Verso una revisione della governance economica europea

Di Irene Tinagli Mercoledì 19 Maggio 2021 11:19 Stampa

Il dibattito pubblico sulla adeguatezza della governance economi­ca europea è in corso praticamente da quando le regole sono state introdotte nella loro forma più rudimentale con il Trattato di Maa­stricht (1992) e – successivamente – con il Patto di stabilità e crescita (1997). Nel corso di questo quarto di secolo, studiosi e commenta­tori di varia estrazione culturale e di diverso orientamento politico si sono pronunciati con analisi critiche più o meno severe che hanno investito la natura delle regole, la loro reale applicabilità e la loro stessa necessità.

La vera novità che ci troviamo davanti è che la Commissione euro­pea – sotto impulso del commissario per l’Economia Paolo Genti­loni – ha aperto nel gennaio del 2020 una consultazione pubblica sul tema, incoraggiando studiosi, organizzazioni, governi, istituzioni pubbliche e private a prendervi parte inviando i loro contributi. Seb­bene questa consultazione sia stata aperta prima dell’esplosione della pandemia Covid-19, le conseguenze, che da essa sono seguite, han­no inevitabilmente incardinato la maggior parte della discussione su questioni che erano state inizialmente meno dibattute ma che hanno assunto una certa rilevanza negli ultimi mesi.

La tempestiva attivazione della cosiddetta “clausola di salvaguardia generale” da parte della Commissione europea ha permesso agli Stati membri di affrontare il crollo dell’attività economica, fornendo sus­sidi e garanzie ai settori economici maggiormente colpiti. Tuttavia, sebbene questo supporto straordinario sia stato visto positivamen­te da tutti i commentatori, sta emergendo con altrettanta forza la necessità di immaginare quali regole dovranno essere applicate una volta che la pandemia da Covid-19 sarà finalmente debellata, e i suoi effetti economici negativi saranno assorbiti. Il consistente aumento del debito pubblico che si è osservato in tutta l’Unione europea nel corso dell’ultimo anno sta infatti mettendo in dubbio l’attualità dei meccanismi di convergenza esistenti. Ma, più in generale, è proprio l’impianto complessivo del Patto di stabilità ad apparire datato e bisognoso di una revisione che gli consenta di svolgere in maniera efficace il ruolo per cui è stato originariamente pensato, ossia quello di garantire la coesistenza di diversi Stati so­vrani all’interno dell’Unione monetaria. La struttura attuale appare eccessivamente complessa, basata per larga parte su variabili non os­servabili (PIL potenziale, deficit strutturale ecc.), e su regole di natu­ra prettamente quantitativa. L’attenzione è quasi interamente volta al breve periodo, mentre poca o nessuna considerazione è riservata alla sostenibilità intertemporale del debito, alla sua scadenza media, al tipo di indebitamento (interno/esterno). Infine, non esiste nessuna discriminazione fra spesa in conto corrente e spesa in conto capitale, con una inevitabile penalizzazione degli investimenti pubblici nella composizione dei bilanci nazionali.

A rendere particolarmente impopolare il Patto di stabilità e crescita nell’immaginario collettivo di larga fetta dei cittadini europei – e in particolar modo di quelli mediterranei – sono però due debolezze strutturali che stanno alla base dell’attuale governance macroecono­mica europea. La prima è collegata a un approccio “regole e sanzioni” che innerva tutta la struttura del Patto e che si è rivelato troppo rigi­do e inadeguato soprattutto nei periodi di crisi economica. I requisiti minimi affinché questo approccio sia credibile e (democraticamen­te) sostenibile sono due. Per prima cosa, le regole dovrebbero essere percepite sempre e comunque come “giuste ed eque” e commisurate alla situazione. Inoltre, ci dovrebbe essere un chiaro legame fra una conseguenza negativa e una azione sbagliata. È evidente che l’attuale struttura di governance non rispetta nessuno di questi due criteri. Nei periodi di profonda crisi economica che hanno attraversato l’U­nione e in particolare alcuni suoi Stati membri, la rigidità di questo approccio ha finito per tradursi in misure pro-cicliche che hanno reso più difficile e lenta la ripresa economica e hanno diffuso nei cittadini di questi paesi la convinzione che il risanamento fosse, in sé e per sé, qualcosa di negativo a prescindere, alimentando spes­so un rigetto incondizionato nei confronti di tutta la governance economica europea. Peraltro, la consapevolezza da parte delle stes­se istituzioni europee di tale debolezza ha fatto sì che, nonostante il mantenimento costante delle regole, l’apparato sanzionatorio di fatto non sia mai stato applicato nella sua interezza, ingenerando nei cittadini dei paesi più “virtuosi” la sensazione di un sistema di “re­gole e sanzioni” squilibrato, ingiusto e arbitrario, e facendo quindi sì che, paradossalmente, il Patto di stabilità negli ultimi anni sia stato criticato in modo trasversale, anche se per motivi opposti, da diversi membri dell’Unione.

