamo compiere uno sforzo per rendere i trattati meno proibitivi e più permissivi, potenziando la capacità di azione dell’UE. Il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio dovrebbe essere esteso alle decisioni sulla tassazione, sulle entrate provenienti da risorse proprie e sul quadro finanziario pluriennale. Per ottene­re una credibilità sovranazionale occorre ridurre le dimensioni del collegio dei Commissari. Dovrebbe essere la Commissione, e non il Consiglio, a rappresentare l’eurozona nelle questioni monetarie in­ternazionali. Altre funzioni del Consiglio, come la determinazione dei prezzi agricoli e delle quote di pesca, dovrebbero venire trasferite alla Commissione. Se vogliamo tenere unita quell’Europa più ampia e più differenziata da noi immaginata, il suo centro deve iniziare ad agire e presentarsi come un governo federale.