La seconda debolezza strutturale è la pressoché totale mancanza di considerazione da un lato della eterogeneità fra i vari Stati membri e, dall’altro, della dimensione sistemica delle politiche fiscali nazio­nali in una unione monetaria. Tutto il Patto di stabilità e crescita è implicitamente costruito sull’assunto che i paesi siano tutti uguali, e che le politiche fiscali nazionali abbiano effetti limitati unicamente al territorio nazionale. Tuttavia, è chiaro che gli Stati membri non sono tutti uguali e che ogni politica fiscale non esaurisce i suoi effetti all’interno dello Stato che la adotta, ma ha impatti più o meno consi­derevoli anche negli altri Stati membri che sono tanto maggiori quanto è maggiore l’integrazione commerciale e finanziaria fra loro.

La dimensione sistemica delle politiche fiscali nazionali ha ulteriormente minato la già fragile credibilità dell’approccio “regole e sanzioni”. La presenza di eterogeneità e interdipendenza fra paesi, dove le scelte di uno Stato membro posso­no avere conseguenze negative anche sugli altri, senza che questi ultimi ne abbiano responsabili­tà, ha reso ancora più complicato giustificare agli occhi dei cittadini la credibilità dell’impianto di governance economica, creando una generale crisi di rigetto verso il Patto di stabilità e crescita e le altre regole europee. Un rigetto che – pur con diverse intensità – ha caratterizzato trasversalmente quasi tutte le forze politiche italiane. Nel corso dell’ultimo decennio non c’è stato governo o maggioranza che non abbia trasformato il grigio e burocratico appuntamento annuale della consegna della bozza di manovra alla Commissione europea in un duello da cavalleria ru­sticana. Sebbene le roboanti dichiarazioni politiche su “sforamenti” più o meno consistenti fossero funzionali a coprire un fitto negoziato bilaterale con la Commissione, l’effetto è stato quello di alimentare ulteriormente nella maggior parte dell’opinione pubblica la convin­zione che quelle regole fossero sbagliate e non andassero rispettate.

È chiaro, quindi, che se si vuole ricostruire una credibilità – e auspi­cabilmente anche un sostegno – al nuovo Patto di stabilità e crescita, la discussione sulla futura riforma della governance economica eu­ropea non potrà che partire da queste due fondamentali debolezze.

Eterogeneità e interdipendenza non sono però rilevanti solo per comminare sanzioni o penalizzazioni. Sono anche elementi cruciali da tenere in considerazione nel definire l’andamento di variabili fon­damentali che non potranno che far parte di qualsiasi schema futuro di governance economica: dall’evoluzione di lungo periodo del rap­porto fra debito pubblico e PIL ai tassi di crescita di lungo periodo, passando per i tassi di interesse sullo stock di debito pubblico. Se da un lato è una buona notizia che l’attenzione si stia progressivamente spostando dalla sostenibilità di breve a quella di lungo periodo – e quindi dal deficit al debito – è altrettanto importante superare l’idea un po’ semplicistica che si possa imporre a ciascuno Stato membro la stessa velocità di aggiustamento.

Come anche la Commissione europea ha riconosciuto in passato, l’eterogeneità fra paesi fa sì che a una stessa velocità di aggiustamen­to possano corrispondere diverse intensità di sforzo fiscale, perché uno Stato può dover sostenere un premio al rischio più elevato sul proprio debito pubblico. Allo stesso modo, anche l’idea di avere un target di lungo periodo per il livello di indebitamento uguale per tut­ti potrebbe non essere adeguato, indipendentemente dal livello a cui verrà fissato. Anche supponendo che un giorno tutti gli Stati membri raggiungessero questo ambizioso traguardo, l’eterogeneità delle loro economie farebbe sì che ciascuno non solo risponderebbe in modo diverso a eventuali shock simmetrici o asimmetrici che potrebbero colpirlo, ma dovrebbe applicare differenti politiche per mantenere stabile quel livello di indebitamento. Alcuni paesi sarebbero in grado di mantenere con molta facilità il loro debito in linea con il target, altri sarebbero costretti a realizzare ogni anno manovre di aggiusta­mento mentre altri ancora potrebbero addirittura permettersi un sistematico disavanzo primario. Insomma, economie con strutture diverse che presentano livelli iniziali di indebitamento diversi do­vrebbero avere regole per la fase di convergenza e obiettivi a lungo termine anch’essi diversi.

La questione è complessa e non ci sono soluzioni semplici e imme­diate, ma su questo punto non partiamo però da zero. La Comuni­cazione sulla flessibilità del gennaio 2015, grazie all’introduzione di alcune clausole ed eccezioni, ha consentito temporanee deviazioni dai percorsi di rientro stabiliti. Tuttavia, tali deviazioni, più che il frutto dell’applicazione di una eccezione, sono state il risultato di negoziati bilaterali fra Commissione e singolo Stato membro su cui hanno pesato molto i rapporti di forza e la contingenza politica. La revisione del Patto di stabilità e crescita è l’occasione per fare un salto di qualità verso una governance meno discrezionale ma più su misu­ra per ciascun paese, e quindi più credibile.

Il problema dell’eterogeneità fra paesi diventa ancora più complesso da trattare se considerato congiuntamente a quello dell’interdipen­denza. La sempre maggiore integrazione economica e finanziaria ha reso gli Stati membri dell’UE sempre più legati l’un l’altro. Si pensa spesso ai rapporti commerciali, ai flussi di capitale o alle catene del valore, ma la maggiore integrazione ha effetti anche sulle variabili della finanza pubblica. L’andamento dell’indebi­tamento di un paese finisce per dipendere anche da quello degli altri paesi, e le politiche espansive e restrittive attuate da uno Stato membro han­no inevitabilmente conseguenze anche sugli al­tri. Ciò significa che se il consolidamento fiscale avviene simultaneamente in tutti i paesi questo rischia di rendere più difficile e più lenta la con­vergenza verso il target di medio periodo. Come rendere possibile e credibile la riduzione del de­bito in presenza di eterogeneità e interdipendenza fra Stati membri sarà la sfida che avremo davanti nei prossimi anni. La Commissione già da qualche anno ha introdotto il concetto di posizione fiscale complessiva dell’Unione, che sintetizza l’orientamento complessivo delle politiche fiscali dei vari Stati membri. Tuttavia, finora questo indicatore ha rappresentato soltanto la somma delle singole posizio­ni fiscali nazionali, mentre esso dovrebbe rappresentare l’obiettivo complessivo dell’Unione da perseguire attraverso un opportuno mix di posizioni fiscali dei singoli paesi. Accanto alle questioni di eterogeneità e interdipendenza vi è poi un problema non meno rilevante legato alla necessità di discriminare fra spesa corrente e spesa in conto capitale. Ormai non vi è organismo internazionale che non segnali il ruolo fondamentale degli investi­menti pubblici nella determinazione dei tassi di crescita di lungo periodo e la necessità di individuare dei corretti incentivi da dare ai governi per favorirne il sostegno e il rilancio.

Purtroppo, al netto di qualche eccezione contenuta nella Comuni­cazione sulla flessibilità del 2015, le regole del Patto di stabilità e crescita non hanno consentito finora nessun trattamento di favore per gli investimenti pubblici. I governi si sono così trovati di fronte al dilemma fra generare un surplus di entrate sulle spese correnti con evidenti effetti distorsivi nel breve periodo, o rinunciare agli investi­menti con effetti nefasti sul medio-lungo periodo. Un po’ in tutta l’Unione, settori come l’educazione, la sanità, e la pubblica ammi­nistrazione stanno pagando oggi il prezzo di mancati investimenti negli anni passati.

La sfida è quella di mettere gli investimenti al centro del nuovo Patto di stabilità e crescita. Il Parlamento europeo si è già pronunciato lo scorso marzo con una risoluzione che – fra le altre cose – chiede alla Commissione di creare un quadro normativo e di governance più favorevole agli investimenti pubblici. Speriamo che questo pronun­ciamento costituisca un buon viatico per una governance economica europea adeguata alle sfide dei nostri tempi.